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C’è un grande assente in tutti i master/corsi/specializzazioni che hanno a che fare con l’editoria. Fateci caso. Quando viene chiesto ai masterizzandi perché sono lì e cosa puntano a fare una volta usciti, le risposte non sono tra le più varie.

«Voglio lavorare in Adelphi»

«Voglio farmi agganci per pubblicare il mio romanzo rivoluzionario di cui nessun editore è ancora riuscito a capirne il valore»

Oppure:

«Voglio fondare una casa editrice che pubblichi solo quegli illeggibili e meravigliosi libri che nessuno pubblica» «E chi li compra?» «Io» “E come campi?» «Con la gloria!»

O anche:

«Devo fare l’editor in Einaudi» «Devi o vuoi?!» «Devo. (pausa) È il destino che è stato scritto per me» «Ma magari potresti partire da correttore bozze e poi vedere se…» «NO. Editor. In Einaudi» «E come pensi di riuscirci?» «Ho il mezzo giusto per farmi lasciare il posto dagli editor attuali» «Il mezzo giusto?!» «La mia katana comprata direttamente dal Giappone» «E… se non riuscissi?» «Non è possibile» «Ma SE non riuscissi?» «Nel caso venissi meno al mio destino (sospiro) sono pronto ad affrontare la vergogna attraverso l’antico rituale giapponese del seppuku (del resto: l’ha fatto Mishima; e quel che serve nella vita è solo un buon esempio letterario da cui trarre ispirazione)»

E così via, aggiungendo tre o quattro «ufficio stampa» (scelta moderatamente masochistica ma non più delle altre possibili nel mondo editoriale), un paio di «ufficio diritti, stuoli di «redazione» detti con quel gaudio che solo l’ignoranza può rendere così puro e innocente, alcuni – in incremento – «social media manager & web editor» che pensano di avere fiutato l’andazzo del mondo, e poco altro.

Come dicevo, c’è un grande assente. È come il classico parente che mette sempre in imbarazzo ai ritrovi famigliari di Natale e che per il resto dell’anno si fa finta che non ci sia. È quello che spegne sogni e gloria e riporta alla cruda realtà. È quello che quando gli dici che vuoi fare l’artista ti risponde «sì, ma di lavoro?!, quello che va al supermercato con una lista delle marche che costano meno, quello che la paghetta ai figli sì, ma voglio prima esaminare il loro budget mensile, che si mette le mani nei capelli gridando «ma dove andremo a finire!?» guardando le pagine di finanza, che per addormentarsi conta i fatturati, e la sua sveglia grida a squarciagola gli andamenti del mercato. Parlo dell’ufficio commerciale (e del suo corrispettivo generalmente non incluso all’interno di un’azienda editoriale: la promozione).

Promozione e ufficio commerciale sono quelle cose che difficilmente ci s’immagina quando si parla di editoria. Perché questa parola evoca librerie polverose e accoglienti, scrittori che si barcamenano tra snobismo egocentrico e saggezza fatale, editor che sopravvivono a xanax, redattori e traduttori che stanno svegli fino a orari che non dovrebbero esistere. Ma come arriva un libro dallo stampatore alla libreria? Si dirà: tramite il braccio logistico dell’industria libraria, la distribuzione. Ok… ma come fa la distribuzione a sapere che proprio a quella libreria bisogna inviare quel libro? Ed ecco che qui entrano in gioco promozione e ufficio commerciale. Quello che fanno è gestire il rapporto tra editore, distributore e librerie (rapporto non sempre facilissimo, duole ammettere). In particolare, la promozione lavora a stretto contatto con le librerie; come uno stalker d’altri tempi, insiste coi librai affinché prenotino almeno dieci copie di questo nuovo libro che è meraviglioso bellissimo venderà un sacco cambierà la vita di tanti lettori, e già che ci siete perché non rifornite anche tutto il catalogo dello stesso autore e di tutti gli autori che hanno scritto qualcosa di vagamente simile? I libri però, al momento della prenotazione, non essendo ancora fisicamente esistenti, sono puro dato, un codice, un numero, esseri in potenza non ancora decisissimi se venire al mondo oppure no. E anche per i libri già usciti, per far prendere al libraio qualche copia in più ci si attacca per forza all’inoppugnabilità di dati e statistiche di vendita. Ecco che quindi il commerciale serve per tramutare tutti i sogni poetici del mondo editoriale in numero. Tutta la bellezza analogica della lettura sintetizzata in un prezzo di copertina moltiplicato per le copie fornite meno le copie rese, in un guadagno speranzoso di pagare tutti quelli che nell’editoria ci lavorano e magari permetterci di fare qualche libro in più.

Per i creativi, per gli editor e lo stesso editore, il commerciale è anatema, ombra junghiana, nemesi che tenta malignamente di sabotare il loro duro lavoro. È il dio veterotestamentario che appena provi a proporre un’idea al di fuori delle spese, ti incenerisce con lo sguardo e tuona che punirà la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, che è qui per mettervi alla prova acciocché il timor di Lui vi sia sempre presente, e giù sciorinate di numeri e report e budget e altre misticherie.

