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In una celebre scena di Fino all’ultimo respiro, capolavoro cinematografico del 1960 di Jean-Luc Godard, la protagonista Patricia Franchini legge al compagno Michel Poiccard un passo tratto da Palme selvagge, opera cardine del premio Nobel William Faulkner: «Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore». È una citazione solo apparentemente fuori contesto e lontana dalla storia che Aliya Whiteley, autrice dall’immaginazione singolare e visionaria, racconta nel suo ultimo romanzo La muta. Si tratta del terzo libro della scrittrice inglese arrivato in Italia grazie a Carbonio Editore, che ha già pubblicato La bellezza (2017) e L’arrivo delle missive (2018), sempre con la traduzione di Olimpia Ellero. Se nei suoi romanzi precedenti Whiteley ha costruito mondi e creature lontane dal nostro spazio e dal nostro tempo, i personaggi de La muta sono donne e uomini normali, che svolgono lavori normali, in un mondo quasi normale dove si cambia pelle ogni sette anni. E assieme alla pelle, cambia ogni cosa.

«Perdere la pelle non è la tragedia che sta al centro della condizione umana. Provare la stessa cosa per sempre: questo è peggio».

Protagonista di questa storia inverosimile è Rose Allington, donna dalla imperturbabilità fittizia e dal coraggio effimero. Rose non riesce a ignorare il cambiamento in una società dove trasformarsi è la consuetudine. Soffre di una patologia molto rara nota come SME, sindrome della muta estrema, che la costringe a mute dolorose che la turbano in maniera profonda, sia fisicamente sia psicologicamente. Il passaggio da una pelle a quella successiva è così traumatico per lei che ogni volta è costretta a cambiare vita radicalmente. Rose ha trentotto anni ed è già stata un membro della Royal Air Force, addetta alla sicurezza in diversi locali, bodyguard, e infine commessa in un piccolo negozio di abiti di seconda mano.

Negli anni della sua vita da bodyguard, lavora per il famoso attore Max Black, con il quale ha un’intensa relazione amorosa. Max fa uso abituale di Suscutin, un farmaco sperimentale che riesce, se assunto regolarmente, a bloccare il processo di muta o quantomeno a ritardarlo. Su Rose, però, non ha effetto. Così, una notte del 2005, mentre è a casa di Max, vive la sua ennesima muta, costretta a lasciarsi alle spalle anche quella vita e quell’amore. Non sospetta minimamente che l’uomo che ha amato fino a quel momento conservi con inquietante morbosità le sue vecchie pelli in una camera blindata, e che conserverà anche quella persa da Rose quella notte, nel tentativo disperato di non lasciare andare il sentimento che li legava. Perché con la pelle si perdono ricordi, emozioni, amore. E Max, tornando a Godard che cita Faulkner, fra il dolore e il nulla sceglie il dolore.

«C’è chi l’amore lo brucia e chi lo seppellisce. C’è chi lo tiene chiuso a chiave o lo nasconde sotto al letto. C’è chi lo vende».

Con La muta Whiteley ha dato nuova forma e nuovi contenuti al genere fantascientifico. Tra queste pagine non ci sono creature strane, oggetti misteriosi o atmosfere post-apocalittiche, ma persone che in un’Inghilterra contemporanea non riescono a controllare il cambiamento, la vita che non attende. E cosa c’è di diverso da ciò che viviamo ogni giorno? Attraverso un unico elemento weird, la muta della pelle, l’autrice affronta temi attuali e al centro della riflessione sulla società moderna, come l’impellente necessità del cambiamento e l’incapacità di favorirlo fino in fondo per il timore di perdere definitivamente una parte di sé. O di chi si ama. Forse è proprio questo a rendere la storia disturbante e, in un certo senso, più vicina alla distopia. La vicenda narrata nell’ultima parte del libro è ambientata nel 2022, un futuro molto vicino a noi che non fa altro che aumentare il nostro senso di inquietudine.

«La sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato nel riprendere il passato non è così spiccata per gli altri: devo tenerlo a mente».

La muta è un romanzo che parla di corpi, soprattutto femminili, di sessualità, ma anche di controllo e mercificazione dei sentimenti. Se le vecchie pelli non sono altro che luogo della memoria dell’amore provato dal suo precedente possessore, il commercio clandestino di esse non è che un’allegoria poco velata della nostra società. Una società che non indugia nel concedere diritti che i cittadini di fatto non dovrebbero possedere: imporre una presenza, un amore, una vita passata, un corpo che non ci appartiene più.

Whiteley usa il corpo come metafora delle esigenze degli uomini. È proprio per questo che quando l’autrice fa riferimento a una stampa raffigurante un dipinto di Salvador Dalì – che Rose avevanella sua camera del college – non si fatica a immaginare che l’opera possa essere la celebre Giraffa in fiamme. Un corpo senza volto, asimmetrico, i cassetti usati per nascondere una vita passata che si fatica a dimenticare e che, nel vano tentativo di vagare pur essendo ancorati al suolo, si aprono contro la nostra volontà, lasciando andare via tutto ciò che ci è caro.

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