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«Se questo ragno avesse al posto del corpo una testa d’uomo che ti guardasse fissamente da terra? Tu che faresti? T’ammazzeresti, no?»
«Io? Io non ci penserei neppure. Perché diamine dovrei ammazzarmi! Piuttosto ammazzerei lui.»
«Io sì, io m’ammazzerei. Perbacco, vivere in un mondo dove sono possibili cose di questo genere!».

Tommaso Landolfi, Il babbo di Kafka, contenuto in La Spada, Rizzoli, 1976

Siamo nel 1942 quando Vallecchi dà alle stampe quella peculiare antologia del Landolfi intitolata La Spada. Nobile capriccioso oltre che melanconico erudito, dopo aver narrato un fosco sabba orgiastico ne La Pietra Lunare e aver raccontato, tra le altre cose, di lupi mannari impegnati ad agguantare la luna o di avvocati che si dilettano a ciarlare con i sorci, Landolfi mette in scena un variopinto teatro espressionista, con protagonisti tenie mistiche, simposi canini, lame atte a fendere ogni superficie, accompagnati da una nutrita schiera di ulteriori diavolerie.

Se è vero che l’interesse dello scrittore è fondamentalmente teso alla ricerca di una lingua squisita, con una prosa vergata in punta di fioretto, si manifesta in queste pagine la potenza estetica di un immaginario eccentrico che oggi, forse, non si esiterebbe a definire weird.

Questo aggettivo evoca, agli occhi dei lettori avvezzi al genere, una raffica di immagini invischiate con il viscido e l’occulto, magari con lo zampettare di arti insettoidi o il gorgoglìo abissale di esseri lontani di sottofondo; se si dovesse poi ricondurre il tutto a un volto, ci vedremmo subito comparire davanti l’autorevole mento pronunciato di H.P. Lovecraft; gli orrori del pessimista di Providence, pur descritti spesso per sottrazione, tratteggiati cioè per impressioni o delineati attraverso inafferrabili suggestioni, troppo spaventosi per essere compresi nelle comuni parole, hanno generato un bacino iconografico arricchito giorno dopo giorno da nuove interpretazioni, nonostante siano passati ormai un po’ di anni dall’uscita delle storie sui Grandi Antichi. Del resto, il filo che lega le immagini alle parole, nell’ambito della narrativa fantastica, si dipana nel tempo secondo logiche non banali da ricostruire.

Nel 1918, prima ancora che Lovecraft riuscisse a pubblicare il suo racconto d’esordio, The Tomb, a Monaco venne dato alle stampe il primo numero di Der Orchideengarten, rivista diretta da Karl Hans Strobl, curata da Alfons von Czibulka, con la copertina a colori dell’illustratore Otto Muck. Il giardino delle orchidee viene ricordata come una delle prime pubblicazioni seriali interamente dedicata al fantastico, dato che precede di qualche anno il più noto magazine Weird Tales, fondato a Chicago nel 1923; al suo interno troviamo storie dalle tinte surreali, di stampo meticcio, che intrecciano influssi metafisici, gusto pulp e elementi orrifici. Come scritto da Alessandro Fambrini, nella prefazione alla pregevole selezione italiana edita da edizioni Hypnos: «è soprattutto la parte illustrativa a costituire il punto di forza della rivista. Ogni numero presenta una copertina a colori, alla cui realizzazione si alternano artisti diversi per tecnica e stile, ma che mantengono ferma un’impronta comune, in cui l’eleganza e la sinuosità un po’ demodé delle linee Jugend viene virata verso una sensibilità fantastica, sensuale, morbosa, popolata di fiori carnosi, insetti giganti, demoni, scheletri e idoli pagani».

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Se è vero che Strobl, grazie ai suoi racconti, diventa una delle figure centrali del fantastico tedesco del primo ‘900, a fianco di H.H. Ewers e Gustav Meyrink, artisti come Otto Linnekogel, Carl Rabus o Heinrich Kley, impiantano occulti semi nell’immaginario collettivo, che germoglieranno anche a distanza di anni. Nel 2015, chiamato a illustrare per Einaudi la copertina della trasposizione italiana di Annihilation, il primo volume della trilogia dell’Area X di Jeff VanDerMeer, romanziere statunitense esponente di punta della corrente New Weird, Lorenzo Ceccotti tratteggia il volto di una figura femminile che fuoriesce dalla fitta boscaglia, in una amalgama simbiotica dalle tinte smeraldo. Annientamento si ambienta in una zona dominata da forme biologiche misteriose, studiata da una spedizione scientifica composta da quattro anonime scienziate: un’antropologa, una topografa, una biologa e una psicologa; il disegnatore romano opta quindi per una soluzione che sintetizza felicemente le componenti costitutive della vicenda, conservando al contempo uno stile affine alla sensibilità «fantastica, sensuale e morbosa» tipica del Der Orchideengarten.

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Povero Landolfi, chiamato in causa nell’incipit e poi brutalmente smarrito durante questo contorto volo pindarico. Dire che nelle sue pagine le stranezze prendono vita senza neanche dover ricorrere all’ausilio delle immagini; schegge stranianti si inseriscono nel flusso del racconto, provocando un reale stillicidio grottesco in cui il lettore è chiamato a nuotare per rimanere a galla.

Un artificio che riusciva per niente male anche E.T. A. Hoffmann, altro autore tedesco che in fatto di racconti e di grottesco qualcosa in merito da dire lo aveva. Nella sua opera più famosa, Der Sandmann (L’uomo della sabbia) pubblicata tra il 1816 e il 1817, all’interno della raccolta Racconti Notturni, le diaboliche trasfigurazioni del luciferino Coppelius/Coppola irrompono nella pagina spezzando il ritmo narrativo, senza essere annunciate da un incedere climatico. Anticipando di diversi anni espedienti cinematografici consolidati, lo scrittore utilizza repentine carrellate per instillare terrore puro nel lettore, colpito a tradimento da una struttura che non lascia modo di cautelarsi adeguatamente contro le improvvise esplosioni di orrore.

In questa sua sistematica coniazione di visioni, sviluppata inseguendo l’incisività del genere fiabesco, risiede buona parte della modernità di Hoffmann, oltre che l’eco dei molteplici interessi, tra cui la pittura e la composizione musicale, che lo hanno accompagnato per tutta la vita. Sia in Landolfi che in Hoffmann osserviamo la parola farsi immagine, attraverso però approcci dettati da voci difformi: virtuoso surreale il primo, latore di paura viscerale il secondo; a questo punto, un pubblico puntiglioso mugugnerebbe: «se il tema è il rapporto tra parole e immagini, perché tacere di Manganelli allora, o di Lewis Carroll o di Angela Carter». In effetti dargli torto è difficile ma l’ora inizia a farsi tarda e nella foschia notturna sembra profilarsi un volto umano con corpo d’aracnide. Magari, superata la nottata ne riparliamo.
Magari.

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