C’è uno strumento in particolare che lo contraddistingue e differenzia da tutti gli altri ruoli: l’excel. Non deve necessariamente essere microsoft (anche se, ammettiamolo, in quanto a intuitività e immediatezza non lo batte nessuno… ma io sono di parte): anche gli opensource sono altrettanto identificativi. Magari anche altri ne fanno uso – perché, oh, è comodo! – ma il commerciale è l’unico a custodirne i segreti più profondi. Egli è messia della Sacra Parola delle celle, sacerdote del CERCA.VERT, profeta della tabella pivot, esecutore della volontà di righe e colonne.

Per questa sua peculiarità, egli non parla la stessa lingua degli altri componenti del mondo editoriale. Riporto un dialogo tipo tra editore e account della promozione:

«Mi dici come vanno le vendite del titolo Taldeitali?» «ok, dimmi l’ean (o isbn che dir si voglia)» «non ricordo. Il titolo è quello» «No, non trovo niente» «Ma come? (pausa) Ah, giusto: l’abbiamo fatto uscire col titolo Taldeltale» «Bene, eccolo… ma l’ean?» «Non ricordo. Ma non lo trovi col titolo?» «Sì, ma nel mio database ci sono 3 edizioni di Taldeltale» «L’ultima!» «Ok… data di pubblicazione?» «Non ricordo» «Almeno l’anno…» «Quest’anno!» «Ok!» «No, aspetta… forse l’anno scorso…» (rumore dell’account che ha lanciato via il telefono gridando che non è possibile lavorare così, che ne ha abbastanza, che da domani va a vivere coltivando la terra e pastorando le mucche)

Come si può notare, c’è un problema comunicativo sotteso: se da parte sua il commerciale ritiene che solo il dato possa avere un reale valore e rifiuta categoricamente quel minimo di flessibilità che gli permetterebbe uno scambio di informazioni ottimale, dall’altra l’editore fatica a uscire da una visione prettamente letteraria e poetica del libro, e dalle conseguenti approssimazioni che queste comportano.

È un triste destino quello del commerciale nell’editoria: l’incomprensione perpetua. Il sapere che le colpe sono tutte tue e le glorie sono tutte dell’editore (sapere in realtà condiviso bene o male da tutti gli attori del mondo editoriale – l’editoria è un grande raccoglitore di sensi di colpa e capri espiatori). Molti, leggendo fino a qua, avranno pensato che il lato commerciale sia lo sporco sotto il tappeto dell’editoria, il rampollo della deriva capitalistica, compromesso doloroso fatto a malincuore, vago rimorso che ti sveglia la notte. Ma sono qui per provare a spezzare una lancetta in suo favore.

Da un punto di vista prettamente pragmatico/comunicativo, l’excel ha il vantaggio di legarsi al dato. E il dato ha una grande qualità (che è anche punto debole… ma qui rischieremmo di uscire troppo dal tracciato): è obiettivo. Puoi interpretarlo, certo, ma non puoi sfuggirgli. Nel dato si ferma l’aspirazione del soggetto a ingoiare tutto, a far sì che il mondo lo rispecchi, a vedere scritto il proprio nome nel Grande Libro della Storia, a rivalersi su tutto e tutti, essere acclamato, amato, benedetto e santificato anche post-mortem con una strada a suo nome e un bel funerale di Stato in diretta sulle reti mediaset. Ed ecco che il commerciale con i suoi excel acquista una funzione quasi catartica: distruggere l’io. Smussare i capricciosi angoli delle aspirazioni infantili, ridimensionare l’ego suggerendogli discretamente che lui non è primus inter pares quanto, piuttosto evidentemente, par inter pares. Che questo sia occasione per una crescita o per l’ennesimo rifiuto non sta all’excel stabilirlo o prevederlo, né tantomeno al commerciale (che dell’excel è pura emanazione).

Ma stacchiamoci dal pragmatismo e andiamo a vedere un punto di vista un po’ più legato al godimento personale… l’excel ha un altro grosso pregio: è un excel e non un libro. Che può sembrare banale tautologia, ma in realtà sottintende altro. Partiamo da un presupposto: se lavori nell’editoria, un po’, almeno un po’, almeno quel cicinino che la motivazione necessaria per arrivare fin lì ha richiesto, ti piace leggere. Ora, a differenza degli altri ruoli editoriali, il commerciale non ha l’obbligo di leggere i libri. Può, ma non deve; il libro per lui è puro dato, un ean, un prezzo, una data, un genere, un target. Non altro. Editor ed editore, invece, ovviamente devono leggere i libri che scelgono o su cui lavorano. L’ufficio stampa deve almeno capire a quale giornalista proporli. Il commerciale no.

