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L’amore per la forma breve accumuna scrittori e lettori di ogni tipo, ma sembra risentire (almeno in Italia) di una sorta di incantesimo editoriale che non le permette di affermarsi e di vedere sancita la propria dignità. Esiste un universo però, meglio una costellazione, di realtà e di persone che lavorano quotidianamente affinché pregiudizi e giudizi a posteriori sul racconto vengano sfatati. Cattedrale è una di queste: l’Osservatorio dedicato esclusivamente alla forma breve fondato da Rossella Milone (che ne è anche la coordinatrice) e Armando Festa. Una roccaforte e una vedetta insieme per avvistare quel che accade alla short story e stimolarne la crescita in una dimensione laboratoriale. Se avevate qualche dubbio sullo stato del racconto, in questa intervista corale ai fautori del progetto troverete risposte approfondite e interessanti.

Cos’è il progetto Cattedrale e cosa si intende per Osservatorio sulla forma breve? E quindi, quali sono gli obiettivi a lungo termine di una simile operazione?

ARMANDO FESTA: Cattedrale vuole proteggere, ospitare, nutrire, curare, coccolare, far riprodurre e salvare dall’estinzione il racconto breve. In parole povere, il racconto è per Cattedrale quello che il panda è per il WWF. Su cosa intendiamo per Osservatorio potrei banalmente risponderti inanellando frasi sull’avere uno sguardo a 360° sul mondo della scrittura breve, sul proporre un punto di vista, sul far aprire gli occhi su una forma letteraria in un certo senso ghettizzata. Ma preferisco rispondere dicendo che l’anagramma di Osservatorio è oso rovistare, che è una buona sintesi della nostra attitudine e di quella che ci piacerebbe avessero i nostri lettori: cercare, spulciare, guardare oltre la prima fila dei libri in vetrina (solitamente romanzi). Ah, amando la forma breve, anche i nostri obiettivi più che a lungo preferiscono essere a breve termine. Sperare, con un nostro articolo, di aver incuriosito un lettore, stimolato uno scrittore, sensibilizzato un editore.

Cattedrale nasce nel 2014, leggenda vuole da un pomeriggio al Teatro Verdi durante un incontro coi lettori a Pordenone. Cosa è cambiato da quell’intuizione di Rossella Milone fino a oggi, nel microcosmo del racconto?


ROSSELLA MILONE: In realtà l’idea era maturata molto tempo prima del Teatro Verdi; solo che lì mi sono resa conto di due cose: che i lettori che amano i racconti esistono, e che non c’era una spazio in cui approfondire e condividerne il dialogo. Da allora è cambiato che forse adesso questo spazio c’è. Anzi, ce ne sono parecchi.

In qualità di Osservatorio, Cattedrale, si pone l’obiettivo di promuovere il racconto soprattutto per quanto riguarda il rapporto che si instaura tra scrittori, editori e lettori dove risiederebbe la radice del problema della sottostima assegnata a questa forma. Come si fa a cucire tra loro i tre elementi e dare stura alle potenzialità insite nel racconto?

ALFREDO ZUCCHI: I fattori in gioco sono vari, e di diverse proporzioni – voglio dire: variabili troppo complesse per essere abbracciate dall’occhio di un singolo o di un gruppo, tendenze decennali se non ancora più durature. Prima ancora di mettere in gioco l’editoria e i lettori, si parte dalla letteratura e dalla pratica della scrittura; anche perché è la variabile che si lascia più facilmente, se non dominare, quantomeno abbracciare. Un punto di vista interessante sull’argomento l’ha fornito Nicola Lagioia in un’intervista di qualche mese fa: «Perché pubblicate più romanzi che racconti a minimum fax?» «Perché arrivano più romanzi che racconti».

Si parte, quindi, da un problema generale, ampio – la sottostima della forma breve – per stringere e cominciare a dare risposte concrete. E ancora: il web dovrebbe essere il luogo ideale per la circolazione del racconto (con tutti i nodi aperti dalla digitalizzazione della letteratura – per esempio: retribuzione o visibilità?) eppure sulle riviste generaliste c’è sempre meno spazio per i racconti, in favore della literary non-fiction. Qui pare venire fuori un’altra pista: è forse il racconto, per la sua necessaria densità, un esercizio di lettura più complesso?

