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Nadia Terranova è nata a Messina nel 1978 e vive a Roma. Ha pubblicato cinque libri per ragazzi tra cui Bruno il bambino che imparò a volare (Orecchio acerbo, 2012, illustrazioni di Ofra Amit, premio Napoli, premio Laura Orvieto), dedicato alla vita dello scrittore ebreo polacco Bruno Schulz, e Le nuvole per terra (Einaudi Ragazzi, 2015), un racconto di formazione sentimentale per preadolescenti e genitori. Ha esordito nel romanzo nel 2015 con Gli anni al contrario (Einaudi), storia d’amore di due ragazzi tra il 1977 e il 1989, vincitore dei premi Bagutta Opera Prima, Brancati, Fiesole, Grotte della Gurfa. Collabora con diverse riviste ed è tradotta in Francia, Spagna, Messico, Polonia e Lituania.

gli anni al contrario

Abbiamo rivolto alcune domande alla scrittrice focalizzandoci su Gli anni al contrario, in concorso per il Premio Biblioteche di Roma. Il libro è ambientato in un’atipica Messina dalle forme minimali, attraversata dal fermento e dalle contraddizioni degli anni Settanta. La ricerca di una collocazione nel mondo e il provincialismo; il comunismo, il fascismo e il terrorismo; le aspirazioni giovanili e le delusioni della crescita; la responsabilità e l’immaturità e poi le famiglie chioccia e la solitudine di ogni individuo: la storia dei protagonisti, Giovanni e Aurora, tocca con delicatezza e disincanto le tappe fondamentali della vita di due giovani che diventano adulti quasi senza accorgersene o senza volerlo. La penna di Nadia Terranova è sempre ben diretta e attenta a tratteggiare il reticolo delle relazioni interpersonali con tutte le complessità e le piccole vittorie intermittenti del caso. Sullo sfondo un affresco particolare di quel decennio che scombussolerà l’Italia e il mondo, entro il quale si iscrive un’intera generazione che pare non aver fatto ancora i conti con le radici del proprio passato.

Nel lavoro di scrittrice è sempre difficile trovare un equilibrio tra la propria esperienza biografica e una certa universalità della storia e dei personaggi che riesca a penetrare la mente di diversi lettori. Come ci si riesce?

Cerco questa sintesi attraverso una forma di autotortura, senza clemenza, se parto da una storia che mi riguarda in modo più evidente delle altre, come è successo per Gli anni al contrario, mi chiedo continuamente, più del solito, perché dovrebbe interessare ai lettori, come possono trovarci qualcosa di universale. Difficile trovare risposte razionali in fase di scrittura, si procede per tentativi, però ho capito una cosa apparentemente paradossale: se la storia che stai raccontando non ti sembra universale vuol dire che non è abbastanza autobiografica. Non le hai prestato abbastanza sangue, non hai denudato la tua vita e quindi suona falso usarla per quei personaggi, anche e soprattutto quelli più lontani da te.

Quando cominci a lavorare a una storia, hai chiaro il suo svolgimento fin dall’inizio oppure ti lasci guidare dall’evoluzione dei tuoi personaggi e procedi ridefinendo la trama di volta in volta?

Di solito ho presente come finirà, non nel senso dello specifico episodio di trama, ma dell’atmosfera che voglio che l’intera storia lasci dopo l’ultima pagina. Quel confine guida in parte la narrazione, ma di fatto tutto si ridefinisce scrivendo, e mi servono diverse stesure prima di afferrare il vero centro del romanzo. Il rischio costante di tradire l’idea iniziale si rivela quasi sempre l’unico modo per esserle fedeli.

Lo scorcio degli anni ’70 che fa da sfondo al tuo ultimo libro Gli anni al contrario ci è sembrato strutturante e al tempo stesso non invasivo. La storia racconta di relazioni interpersonali, amori, paure e solitudini e di un rapporto complesso tra individui e opinione pubblica. In questo senso potrebbe essere ambientata anche in un altro momento storico oppure è indissolubilmente legata ai Settanta?

No, non funzionerebbe fuori da quel decennio, me lo sono chiesto anche mentre scrivevo. Di quella Storia arrivano solo gli echi, ma gli urti sulle persone, sui loro corpi e sulle loro vite sono precisi e non possono essere esposti a variabili cronologiche.

Come ti sei rapportata agli altri libri italiani sulla lunga stagione degli anni ’70?

