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Una delle mie perversioni oniriche ricorrenti dev’essere sempre stata quella di scrivere una recensione più lunga del libro da recensire. Con questo libriccino di Mark Twain potrei finalmente realizzarla. Si tratta di Autobiografia burlesca, cinque euro (!) tre racconti e una sessantina scarsa di pagine che scivolano via tra le dita facendoci immergere e subito riemergere nella e dalla prosa di uno dei maestri della letteratura nordamericana. Tradotti da Michele Campagna e da Chiara Bonsignore e editi da quei ragazzacci di CasaSirio si tratta di vere e proprie gemme grezze; tre oggetti narrativi non meglio connotabili, che per comodità e mancanza di strumenti d’indagine raggruppiamo nel calderone dei racconti. Rimasti imperscrutabilmente nel cassetto per tutti questi anni, senza che nessuno avesse l’avvedutezza di pubblicarli, vengono finalmente offerti al lettore e la cosa di per sé meriterebbe un encomio lungo una recensione.

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Sulla stessa CasaSirio andrebbe fatto un discorso a parte: una casa editrice pop, nel senso autentico del termine (come chiarisce l’editore Martino Ferrario qui), che pubblica autori del calibro di Mark Twain e Ernest William Hornung (a proposito, un uccellino mi dice che a breve uscirà il prossimo della serie sul ladro gentiluomo A.J. Raffles) senza prendersi troppo sul serio (ecco spiegata la nostra grande sintonia) e quindi non a caso li mette nella collana Morti & Stramorti. Una collana che malgrado il nome è zeppa di libri vitalissimi, accanto alla quale ci sono le altre diramazioni del Sirio-pensiero: i Riottosi, gli Sciamani e soprattutto (a mio modo di vedere) i Pendolari. Quest’ultima è una collana fatta di short stories gratuite che giungono a noi sotto forma di biglietto da visita e che sono capaci di trasmutare e animare l’orrido panorama del viaggio in treno dall’infernale Roma alla nostra paradisiaca meta suburbana di riferimento. Una casa editrice che ha fatto dell’accessibilità e della godibilità dei propri libri un punto nodale, come dimostrano esiti felici che stentano a farsi racchiudere nella casistica di «genere». Penso a Elementare, cowboy di Steve Hockensmith, a Come una foglia al vento di Claudio Metallo e ai racconti di Daniele Titta in Sempre meglio della realtà.

Titta, in particolare, mi pare sia una voce molto interessante e da tenere d’occhio anche per come congegna i suoi racconti. Si muove tra influenze ballardiane, ben radicate ed evidenti nel suo costruire universi paralleli distopici invariabilmente scanditi da elementi di realismo che, per il fatto stesso di apparire in quel contesto, risultano quasi fantasmagorie di un altro mondo. Per esempio, il notiziario del CCISS viaggiare informati che durante i pasti riferisce dell’immancabile traffico tra Barberino e Roncobilaccio è l’unico appiglio alla realtà precedente la mutazione per un gasteropode un tempo umano. Titta denuda l’orrore immondo celato nei capannoni di provincia e nei luna park abbandonati, avendo sempre per stella polare la scrittura e la cinematografia metamorfica di Clive Barker (l’avete visto Cabal? Se la risposta è no, rimediate prim’ancora di continuare l’articolo: fatevi del male, ehm del bene). Il suo immaginario di riferimento afferisce chiaramente all’horror derivativo del Solitario di Providence, ma anche all’heavy metal, al fumetto e alla tivù: capita che da un ghettoblaster anni ’80 venga sparato a manetta il gothic lusitano dei Moonspell e ci siano perfino personaggi che si chiamano Scrondo e Zio Tibia. Insomma, sono racconti che vale davvero la pena di addentare, se non altro per entrare dentro un vorticoso calderone di immagini che ha segnato chi è cresciuto con i mostri della televisione, del cinema e della musica di quegli anni.

