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Il quartiere romano di Torpignattara dista circa 6 km dal cuore politico della città situato in centro, a due passi dal Colosseo. Dal Campidoglio a via Ludovico Pavoni, dove nell’estate del 2014 viene ucciso il giovane pakistano Shahzad, si impiegano poco più di 15 minuti di macchina sperando che il traffico cittadino non moltiplichi il tempo di percorrenza; quando il trasporto pubblico non è in sciopero e tutto sembra andare per il meglio, invece, il tragitto dal centro città simbolico alle vie del quartiere meticcio della capitale arriva fino a 45 minuti: ma questo, quello logistico, è solo uno degli aspetti che hanno contribuito a trasformare Torpignattara, in seno all’opinione pubblica, nella Molenbeek d’Italia. Le narrazioni di politici in malafede e giornalisti distanti dalla realtà o dediti allo sciacallaggio mediatico l’hanno raccontata come una periferia lontana e criminogena dove orde di immigrati occuperebbero il suolo patrio. Così quel «palo della morte» dove Enzo, alias Carlo Verdone nel film Un sacco bello, dà appuntamento a un conoscente per fuggire da Roma alla volta della Polonia, diventa il simbolo di una periferia percepita come remota. Il luogo dove il 18 settembre 2014 intorno alle 23 Shahzad viene ucciso da un minorenne romano incitato dal padre al grido «ammazzalo».

Quello che si respira in Al palo della morte, libro-inchiesta di Giuliano Santoro edito da Alegre (uscito nel 2015) è un’aria di restituzione alla realtà di concetti come periferia, emergenza, decoro, migrante, razzismo nella loro declinazione linguistica e socio-politica. Il giornalista e scrittore prende spunto dall’uccisione di Shahzad per raccontare il contesto del quartiere e riallacciare i fili di una tela complessa in cui la capitale italiana diventa ancora una volta lo specchio delle contraddizioni dell’intero paese. Santoro racconta la vicenda dell’omicidio costruendole intorno un reticolo di fatti storici, politici e urbanistici e tenendoli sempre a stretto contatto con le conseguenze sociali che questi hanno avuto e avranno sul tessuto cittadino. Quel che se ne cava è un affresco sostanzioso di Torpignattara quartiere aperto, una ricostruzione puntuale alla ricerca della verità che disvela le radici della confusione in merito a quella fetta di Roma e d’Italia.

Torpignattara è la continuazione naturale del quartiere Pigneto sito a nordovest. Qui, gentrification ha significato il sorgere di localini, studi di grafica, enoteche e ristoranti. C’è chi affitta e compra casa da queste parti per respirare la presunta atmosfera di fermento laboratoriale; un ambiente nel quale italiani e stranieri si mischierebbero senza badare a differenze e dove consessi di aspiranti attori, scrittori o di qualsivoglia umanistica attività si riuniscono attorno a tavolini e cocktail per celebrare il fascino della decadenza, che quel tocco di degrado a guarnire le strade renderebbe ancor più letteraria. Pochi sanno spiegare, come illustra brillantemente Santoro, il processo di gentrification:

Ogni gentrification non è mai un processo lineare, unidirezionale, meccanico. Non è pura speculazione perché riqualificare un quartiere mettendone a valore la sua identità significa aprire dei conflitti e toccare nervi scoperti. I migranti sono strutturalmente necessari alla gentrificazione, non sono soltanto un effetto collaterale, quello che gli economisti liquiderebbero come esternalità negativa. I migranti servono dapprima ad accumulare capitali in nero, affittando a caro prezzo, mettendo da parte i quattrini necessari alla riqualificazione. Col vantaggio non secondario di creare ghetti temporanei e utili, capaci di produrre una svalutazione di alcuni immobili. Nella fase successiva, quella della trasformazione di magazzini in loft e dei vini e olii in cocktail bar i migranti servono anche come forza lavoro: l’impiego della mano d’opera a nero consente il passaggio dei capitali clandestini accumulati con gli affitti alla rendita.

Come spiega l’etnografo Francesco Pompeo che ha studiato il Pigneto e Torpignattara «la liquidità sfugge al controllo e al prelievo fiscale. Senza passare propriamente per la produzione entra direttamente nel circuito della finanziarizzazione/speculazione». Da ciò, argomenta poi Santoro, deriva «l’impoverimento dei territori, che opera come una tenaglia. Da una parte i prezzi aumentano e il quartiere si apprezza, dall’altra non cresce la capacità del pubblico di rafforzare servizi e tutelare diritti».

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A sudovest invece la zona di Torpignattara confina con il quartiere medio-borghese Appio-tuscolano che non immagina minimamente il melting pot della zona limitrofa. Ma sono confini invisibili che servono a delimitare idealmente il perimetro di un quartiere pienamente inserito nella città. Torpignattara potrebbe definirsi infatti una zona semi-centrale dal momento che l’espansione abnorme di Roma, dettata dalla speculazione edilizia, ne ha allontanato sensibilmente le periferie. Ed è così che soprattutto proprio dal vicino Appio-tuscolano nel corso del 2013 sono partiti i cosiddetti bangla tour, una serie di raid e pestaggi contro cittadini del Bangladesh che gestiscono piccoli negozi aperti anche la sera. Le forze dell’ultra-destra romana hanno firmato e fomentato gli attacchi xenofobi beneficiando non solo di una certa clemenza generalizzata nell’opinione pubblica e nei media, ma soprattutto di una disattenzione campanilista che ha creato dei pericolosi cortocircuiti linguistici.