Ecco: da quale parte cominciare ad analizzare il cane che si morde la coda? Se gli scrittori pubblicano sempre meno libri di racconti, e i lettori ne comprano sempre meno (in favore non solo di romanzi, ma anche della literary non-fiction) per quale motivo un editore dovrebbe imbarcarsi in un’avventura editoriale che sembrerebbe destinata a esiti negativi? L’approccio di Cattedrale, in questo senso, è chiaro: il recupero dei maestri e dei capisaldi della forma breve; la promozione di racconti di grande qualità (classici noti e meno noti, contemporanei e persino inediti); il dialogo con editori e con lettori.
L’ultimo punto mi pare particolarmente rilevante: in un problema così complesso, ha poco senso dare risposte sommarie, o trarre conclusioni da impressioni altamente soggettive – microeconomiche – e con poca rilevanza statistica. Ha ancora meno senso piangersi addosso. Si tratta di costruire sinergie: proporre e promuovere esempi di racconti di qualità; allargare gli orizzonti dei lettori con panoramiche sulla storia del genere, sui suoi nodi tanto narratologici quanto editoriali, su scene dimenticate o meno note dall’editoria italiana; coinvolgere gli editori nella ricerca di soluzioni o di spazi e occasioni in cui mettersi a cercarle. Il punto fermo è uno, e non si tratta di archeologia o filologia o archiviazione museale: il racconto è una forma in grado, ancora oggi, di parlare ai lettori e agli scrittori. Basta uscire dal circuito strettamente editoriale e visitare le riviste digitali (i siti e gli account/pagine sui social) per rendersene conto. Tanto per contraddirmi, allora, chiudo con una nota personale –  un mio cruccio altamente soggettivo: Edgar Allan Poe definisce il racconto dal punto di vista del lettore e della fruizione; dice, all’incirca, che un racconto è una forma letteraria la cui fruizione avviene in una volta sola, senza interruzioni. Si parla, chiaramente, di altri tempi e altri modi. Tuttavia la questione infrastrutturale resta: come cambia la fruizione della forma breve per antonomasia (non me ne vogliano i poeti) nell’era della velocità, del multitasking e dei dispositivi digitali mobili? C’è modo di trovare nuovi spazi per il racconto attraverso un adattamento di carattere tecnologico (per esempio: adattare le pagine web per rendere la lettura più fruibile)? E ancora, se così fosse: è possibile inserire tutto questo in un circuito professionale/economico? O invece le forme brevi sono destinate a fare da vetrina, gratis, per altre forme letterarie (come i pop-up stores delle grandi  marche di abbigliamento)?

Si dice che uno dei problemi per lo sviluppo della forma breve sia l’indifferenza del settore editoriale che parte dall’assunto di base che i racconti non generano grossi profitti. Quanto è vero questo dogma e quanto può essere un motivo serio per giustificare la scarsa dedizione?

Debora Lambruschini: Personalmente credo che l’incidenza della forma breve nel mercato editoriale e la sua capacità o meno di generare profitti adeguati, dipenda da diversi fattori, ma non direi che questo incida in modo così significativo sulla produzione stessa da parte dell’autore. Il problema di fondo, a mio avviso, è che nel nostro Paese manca una vera e propria cultura del racconto, troppo spesso ancora subordinato al genere egemone, il romanzo, e nei programmi scolastici difficilmente lo studio della forma breve trova uno spazio adeguato. Il racconto è terribilmente difficile da scrivere e anche da leggere: con la sua brevità, la possibilità di sperimentazione linguistica e tematica, si spinge dove il romanzo non osa, destabilizzando il lettore, mettendolo alla prova; come ha detto M. L. Pratt, laddove il romanzo aspira all’universalità, il racconto si concentra invece sul frammento, mirando a rappresentare quel moment of truth nello spazio breve a tale forma concesso e questo necessita di una lettura consapevole, accorta, meno immediata rispetto a quello cui siamo abituati a pensare. Ci si avvicina al racconto, quindi, un po’ timidamente, quasi per caso oserei dire, all’inizio con un certo grado di diffidenza e con la convinzione – difficile da sradicare – che scrivere racconti sia solo una fase di passaggio, un primo banco di prova per poi approdare a qualcosa di più serio come il romanzo e questo, in qualche misura, incide anche nelle scelte editoriali. Una convergenza di più fattori, si diceva, che portano a considerare il racconto come qualcosa da cui sia più difficile ricavare profitti, almeno nel mercato editoriale italiano.

