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Ogni volta che torno a casa, in Sicilia, ho la vaga sensazione di non trovare tutto esattamente allo stesso posto, ma più mi guardo intorno più tutto sembra uguale: quando, al riparo di una Milano caotica ma ordinata, ho sfogliato Le pietre di Pantalica (Mondadori) di Vincenzo Consolo ho ritrovato la stessa sensazione di confuso senso d’appartenenza a una terra che prima ti assorbe completamente e poi, d’improvviso, ti rende estranea alle sue logiche. E, paradossalmente, mi sono subito sentita a casa.

Non avevo mai immaginato che una raccolta di racconti potesse essere interpretata come la frammentazione di un romanzo a più voci, ma è ciò che Consolo ha creato con maniacale precisione; un insieme congruo di storie che costituiscono il coro di un unico racconto, quello della Sicilia all’epoca dello sbarco degli americani nel 1943.

Se in circa venticinque anni di carriera Consolo ha pubblicato solo cinque libri studiatissimi, soprattutto sul piano linguistico, era inevitabile che anche l’unica raccolta di racconti fosse qualcosa di più. Divisa in tre sezioni disomogenee per grandezza (Teatro, Persone, Eventi), Le pietre di Pantalica è un corpus di storie quotidiane della manovalanza contadina del dopoguerra e di fatti cronachistici del territorio siculo, dal terribile episodio dei clandestini africani buttati in pasto agli squali (Memoriale di Basilio Archita) alla cosiddetta vicenda dei frati di Mazzarino (Ritorno), quattro Cappuccini che negli anni cinquanta in collusione con la mafia hanno sconvolto il territorio nisseno. Sono storie nel senso più atavico del termine; storie di uomini così oppressi dalla povertà da ridere dei propri sogni mentre afferrano la vanga (Ratumemi), storie con protagonisti speciali come Leonardo Sciascia (Le Chesterfield) o Robert Capa (Il fotografo), storie di contadini trasandati che mentre mangiano pane e formaggio riflettono goffamente sul senso della vita (Filosofiana):

Ma che siamo noi, che siamo? Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura.

A metà strada tra la fiction e la non-fiction, la raccolta è il frutto di un lungo lavoro di ricerca di Consolo, che per l’occasione si è anche trasferito da Milano a Mazzarino, scoprendo un territorio sì indigente, ma soprattutto oppresso dalla riforma agraria: a questa epopea contadina ha deciso di dare dignità letteraria in una narrazione che non è mai giornalistica o neorealista, e nemmeno storica («Al romanzo storico non credo», ripeteva a ogni intervista) ma si dimostra coerentemente pasoliniana negli intenti, in quell’inequivocabile assenza di ansia moralizzatrice e nella scelta di portare avanti un certo impegno politico solo attraverso i simbolismi della letteratura.

L’invenzione letteraria di questi racconti nasce dunque dall’esperienza diretta di quella bufera grande che è la realtà della Sicilia: qui le contraddizioni dell’isola vengono snocciolate senza stupore né tantomeno commiserazione, e sempre con quella vaga sensazione di appartenenza irreale, ai confini del sogno. Consolo – che è fedele prosecutore della linea adottata da Verga e Pirandello, per non dimenticare Vittorini – ha scritto costantemente della terra d’origine, ma vivendola da lontano: l’unica esperienza diretta della Sicilia in fase di stesura riguarda proprio questa raccolta, uniforme ma pur frammentata, un ampio discorso narrativo omogeneo e demistificatore della Sicilia bedda come paradiso terrestre.

Una narrazione nata dall’esperienza diretta non rimane in Consolo scevra di significato e si tramuta nella narrazione del viaggio (di ritorno), necessario, nuovo, liberatorio:

Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.

L’impianto autobiografico, mescolato a digressioni saggistiche, accorpa questi racconti in un unico nostos malinconico ma realista, con un registro narrativo meno denso del coevo Retablo e tuttavia fedele al plurilinguismo dell’autore, costruito su strati idiomatici che non sono la semplice espressione di un dialetto siciliano colorito ed estraniante alla Camilleri, ma è «l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati». Perché, se c’è una chiara missione nell’opera omnia di Consolo, misurata ma complessa, è «salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia».

È questo il cuore pulsante di testi costruiti su una tensione stratificata verso le polarità di una lingua unica, colta da una parte al limite dell’aulicismo e dell’altra nelle rappresentazioni di una colloquialità bassa e contadina, ma mai povera.

Questi racconti sul filo della memoria personale, che s’intessono su quella storica, manifestano dunque quella specifica etica della narrazione consoliana che aderisce alla realtà e la traveste di letteratura: non abbellendola, sicuramente non alterandola, di certo facendola trasmigrare. Dove, sta a chi legge sceglierlo.

La Sicilia, s’è già detto ovunque, è più uno status mentale che un luogo, e per Consolo l’unica possibilità di entrarvi in contatto mentre si sgretola non è più darle sostanza in un romanzo, ma fotografarla attraverso piccoli racconti: troppo tardi per dipingerla così come credevamo di conoscerla, troppo presto per svelarne il nuovo volto.

Così, queste pietre del titolo – appartenenti a una necropoli protostorica – per Consolo non sono altro che le nude parole ancestrali, scagliate con ineffabile eleganza: non resta che raccoglierle e metterle in tasca come monito al ricordo dell’appartenenza alla splendida terra dilaniata dalla storia e dalla cattiva gestione (politica, sociale, culturale). Non resta che andare via e poi scoprire, a ogni ritorno, una Sicilia nuova. E sempre la stessa.

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