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Pubblichiamo oggi un estratto dal saggio di Liborio Conca, Rock Lit, uscito per Jimenez Edizioni.
Ringraziamo autore ed editore. 

Star Me Kitten

Nel 1991, con OUT OF TIME, i R.E.M. diventarono una delle band più famose del pianeta. Losing My Religion risuonava ovunque, in un’annata che per uscite musicali non è da considerare seconda a molte altre. La band di Michael Stipe, Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry era attiva già dai primi anni Ottanta, ma il successo commerciale non era mai arrivato come allora, nonostante sette album già pubblicati, tra cui MURMUR, FABLES OF THE RECONSTRUCTION e LIFES RICH PAGEANT. Nelle canzoni dei R.E.M., già prima dell’esplosione di OUT OF TIME, colpivano i riff di chitarra (Talk About the Passion, So. Central Rain, per citarne un paio), le armonie a volte vicine alla perfezione (Fall on Me o Perfect Circle, per citarne un altro paio) e le parole cantate da Michael Stipe, quelle parole che «dovevano volare» e che cercavamo di catturare ascoltando le canzoni, dai testi oscuri che evocavano scenari misteriosi. Hit internazionali come Shiny Happy People cambiarono tutto, trasformando i R.E.M. in qualcosa che somigliava agli U2. Era ancora l’età d’oro di Mtv e i videoclip giravano a ogni ora. Gli stessi R.E.M. si esibirono in uno dei concerti Unplugged – prodotti da Mtv – più riusciti della serie.

Adesso i R.E.M. non esistono più. Il loro ultimo album, COLLAPSE INTO NOW, uscì nella primavera del 2011; si sono sciolti lo stesso anno, il 21 settembre, l’ultimo giorno dell’estate. Era da tempo che una certa stanchezza s’era affacciata fra i tre (Bill Berry, il batterista, aveva lasciato già nel 1997). Negli anni, Michael Stipe si andava interessando più alla fotografia e alla scultura che alla musica. L’alchimia non era più – non poteva più essere – quella degli anni Ottanta, tanto che le interviste venivano condotte in camere separate. Alla fine, onorato il contratto discografico con Warner Bros, una presa d’atto che trasuda rispetto e sincerità verso se stessi e i fan, i R.E.M. si separarono. Scrissero in un comunicato sul loro sito:

“Come R.E.M. e come amici e co-cospiratori, abbiamo deciso di chiudere la nostra storia come band. Abbandoniamo le scene con un grande senso di gratitudine, di realizzazione e di stupore per tutto quello che abbiamo realizzato. A tutti quelli che si sono emozionati con la nostra musica, i nostri più profondi ringraziamenti per averla ascoltata.”Aggiunse Stipe: “Un uomo saggio ha detto una volta: «Il segreto per partecipare a una festa è sapere quando arriva il momento di andarsene». Insieme abbiamo costruito qualcosa di straordinario. L’abbiamo fatto. E ora è il momento di andarsene.” Pensando che si tratta degli autori di Nightswimming, Country Feedback e Strange Currencies un addio così elegante non sorprende più di tanto.

Ad ogni modo, subito dopo OUT OF TIME, nel 1992 i R.E.M. se ne uscirono con AUTOMATIC FOR THE PEOPLE, un disco che è da più parti considerato il loro capolavoro: compare spesso nelle liste degli album preferiti di ogni tempo, che si tratti di elenchi stilati da critici o semplici ascoltatori. La tracklist include pezzi come Man on the Moon, Everybody Hurts, The Sidewinder Sleeps Tonite e Find the River, ma è alla canzone numero nove che bisogna fermarsi. Il pezzo si chiama Star Me Kitten, e musicalmente è una delle canzoni più dolci dell’album, almeno ai primi ascolti. Perché in realtà, più che dolce, è una canzone languida, sensuale. Le note suonate dalla chitarra sembrano sciogliersi su loro stesse, rincorrendosi; e un basso pulsante come un cuore rallentato, e la batteria assente se non fosse per i piatti, accarezzati. Michael Stipe canta in una modalità che può apparire sommessa/sussurrata, ma che a ben vedere, per tradurla in un’immagine, è più che altro qualcosa che somiglia al fuoco che cova sotto la cenere. Star Me Kitten racconta di una relazione finita, dal punto di vista di lui, una storia talmente al capolinea che lui, la voce narrante, ha cambiato la serratura di casa. Il fatto, però, è che come accade molte volte non è finita del tutto. C’è ancora attrazione tra questi due tipi, nonostante la stanchezza, nonostante il tempo passato (“You. Me. We used to be on fire”), tanto che alla fine la richiesta covata per tutta la canzone è diretta, esplicita: “Just fuck me kitten. You are wild and I’m in your possession”.