Tuttavia credo che negli ultimi anni sia sempre più evidente l’importanza anche nel panorama editoriale nostrano della forma breve e, in conseguenza al crescente interesse dei lettori, qualcosa inizia a smuoversi tra gli editori che sembrano maggiormente propensi a pubblicare raccolte e antologie, grazie anche ad autori – italiani e non – che si sono fatti conoscere proprio grazie a questa forma o comunque a essa sono particolarmente legati, al proliferare di blog, riviste, festival e workshop a essa dedicati. Con il tempo, i mezzi adeguati e la collaborazione tra lettori ed editori, sono convinta che la forma breve possa consolidarsi anche nel nostro Paese, come già avvenuto per esempio nel mondo anglosassone, in cui la short story ha un ruolo di primo piano sia nel mercato editoriale che in ambito accademico.

È possibile esprimere una gerarchia di difficoltà tra la stesura di un racconto e quella di un romanzo?

ROSSELLA MILONE: Direi assolutamente di no. Sono due forme narrative diverse ma simili, che hanno chiaramente la stessa identica difficoltà che appartiene all’origine di questa forma: la parola, la scrittura. Solo che le difficoltà sono diverse, profondamente diverse. Lo scrittore di fronte a un romanzo o di fronte a un racconto deve sempre trovare il modo di far emergere una storia, e questa emersione spesso è complicata. Non c’è alcuna gerarchia tra le due forme, ci sono solo due sguardi, due voci, due metodi, due storie diverse. Questa dicotomia tra romanzo e racconto ha fatto molto male al racconto, come forma letteraria, ma in realtà lo scrittore quando scrive scrive e basta, che sia romanzo o racconto la sua scrittura deve ingaggiare una specie di lotta sempre.

Viceversa, al netto dei gusti personali, quali sono i vantaggi e gli svantaggi che si possono trarre dalla lettura di un racconto?

Alessandro Abbate: Mi sembra che la lettura di racconti eserciti una buona istigazione a insistere, a esigere, a rilanciare la posta; che faciliti una sana bulimia letteraria. La brevità della forma genera fame ulteriore, curiosità, crescente desiderio. È un ottimo rimedio contro l’inappetenza della fantasia, un’utile ginnastica per l’atrofia dell’immaginazione, che in questi nostri tempi sono più di uno spauracchio. A differenza di un romanzo, un racconto non potrà mai saziare. Il che è un bene.

Una (buona) raccolta di racconti è come una giornata piena di incontri imprevisti, di appuntamenti al buio, di improvvise sortite in angoli mai frequentati prima. Le ore trascorrono senza dare un attimo di tregua: bisogna essere pronti a stupirsi, preparati a farsi sorprendere, felici di non chiudersi in casa. Che fatica, magari, nel mantenere il passo! Che strano senso di disorientamento. Ma quanta poca noia!
Per coloro che in un libro cercano quegli agevoli meccanismi di coinvolgimento prolungato, di lenta e progressiva immedesimazione coi personaggi e con i fatti narrati, il racconto in genere risulta insufficiente. Non produce abitudine, consuetudine, familiarità. Il non detto, l’incognito, la velatura più o meno inviolabile, gli sono essenziali. Difficilmente si entrerà in confidenza con il prigioniero de Il pozzo e il pendolo di Poe, tanto quanto sarà possibile, e indispensabile, con David Copperfield. Ma un racconto può lasciare una traccia indelebile proprio perché folgorazione rapida e inattesa; suscitare un’emozione più partecipata, in quanto imprecisa, e dunque vera. Le poche pagine consentono una riflessione immediata; reclamano una reazione a caldo, che spesso sarà più sincera, più istintiva, più sorprendente. E per questo, più meritevole d’essere

Nel vostro spazio – osservatorio esordiente – pubblicate alcuni autori emergenti. In questo senso quanto può essere importante un’iniziativa come Trenta Cartelle, laboratorio dedicato esclusivamente alla scrittura e alla lettura di racconti? E quali competenze può conferire a uno scrittore emergente?

ROSSELLA MILONE: Trenta Cartelle è il primo laboratorio permanente sul racconto. Nel senso che è uno spazio fisso, con cadenza settimanale, che vuole radicarsi tra i lettori e gli appassionati nel lungo tempo. Intende colmare dei vuoti: sia di condivisione per chi ama la forma racconto, ma anche per fornire l’opportunità di maneggiare uno strumento – quello narrativo – che possa illuminare una zona poco esplorata della letteratura. Un laboratorio è un momento di massima condivisione, e Trenta Cartelle vuole essere questo: una bottega dove si parla di racconti. E dove, soprattutto, cerchiamo di restituire dignità a un genere complesso e sofisticato: siamo molto attenti, infatti, alla qualità letteraria che poi pubblichiamo. Che poi tutto ciò fornisca delle competenze o che possa gettare un seme per dei futuri narratori, staremo a vedere!