In questo senso pare davvero esemplificativa la breve di cronaca diffusa per dare notizia della morte di Shahzad:

A via Ludovico Pavoni, alla periferia sudest di Roma, un pakistano di 28 anni è stato ucciso da un ragazzo. Pare che l’extracomunitario fosse ubriaco e si fosse rivolto in modo provocatorio, sputando in faccia ad un minorenne romano e causandone l’esplosione di rabbia. Lo straniero è stato colpito dal giovane. È caduto per terra ed è morto.

Le inesattezze e le interpretazioni libere sono numerosissime in così poche righe. Come detto è difficile definire Torpignattara una periferia. La vittima poi è solo un pakistano, evidentemente per il giornalista non ha un nome. Come Santoro sottolinea, parlando di un pakistano invece che di un giovane pakistano si dà maggiore rilevanza a un certo aspetto dell’individuo, conferendo «implicitamente maggior peso alla nazionalità come dimensione determinante di una persona, come parte essenziale del suo carattere». Inoltre il pakistano è ubriaco e provocatorio (fatto che sarà smentito alla fine delle indagini), una condizione che fornirebbe già un’attenuante al ragazzo italiano che lo avrebbe colpito di conseguenza. Ciò che risulta ancora più interpretativo è il pezzo in cui si scrive: Lo straniero è stato colpito dal giovane. Si usa la forma passiva più frequentemente quando l’autore del reato è italiano, secondo gli studi sul linguaggio dei media. Ciò per sottolineare come «la manipolazione del contesto aumenta la diffidenza verso colui il quale viene descritto come diverso».

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Santoro viviseziona parole, quartiere e città rintracciando le origini di alcuni status quo che si danno per scontati. Il quadro che emerge, come descritto, è molto distante dalle rappresentazioni offerte e Al palo della morte è uno strumento preziosissimo per inquadrare le origini multietniche di Torpignattara e per capire come approcciare la sfida dell’accoglienza in Italia. Pochi sanno per esempio che la concentrazione di migranti di Torpignattara comincia da una vicenda avvenuta nei primi anni Novanta. In occasione dei Mondiali di calcio da disputarsi in Italia le autorità decidono di ripulire il centro ad uso e consumo dei turisti. Così una moltitudine di migranti viene deportata ai veri pali della morte romani, in quella profonda periferia (come Tor Sapienza) dove le conseguenze di un atto così miope si rifletteranno in alcuni fatti di cronaca a noi più vicini. Tuttavia alcuni migranti decidono di organizzarsi e trovano rifugio all’ex pastificio Pantanella abbandonato da più di un quindicennio. In questo grande complesso contornato da edifici industriali, a due passi dal centro e  ai limiti delle mura Aureliane che confezionano quella che fu la Roma Antica, si ritrovano più di tremila rifugiati.

Ex Pantanella (1990). Foto di Stefano Montesi

Agli albori della costruzione dell’immaginario di emergenza delle migrazioni, in un’Italia in cui si stanno affacciando le spinte politiche più oltranziste nei confronti del diverso, alla Pantanella si confrontano venti nazionalità e quarantadue lingue diverse con tanto di comitato di gestione della comunità con 17 membri: 8 pakistani, 4 bengalesi, 3 arabi e 2 indiani. Il gruppo pakistano e quello bengalese si trasferiranno più tardi a Torpignattara.

La torre di Babele italiana è una macchina funzionante con barbiere e ristoranti etnici e, nonostante le evidenti controindicazioni relative alle difficoltà igieniche e sociali di una tale concentrazione di persone, rimane un modello di convivenza civile. Purtroppo rimane anche la palestra di quel gergo (soprattutto giornalistico) che avrebbe imperversato nei successivi venticinque anni: espressioni come hotel immondezzaio per vù lava’, inferno pericoloso, fabbrica degli extracomunitari o covo di terrotisti faranno da apripista per le narrazioni future della migrazione.

Al palo della morte si pone in antitesi a questo tipo di degenerazione. Racconta la storia dell’omicidio da un punto di vista allargato che ingloba tutti quegli aspetti sociali, politici e mediatici che troppo spesso non si ha il tempo o la voglia o il coraggio di approfondire. È un manuale di istruzioni per capire un processo, quello migratorio, che è e sarà al centro del nostro secolo e ci definirà come società e cultura. Shahzad, giovane pakistano arrivato in Italia per avere migliori opportunità di vita non ha avuto possibilità. È stato emarginato, impossibilitato a entrare nel tessuto economico e sociale del nostro paese, e poi è stato improvvisamente ucciso da un giovane italiano vittima dei propri modelli educativi.

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A Roma, per il momento, non esiste nessuna Molenbeek fucina di terroristi. Esistono invece alcune zone in cui i migranti si concentrano e per lo più convivono in modo pacifico e solidale con i cittadini italiani (come dimostra l’esperimento virtuoso della scuola Pisacane di Torpignattara); oppure convivono nel segno dell’indifferenza ai limiti dell’auto o etero-segregazione: è qui che bisogna colmare il gap di comprensione che sembra provenire in primis dalle istituzioni politiche o da parte di un becero giornalismo di cui non si avverte la necessità. La situazione dell’integrazione rimane complessa e l’assenza dello Stato getta in confusione, ma l’attitudine alla solidarietà e all’accoglienza rimangono tratti costituenti della nostra cultura. Questa scritta apparsa sulle mura di un palazzo del Pigneto riassume tutta la confusione e insieme la disponibilità di un quartiere ormai di fatto meticcio: «Più Immigrazione Meno Erasmus».

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