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«Dio ci ha dato il tempo, ma della fretta non ha parlato.» Era il vecchio motto di chi frequentava i caffè viennesi nei primi anni del Novecento. Oggi quel motto è ancora valido. Proprio come cento anni fa, chi varca la soglia di uno di questi caffè – veri microcosmi, per usare una definizione di Claudio Magris – sa di entrare in uno spazio non soltanto fisico. Sono luoghi di incontri e scoperte, capaci di trasformare il nostro corpo in un diapason di sensazioni.

Cafè Griendsteidl, luogo di ritrovo dei giovani letterati (foto di Alessandro Melia)

Cafè Griendsteidl, luogo di ritrovo dei giovani letterati (foto di Alessandro Melia)

Nei quattro giorni trascorsi a Vienna non ho fatto altro che passare da un caffè all’altro. Era bello sapere che dopo una passeggiata lungo la Ringstrasse o al termine di una visita nelle residenze imperiali degli Asburgo, potevo entrare in un caffè e restare affascinato anche solo osservando le persone che stavano lì – forse da ore – a leggere, scrivere, mangiare gigantesche fette di torta al cioccolato o semplicemente a guardare fuori dalle vetrate. Un pomeriggio mi è venuto in mente Carlo Michelstaedter e il suo bisogno di vivere senza avere bisogno di consumarsi dietro a qualcosa. Se gli affanni della vita ci impediscono di vivere il presente, come sosteneva Michelstaedter, i frequentatori di questi caffè mi sono sembrati gli ultimi rappresentanti della società occidentale capaci di godersi, senza alcuna fretta, quello che stavano facendo. È come se quell’immobilità gli consentisse di cogliere alcuni aspetti della vita preclusi a chi va sempre di corsa.

Così un pomeriggio mi sono fermato a scrivere al Cafè Sperl, frequentato dagli artisti del quartiere, coi suoi divanetti rossi, i tavoli da biliardo ricoperti di quotidiani internazionali e le lampade che scendono come liane dai soffitti antichi. Ho sbirciato all’interno del Cafè Braunerhof, grigio e impersonale, dove

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Cafè Sperl, dove trovare tutti i quotidiani internazionali (foto di Alessandro Melia)

Thomas Bernhard si fermava per le sue letture. Ho cenato con una schnitzel al Cafè Griendsteil, quartier generale dei giovani letterati ai tempi di Stefan Zweig, mentre davanti a me una ragazza era immersa nella lettura di un romanzo di Charlotte Bronte. Ho ammirato la ricostruzione fedele del Cafè Museum, allestito la prima volta nel 1899 da Adolf Loos proprio a pochi passi dal palazzo della Secessione. Era il luogo preferito da Elias Canetti per gli incontri con il dottor Sonne. Anche Josef Roth era un assiduo frequentatore dei caffè, ma preferiva quelli ubicati nella Leopoldstadt. I suoi resoconti, pubblicati con lo pseudonimo di Josephus sul Der Neue Tag, sono raccolti da Adelphi in Il Caffè dell’Undicesima Musa. Immancabile la tappa al Cafè Central dove ancora oggi, all’entrata, si viene accolti da una statua di cera dedicata a Peter Altenberg, che compose le sue prose liriche seduto a uno di quei tavolini.

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Cafè Central, con la statua di cera dedicata a Peter Altenberg (foto di Alessandro Melia)

Bisognerebbe riscoprire gli estratti di vita di quell’uomo baffuto e gentile, amante dei bambini e delle prostitute, che per tutta la vita ha cercato di descrivere un uomo in una frase, un’esperienza dell’anima in una pagina, un paesaggio in una parola. Infine il Cafè Hawelka, in Dorotheergasse, proprio di fronte al Graben Hotel, dove campeggia una targa in ricordo di Franz Kafka e Max Brod, che soggiornarono lì più volte tra il 1913 e il 1919.