C’è probabilmente bisogno di risposte di carattere professionale per soddisfare un’esigenza, quella di assumere le competenze di base per scrivere una short story. Riguardo ciò, come detto, il mondo editoriale è parecchio indietro, ma non sarebbe forse necessaria un’iniezione di fiducia da parte delle istituzioni, in primis quella dell’istruzione? E come potrebbe avvenire?

GIULIANA RICCIO: Tocchi un tasto abbastanza delicato, soprattutto quando, giustamente, tiri in ballo la scuola. Oggi sembra che la scuola sia chiamata a fare tutto e il contrario di tutto: affettività, empatia, legalità, educazione ambientale, cittadinanza attiva, laboratori di arte, teatro e, perché no, scrittura. La scuola è il campo minato dove si scontrano mondi diversi e aspettative contrastanti e, come spesso accade in queste situazioni, il tutto si concretizza con un niente di fatto, una tendenza all’approssimazione che non riesce ad innescare nessun processo rivoluzionario, nessun cambiamento di tendenza. Non sto qui a tirare in ballo il discorso sulla formazione professionale dei docenti che, in Italia, è a dir poco paradossale, ma è indubbio che gli insegnanti, soprattutto quelli di Lettere, sono pressati da una marea di pratiche burocratiche che impedisce loro di esplorare il terreno fertile della scrittura.

Quello che spesso non si sa, o non si dice, è che ai bambini e ai ragazzi scrivere piace. Mostrano tutti un’innata predisposizione al racconto questo perché la tendenza a vedersi e sentirsi protagonisti di una storia sembra essere oggi, più di ieri, un’ urgenza dichiarata della condizione esistenziale: se non ho nulla da raccontare non sono visibile, non esisto per il gruppo. Non è un caso che gli adolescenti vadano quasi tutti pazzi per il rap essendo quello un modo per dire ciò che pensano e che nessuno gli fa dire. Perché il vero problema, a scuola, non è l’assenza della scrittura, ma la presenza solo di un certo tipo di scrittura, quella corretta, dove per corretta intendiamo un tipo di scrittura comoda, ordinata, rispettosa di alcune norme e tematiche che spesso annientano le creatività e trasformano un possibile racconto in un mero esercizio.

C’è poi da tener conto di un altro nemico della scrittura a scuola: il tempo. Da insegnante mi sono trovata innumerevoli volte di fronte a ragazzini dal talento indiscutibile. Non sempre erano i più bravi, anzi, il più delle volte erano i peggiori della classe quelli che ancora non sapevano bene quando ci vuole l’acca e quando no. Eppure, leggendo le forme di racconto che mettevano in piedi durante gli spazi che creavo per loro, si potevano scorgere potenziali sorprendenti. Poi però il tempo, l’assenza di tempo, impediva di lavorare in modo sistematico sulle tecniche di scrittura e anche l’esperienza più significativa si riduceva a un momento bello, importante, ma scaduto. Forse, solo chiamando in causa la possibilità di laboratori extracurricolari a lungo termine, si potrebbero tentare soluzioni più efficaci ed efficienti. Gli insegnanti dovrebbero poter avere del tempo altro, oltre a quello delle lezioni quotidiane, per lavorare specificamente sulla scrittura. Leggevo, qualche giorno fa, un’affermazione di Mozzi: «Non esiste la scrittura creativa, esiste solo la scrittura». È una gran bella verità che consente di svincolarci anche dalla presunzione che esista una scrittura di serie A da contrapporre a una scrittura di serie B. Ecco, la scuola dovrebbe cominciare da qui: dal riscoprire e far riscoprire l’importanza della scrittura come strumento comunicativo di base perché quello che prima era un’ovvietà, ossia che per dire determinate cose bisogna, appunto, dirle, oggi non lo è più e la comunicazione è divenuta soprattutto dominio del linguaggio iconico. Insegnare a utilizzare la scrittura per sentirsi protagonisti della propria esistenza, per potersi metacognitivamente scoprire potrebbe essere già abbastanza. Non per diventare autori di short story, ma sicuramente per poterle apprezzare. Per poterle sentire come forme di espressione autentiche e necessarie.

Siamo giunti quindi al problema della visibilità, che è il secondo nodo cruciale, oltre alla generale indifferenza di grossa parte del mondo editoriale, delle difficoltà incontrate dalla forma breve in Italia. Se è vero che ci sono stati e ci sono grandi autori di racconti nel nostro paese, come Osservatorio, quali sono le prospettive che vedete all’orizzonte? Credete ci sia un gruppo di autori nuovi, magari giovani, che sono in attesa di sbocciare e che potrebbero trainare tutto il movimento?