Ecco, da questa premessa mi permetto di aprire una parentesi di vita vissuta. Passai un po’ di tempo in una bellissima casa editrice come ingenuo e più o meno giovane stagista (non ero uno di quelli che alla domanda di cui sopra aveva risposto «redazione!», ma sotto sotto lo pensavo pure io). Feci un po’ tutto quello di cui c’era bisogno, tra cui un po’ di commerciale, un po’ di ufficio stampa, diritti, correzione bozze. Ecco: la correzione bozze. L’antigodimento di un libro. Il libro destrutturato. Anzi: chirurgicamente aperto, analizzato e risistemato. Che godimento estetico di un corpo può avere un chirurgo? Oh, magari – anzi, probabilmente – è solo un mio pregiudizio; quello che so è che quei mesi in cui ho fatto correzione bozze mi hanno ammazzato il piacere della lettura per un bel po’. E, soprattutto, il piacere dei bei libri che stavo correggendo (a parte uno la cui potenza ha vinto sul mio dovere… la correzione bozze effettivamente non dev’essere venuta proprio benissimo). In questo, il commerciale è salvo: la sua visione del libro all’eccesso della sintesi lo salva dall’analisi che svuota il piacere, dalla rilettura eterna che rischia di corrompere la meraviglia, lo salva dal dover leggere libri che troverebbe obiettivamente illeggibili (e, onesti onesti, non ce ne sono poi così pochi in giro) e dal dover convincere gli altri a comprarli.

Simile al punto precedente, e legato quasi esclusivamente al campo della promozione per vari editori, è la scoperta. Tutti crediamo (o facciamo finta di credere) di sapere tutto quel che c’è da sapere nel nostro campo d’interesse. Nell’editoria crediamo tutti di sapere chi sono i grandi nomi, quali sono le correnti, le possibilità, chi vincerà quest’anno i premi più ambiti, cosa farà trend, eccetera. In realtà sappiamo altrettanto bene (ma non possiamo ammettere) che quel che conosciamo è solo il nostro contorno ombelicale, la cerchia elettiva di ciò che siamo convinti dovrebbe piacere a tutti e perché cacchio invece nessuno capisce che abbiamo ragione noi. Quando come promozione segui decine di editori che fanno cose diversissime tra loro, vivi una sorta di perpetua orizzontalità conoscitiva. Spizzichi in qua e in là, senza dover approfondire niente, ma arrivi a scoprire cose che mai e poi mai avresti potuto pensare di trovare interessanti, o anche meravigliose. Si potrebbe obiettare che le newsletter, i booktoker, le fiere, le librerie, hanno la stessa funzione. Vero. Però, intanto vorrei sapere chi tra i lettori legge davvero le newsletter, e chi davvero si lascia sommergere dallo sconosciuto in libreria o in fiera e non segue piuttosto filoni di sé già rodati (personalmente ammetto: io no, ma io del resto lavoro nella promozione); e poi il gusto di unire la scoperta al lavoro, la letteratura al dato, l’editoria all’excel, ha in sé quell’umorismo ossimorico che non ti fa prendere troppo sul serio né l’una né l’altra cosa.

Da ultimo, punto fondamentale per quanto doloroso: negli ambienti culturali c’è sempre sottesa una sorta di naïveté che vorrebbe la vera cultura slegata dagli aspetti finanziari, bastevole a sé stessa, irriducibile all’analisi e al dato. Ma così non può essere intoto: il commerciale è sì rampollo prediletto del capitalismo, però – ahimè, ahinoi, ahitutti – guarda caso viviamo immersi in un sistema che è rampollo prediletto del capitalismo. Pur potendo accettare, su un piano poetico, l’incapacità del sistema di appropriarsi di ciò che è arte, sul piano materiale ed economico non possiamo sfuggirne: un’azienda, come tale (e ogni editore lo è), ha delle regole finanziarie a cui è obbligata. Certo, possiamo fare finta che il sistema non esista, gridare al mostro additando il velo pendulo della balena che ci ha ingoiati da sempre, inneggiare a rivoluzione a cambiamento a giustizia a purezza.

Ma è una retorica che può andare bene per i circoli anarchici o per chi davvero ha mollato tutto e vive coltivando la terra e pastorando le mucche. Ma i grossi problemi che il mondo della promozione editoriale sembra portare a galla – mostruosa proliferazione di nuovi titoli, rese, sprechi, numeri gonfiati, mercato drogato… – sono in realtà sintomi di un sistema che impone questo. Se accettiamo di proseguire lungo i binari che un sistema ci impone, seguendoli o anche andando in direzione opposta, allora in quel sistema – che vogliamo o no accettarlo, che ce ne sentiamo parte o meno – ci siamo già dentro del tutto. Se l’occhio vede il quanto più che il come, se stima il cosa più del perché, sta già seguendo le regole imposte – quali che siano il quanto o il cosa sbandierati. Viene da credere che da questa visione si possa uscire, ma soltanto nel momento in cui si smette di vederla come totalizzante e si esce dalla logica del contro e del con: forse, liberandosi dei paraocchi che il sistema impone, si comprende la sua natura infelice e tragica di gioco.


Immagine di Vectorarte / Freepik.

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