Nel bel mezzo degli anni Novanta, ai piani alti delle case di produzione Fox e Warner Bros decisero di far uscire una compilation di canzoni collegate alla serie televisiva X-Files, ai tempi del suo massimo successo. Le canzoni incluse potevano essere state usate come colonna sonora di alcune scene della serie, o in alternativa dovevano essere in qualche modo riconducibili alle atmosfere delle storie su cui indagavano gli agenti Fox Mulder e Dana Scully. La compilation (SONGS IN THE KEY OF X: MUSIC FROM AND INSPIRED BY THE X-FILES) uscì nel marzo del 1996, ottenne ottime recensioni e buone vendite. La tracklist aveva in effetti qualcosa di extraterrestre, dal momento che metteva insieme Nick Cave and the Bad Seeds, Foo Fighters, Meat Puppets, Sheryl Crow, Alice Cooper e Rob Zombie, Brian Eno con Elvis Costello. E poi l’ensemble più curioso: i R.E.M. con William S. Burroughs.

Ora, quello che c’entrava di più con gli alieni, tra i R.E.M. e Burroughs, era proprio il vecchio santone della letteratura beat. Chi ha letto i libri di Burroughs o ha una non troppo vaga idea delle sue storie (e della personalità del loro autore, soprattutto) non si meraviglierà più di tanto nel sapere che lo scrittore di Pasto nudo era intimamente certo dell’esistenza degli alieni: «Sono sempre stato convinto che gli alieni, o qualunque altra cosa siano, sono un fenomeno reale. In diversi racconti di rapimento alieno ci sono contatti sessuali. Sembra proprio che il motivo sia quello» scrisse in My Education. A un certo punto della sua vita insistette molto per visitare lo scrittore Whitley Strieber, autore di romanzi horror di successo, nonché di un libro in cui raccontava di essere stato rapito dagli alieni, una circostanza che Burroughs invidiava al collega («Penso di essere una delle persone più importanti di questo pianeta di merda e se avessero un briciolo di buonsenso si sarebbero manifestati» disse in un’intervista). A un certo punto, come racconta Barry Miles nella sua biografia, Burroughs iniziò a far crescere l’erba del prato – nella casa di Lawrence, in Kansas, dove trascorse l’ultima parte della sua vita – per poi “scolpire” il disegno di un pene eretto, sul modello dei cerchi nel grano. Un modo decisamente burroughsiano per tentare di stabilire un contatto con gli extraterrestri.

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Si capisce, a questo punto, perché quello di Burroughs fosse un nome validissimo da spendere nella compilation ispirata a X-Files. Michael Stipe, che tanto gli doveva per la tecnica del cut-up, era riuscito a conoscere Burroughs nei primi anni Novanta, quando andò a trovarlo a Lawrence in compagnia dei Sonic Youth (c’è una foto che ritrae Kim Deal, Michael Stipe e lo scrittore, seduti nel giardino di casa: Kim e Michael lo fissano, lui guarda l’obiettivo, reggendo in una mano un bicchiere e nell’altra un bastone). «Il metodo del cut-up ha influenzato tantissimo la direzione presa dal mio lavoro, mi ha permesso di guardare oltre l’ordinario lasciando spazio al pensiero inconscio» disse Stipe più tardi. Lui e Burroughs continuarono a sentirsi di tanto in tanto, fino alla collaborazione per Star Me Kitten. Il testo della canzone fu parzialmente riscritto da Burroughs, e quindi declamato dallo scrittore stesso sulla base musicale del pezzo. Prima di iniziare a cantare, Bill premette di aver messo del suo in una canzone di qualcun altro, e di aver pensato a Lili Marlene, a Marlene Dietrich («Non è una delle mie persone preferite, ma è da lì che viene») e poi attacca la sua recita: legge, stira certe parole, a volte prova ad arrampicarsi, inseguendo note, plausibilmente per accordarsi sulla tonalità degli alieni.

Quanto a Michael Stipe: più recentemente non ha mostrato grande riconoscenza verso il vecchio Bill. Nel 2015 un giornalista e editore americano, Aaron Hicklin, gli ha chiesto di indicare dieci libri imprescindibili da poter consigliare ai clienti della sua libreria/installazione – aperta da Hicklin a Narrowsburg, vicino New York – per un progetto che coinvolge artisti, scrittori, celebrità. Nella decina di Michael compaiono Arthur Rimbaud («a causa di Patti Smith ho letto tutta l’opera di Rimbaud, a sedici anni»), Lolita di Vladimir Nabokov («per l’umorismo, la comprensione dell’umanità, il brivido del linguaggio»), Joan Didion («forse la genesi di alcune mie ossessioni»), Kurt Vonnegut («mi ha insegnato l’ironia»), Françoise Sagan («era una scrittrice così giovane, e molto francese nella sua disperata ed elegante malinconia»). Ancora: Patti Smith (Just Kids), le commedie di Aristofane, Samuel R. Delany, il Douglas Coupland di Tutte le famiglie sono psicotiche. C’è Jack Kerouac con On the Road, il libro «che è diventato il modello della mia band». E niente da fare per te, Bill, anche se te ne sarebbe fregato meno del funzionamento di una lavanderia cinese.

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