ARMANDO FESTA: Come hai appena detto, ci sono tanti autori bravi, con uno sguardo lucido e spesso feroce sul mondo. Ma non è in un gruppo di nuovi autori che riponiamo le nostre speranze, ma in uno di nuovi lettori. La parola leggere deriva dal latino legere che significa raccogliere. Quindi, un popolo di lettori attivi che vanno alla ricerca e che si chinano loro stessi a raccogliere, piuttosto che limitarsi ad allungare la mano verso quello che gli viene offerto.

La costellazione dei blog sul web che si occupano non solo ma anche di racconti, può avere un ruolo in questo avanzamento? Se sì, è necessario un qualche tipo di guida per non perdersi nell’eccessivo dilettantismo? Se no, qual è l’alternativa per raccogliere questa produzione per così dire bottom-up?

Debora Lambruschini: Senza dubbio l’interesse di blog e riviste online nei confronti della forma breve può aprire nuove prospettive, sia in termini di diffusione tra i lettori che nell’ottica del dibattito critico intorno al genere. Certo, come per le altre forme, il problema del dilettantismo e di un certo grado di superficialità è reale, online ma anche sui canali più tradizionali, ed è una questione delicata con cui è urgente confrontarsi.

Tuttavia credo che il proliferare di blog che si occupano in maniera esclusiva o meno di short story sia un segnale interessante di quel crescente interesse da parte di lettori nei confronti della forma breve cui stiamo assistendo, come dicevo, negli ultimi anni. Detto questo, la riflessione critica sul racconto necessita di strumenti specifici e promuovere tale forma è un lavoro delicato, in cui risulta fondamentale un adeguato grado di professionalità per aiutare il lettore a orientarsi e sono dell’idea che proprio il web possa rivelarsi il contesto più adatto a tale scopo.

In conclusione, secondo la vostra esperienza di Osservatorio specializzato, esistono delle caratteristiche imprescindibili che deve possedere uno scrittore, uno scrittore di racconti? E quali sono le vie che deve perseguire per cercare di affermarsi?

ROSSELLA MILONE: Nella scrittura se esiste qualcosa di imprescindibile allora è una cosa sbagliata. Nulla lo è, nulla può esserlo. Però, forse, l’unica cosa a cui penso se penso a uno scrittore di racconti è al suo sguardo. Al modo in cui impara a guardare il mondo e a trasformarlo in una storia. È già lì, nello sguardo, che risiede la forma con cui si scriverà quella storia. E se uno scrittore sta più attento a cercare le vie per affermarsi che alle storie che ha intorno, ha già fallito. Se poi deve esistere una via che porta all’affermazione di narratori di racconti, forse è quella di non scendere a compromessi quando ti trovi di fronte a un editor o a un editore: i tuoi sono racconti, non romanzi in forma di racconto, o storie che potrebbero essere romanzi: sono racconti, punto e basta. Se ci credi tu forse ci crederà pure lui.

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  • Enrico Brega ha detto:

    Scusate i refusi, errori, ripetizioni, ridondanze. Ma è che non rileggo mai. o quasi, quello che scrivo. Mi serve magari un analista? Ma no!

  • Enrico Brega ha detto:

    Bene l’argomento. Ma un pensierino su quanto un certo Claudio Magtis ha scritto sul Corriere della Sera il 10 Agosto 2012 sotto il titolo ‘In difesa degli scrittori sommersi’ non ci sta? lì si parla di nuovi approcci letterali nell’Era Digitale. Approcci per lo più rivolti alla forma breve, mi viene da pensare. No?
    Parlo da forte estimatore di DFW, in particolare di ‘Infinite Jest’. E scrivo su un webmagazine racconti brevi, molto brevi. Brevissimi. anzi. Perché mi piace. Così come amo mettermi in contraddizione con me stesso. Si farebbe prima a dire che non sono in grado di scrivere su lunghi percorsi. Ma non me ne importa. La questione non è questa.
    A parte il potere del business. Sarebbe interessante tentare di indagare perché l’Arte Narrativa ha il potere di dividere sia sulle misure delle opere sia sui contenuti. Questa, forse, è la sua forza.
    Dico che leggere è bello, e scrivere lo è altrettanto. Purché sia in un caso che nell’altro ci si tenga lontano da sterili integralismi. Apriamoci al molteplice. Alla diversità. Che un sano modo di vivere l’avventura della vita, il cui significato è un magnifico mistero. Creativo, per lo più.

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