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Graben Hotel – targa in ricordo di Kafka e Brod (foto di Alessandro Melia)

Girare per i caffè di Vienna è un’esperienza simile allo scrivere saggi. Spesso si comincia a parlare di una cosa che abbiamo visto e ci ha incuriosito – così come si entra in un posto sconosciuto – e si finisce a parlare di un’altra cosa, ugualmente interessante, che ci è venuta in mente mentre eravamo seduti al tavolo (o stavamo scrivendo). Questa alternanza di pensieri e sensazioni, se ben collegati, rende la lettura di un saggio più interessante di un romanzo. Questo perché chi scrive un saggio è intenzionato a trasmettere al lettore un sapere, un’esperienza, che non ha bisogno di essere filtrata dall’immaginazione. La forza della prosa attinge direttamente alla presa diretta dell’autore. Basti pensare ai libri di Susan Sontag o di Geoff Dyer. Lo scrittore inglese sostiene che sono stati l’argomento e l’umore a dettare sempre la forma e lo stile dei suoi pezzi, non le testate alle quali erano destinati. Dyer ha seguito l’esempio di William Hazlitt che aveva bighellonato tutta la vita «ascoltando, pensando e scrivendo quello che gli piaceva».

Sicuramente un buon modo per scrivere saggi è andarsene in giro, fare esperienze e raccontarle. In questo caso è il viaggio, con i suoi infiniti significati, la scintilla. Viaggiare cambia il modo di percepire il mondo: i sensi sono tesi al massimo, il corpo registra dati sconosciuti e la mente annota, trascrive, conserva, rimescola senza sosta. Il viaggiatore è uno scrittore: entra ed esce dal tempo, percorre spazi già attraversati, vive in un continuo alternarsi di voci e incontri che, di notte, gli premono dentro e chiedono di tornare liberi. Allora va incontro all’ignoto cercando di dare senso alle cose. In fondo lo scrittore di saggi non fa altro che lasciarsi sedurre.

A Vienna, mentre ciondolavo da un caffè all’altro, continuavo a guardarmi intorno. Perlustravo ogni cosa incessantemente, cercando di trattenere più immagini possibile. Guardare è la prima cosa che facciamo nella vita. Anche quando leggiamo stiamo guardando perché riusciamo a vedere le immagini della storia che ci è stata raccontata. Scrivere saggi significa soprattutto guardare. John Berger affermava che è dall’immagine che si sprigiona l’energia necessaria per raccontare una storia. I suoi libri vogliono dimostrare che guardare qualcosa o qualcuno significa intrecciare ciò che stiamo vedendo con la storia e la memoria dell’uomo e questo genera un’esperienza complessa e dilatata. Proprio quello che mi è successo a Vienna.

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Juendplatz – piazza dove sorge il monumento dedicato alla Shoah (foto di Alessandro Melia)

Una sera, mentre passeggiavo senza meta per il centro storico, mi sono ritrovato, completamente solo, nella Judenplatz. La forza sprigionata da quella piazza mi ha attirato come una calamita con il ferro. Ero frastornato dai pensieri che mi affollavano la mente. Nel Medioevo la Judenplatz era il centro della vita ebraica di Vienna. Oggi, nascosta dalle vie commerciali, è un luogo senza tempo, in cui si va per commemorare le vittime della Shoah (al centro della piazza c’è un monumento che ricorda i nomi dei luoghi in cui gli ebrei austriaci furono sterminati) o ci si finisce per caso, come è successo a me. Se fossi stato in compagnia di Berger, probabilmente mi avrebbe detto: «La bellezza della vita è ovunque e non bisogna smettere di cercarla». Mentre ammiravo i palazzi decorati, le finestre buie rischiarate soltanto dalla calda luce gialla dei lampioni, e mi muovevo con passo leggero sui ciottoli della piazza, vuota e silenziosa, ricordo di aver pensato che la Judenplatz era un luogo ideale per ambientare un romanzo o per scrivere un saggio. Ma era anche un luogo dell’apprendimento, dove la mente diventava viva. Anche lì, come nei caffè, il tempo era come sospeso. In quel momento stavo vivendo la vita nella sua pienezza e davanti a me avevo infinite possibilità.

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