Ma torniamo al nostro Mark Twain e al suo Autobiografia burlesca. Nella copertina (squillante lettering fucsia su sfondo bianco), sopra un elmo medievale compaiono un bel paio di baffoni staliniani, e in bandella, i tipi di CasaSirio ci presentano il padre di Huckleberry Finn e Tom Sawyer quasi come un

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antenato – ma non del genere dei Flintstones, più come un nonno guascone e ridanciano. E forse questa caratterizzazione al limite della macchietta non è poi campata per aria visto il primo esilarante racconto della raccolta: una genealogia surreale in cui, al contrario di quanto capita di solito ai mitomani in cerca dei propri nobili e illustri avi, a Twain capita di rimediare nel ramo della sua casata solo millantatori, pirati, filibustieri e manigoldi d’ogni risma. Questa è un’autobiografia sui generis che si arresta ancora prima di poter essere scritta, d’altra parte non vale la pena mettersi a scriverla vista la finaccia che ha atteso tutti i suoi antenati, che quando va bene è come minimo il patibolo. E d’altronde si sa la mela non cade mai troppo lontana dall’albero… Twain si diverte a navigare tra le ere come se disponesse di una macchina del tempo e reinventa sfacciatamente le vicende di personaggi come Guy Fawkes, capitan William Kidd, George Washington e Cristoforo Colombo. A quanto pare in ogni istante cruciale della storia umana c’era un trisavolo pronto a fare di tutto pur di rovinare le cose o combinarla grossa.

In un crescendo di stramberie, «il primo vero scrittore americano» (il blurb è di tale William Faulkner) nel secondo racconto della raccolta si misura con una storia di cappa e spada alla Lady Oscar ante litteram. In Una straziante storia d’amore medievale siamo nel bel mezzo della lotta per la successione al trono di Brandeburgo e una erede femmina viene fatta passare per maschio innescando una commedia degli equivoci e una serie di coazioni a ripetere dall’esito prevedibilmente irresistibile. Ci saranno innamoramenti impossibili da ricambiare e pruriti sessuali nemmeno poi troppo mascherati. Twain doveva proprio essere affascinato da questi alberi genealogici e dalle discendenze nobiliari ed è un fortunato caso che questi due racconti stiano uno accanto all’altro nello stesso libro.

C’è poi un momento di chiaroveggenza sullo spirito e l’anima profonda dei nostri conterranei in Italiano senza laurea (che poi a dirla tutta non sono rimasti in moltissimi, senza laurea), terzo e ultimo racconto di questa bizzarra Autobiografia burlesca. In particolare penso a queste quattro righe sulla nostra (in)capacità di tener fede ai patti e alla parola data. Non è del resto un caso che si sia tutto fuorché parchi nella nostra munificenza lessicale. Di parole se ne dànno molte, mai una.

«Per essere cortese e educato, quando ho a portata di mano una parola italiana la butto lì e la cosa ha un bell’effetto. La prendo dal giornale del mattino. Devo usarla finché è fresca, perché a mio parere le parole italiane non si mantengono bene in questo clima. Verso sera iniziano a sbiadire e il mattino dopo sono sparite.»

Il protagonista è difatti un americano di stanza a Firenze, che un po’ come lo scrittore che lo tratteggia, ha un rapporto abbastanza paradossale con la lingua e la penisola.

Twain aveva viaggiato per l’Italia nel 1866, ma al contrario della letteratura di viaggio precedente e contemporanea che vedeva il Bel Paese come una meta di pellegrinaggio della bellezza, all’autore statunitense, a parte delle donne (le più belle d’Europa, a suo dire), del resto non gliene importava un piffero. Anzi. Nelle sue pagine di viaggio (The Innocents Abroad, in italiano questi passaggi sono tradotti da Livio Crescenzi per Mattioli 1885, nel libro In questa Italia che non capisco) non faceva che sparare a zero con sarcasmo e talvolta un certo affetto contro l’inefficienza, la prosopopea e la superstizione italiana. In questi scritti vibranti di anticlericalismo, tra le altre cose, demolisce il miracolo di San Gennaro, che a quanto pare non è cambiato granché a centocinquant’anni di distanza. Un’altra intuizione affatto scontata sembra essere la sua convinzione, del tutto immotivata s’intende, che l’eredità artistico-culturale del passato schiacci e affondi ogni possibilità di rinnovamento davvero autentico in questo paese.

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Rintanato nella sua villa fiorentina, l’alter ego di Twain si rifiuta di leggere ogni notizia proveniente «da fuori» e si cimenta in una memorabile lettura dei quotidiani locali «al buio», non capendo un’acca di una lingua che non padroneggia e interessandosi unicamente dei casi di cronaca più locali e folcloristici.

«Era trascorso un mese dall’ultima volta che avevo visto un giornale, e quella mancanza sembrava dare alla vita incanto e grazia, sembrava saturarla di una sensazione vicina all’autentica delizia.»

Un po’ come il Duccio di Ninni Bruschetta in Boris sceglie di non leggere per curarsi dei suoi mali. E non è detto che sia una soluzione da buttar via. La recensione è finita e come direbbe il protagonista di questo ultimo racconto con il suo frasario italiano stentato: «Sono dispiacentissimo».

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