Ne ho letti molti, li leggo da quando ero ragazzina; quelli che mi hanno davvero colpito sono Armi e bagagli di Enrico Fenzi, Fate la storia senza di me di Albertino Bonvicini, Tornavamo dal mare di Luca Doninelli e L’eskimo in redazione di Michele Brambilla. Libri molto diversi: quello di Doninelli è un romanzo, anche se sono distinguibili personaggi realmente esistiti, quello di Fenzi è il memoir più onesto fra quelli che ho letto, quello di Brambilla è una collezione di articoli sbagliati dei giornalisti italiani dell’epoca utile per capire la confusione e gli abbagli nell’analizzare il terrorismo in corso, la storia personale di Bonvicini mi ha toccato perché il suo modo di essere sbagliato e outsider mi ricordava quello del mio protagonista. Tra i romanzi più recenti, della generazione più giovane (anche se un po’ più grande di me), ho trovato molto bello Come un respiro interrotto di Fabio Stassi. In generale, però, credo di non essere stata influenzata tanto dai libri sugli anni Settanta quanto da quelli sulla guerra (Rigoni Stern, Lussu, Pavese) e sulla famiglia (Natalia Ginzburg). Per me Gli anni al contrario è un libro di resistenza, che racconta come si resiste o si soccombe agli urti della vita, come si vive in uno stato perenne, a volte confuso ma sempre ostinato, di rivolta contro la famiglia e la società.

Il titolo Gli anni al contrario fa pensare a un conto alla rovescia in cui i protagonisti sembrano tornare bambini in un processo di decostruzione della propria vita perché incapaci di costruirla. È corretta questa impressione?

Hai ragione, è una delle interpretazioni possibili. Un’altra si scopre nell’epilogo, quando il lettore capisce che il passato è stato rivissuto a partire da un punto molto preciso al centro del presente, come riannodando il nastro, come i reverse delle vecchie audiocassette.

L’esigenza di trovare un proprio ruolo all’interno della società è il motore dell’esistenza dei due personaggi principali, soprattutto Giovanni. Credi che i coetanei reali del tuo personaggio, a oggi, abbiano trovato come generazione quel posto nella società? Oppure i loro figli stanno ancora subendo quel cortocircuito irrisolto?

Lo cercano in un modo diverso, che non è più politico neanche quando apparentemente è dentro la politica. Prima era il contrario: era tutto politico anche quando non lo era.

Nel 1989, insieme al Muro di Berlino, muoiono anche le storie di Giovanni e Aurora. Dove sono finiti il capitale politico-culturale e la vocazione associativa accumulati in quella stagione? Possibile che quel fermento sia evaporato senza lasciare tracce che riescano a incidere sul presente?

La mia generazione in termini di condivisione e associazione ha fatto dei passi indietro. Poi è esploso l’internet dei social network e il concetto di condivisione è cambiato radicalmente offrendo nuove potenzialità che però spesso vengono sfruttate solo in modo molto povero.

Esiste un tipo di genitorialità degli anni ’70 politicizzata e disattenta nei confronti dei propri figli?

Onestamente, è difficile definire il modo di essere genitori di un’intera generazione. In mezzo a molti sbagli (ma in quali anni non se ne fanno?) i miei genitori hanno il merito non scambiabile con nient’altro di avermi fatto sentire fin da piccola una persona che poteva fare tutto, che doveva ricercare quello che desiderava senza mai sentirsi condizionata, per esempio, dall’essere maschio o femmina. Vale più di cento disattenzioni; se poi per disattenzione si intende non aver fatto i compiti al pomeriggio tenendo la mano ai figli, be’, direi che a fare i compiti da soli, a prendersi subito le prime responsabilità a misura di bambino, si sopravviveva benissimo e si cresceva anche meglio.

L’avvocato comunista e il padre fascistissimo sembrerebbero culturalmente molto distanti, ma sono in realtà uniti da una certa concordanza d’animo. È come se il loro rapporto fosse una sorta di compromesso storico relazionale?

Già. E poi direi che su di loro, più che il fascismo e il comunismo, poté il provincialismo.

Nel caratterizzare le figure dei due padri, lungo le pagine del libro, si avverte una crescente indulgenza nei loro confronti rispetto alla feroce critica dei figli. C’è in questo senso uno scontro generazionale forte che si risolve nella vittoria dei più anziani?

No. Alla fine del romanzo hanno perso tutti, i vivi e i morti, tranne la bambina che sopravvive per raccontare quello che ha visto. È la sola forma di vittoria possibile.

La figura della casa in miniatura è un espediente per rappresentare la difficoltà della coppia protagonista a maturare?

La borghesia meridionale di solito possiede case molto grandi, patronali, anche in città. Andare ad abitare in un appartamento piccolo, estraneo, in affitto, segna da subito la condizione subalterna, di non autonomia economica e insieme di rottura generazionale, di diffidenza dei padri nei confronti di questi figli ventenni: la casa grande sarebbe arrivata come un premio se le loro strade fossero state ortodosse, laurea nobile, libera professione, niente grilli per la testa… Quella casa significa: ci fidiamo di voi, ma non abbastanza. E intanto diventa il luogo della claustrofobia matrimoniale dei due ragazzi.

Hai mai pensato di lavorare a un secondo libro in cui raccontare la vita dei figli di Giovanni e Aurora nel nostro presente?

Tutti i libri in cui parlo del presente sono per me, potenzialmente, libri sui figli di Giovanni e Aurora.

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