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La fortuna ti sorride è un titolo ingannevole, un piccolo trucco che il brillante autore gioca al lettore poco attento. Ed è così che ci si ritrova a parlare della raccolta di racconti di Adam Johnson (edita da Marsilio e tradotta da Fabio Zucchella) come un libro che avrebbe il suo fulcro attorno al grande tema della seconda opportunità, dell’ultima chance per ricominciare tutto da zero. D’altra parte Johnson, già Pulitzer con Il signore degli orfani (anch’esso Marsilio e tradotto da Zucchella), non è abituato a fare le cose semplici. E, come nel caso del meraviglioso romanzo dove si cimenta con ambientazioni oscure e imperscrutabili (il regime in Corea del nord), anche in questa raccolta traccia direttrici che trovano diverse interpretazioni in capo al lettore. A ben vedere, in effetti, il cuore pulsante di La fortuna ti sorride non è il caso, l’evoluzione fortuita degli eventi che fornisce la possibilità di stravolgere la propria esistenza. Ma la memoria, una memoria rimossa e l’incapacità di ricordare precisamente.

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Il contenitore delle storie di Johnson è una sorta di non luogo temporale rivisitando e rimodellando la definizione che ne dà Marc Augé. Il non luogo dell’antropologo francese è uno di «quegli spazi anonimi del grande commercio e della comunicazione (aeroporti, ipermercati, catene alberghiere, multisale) che, in ogni città e in ogni paese, sono caratterizzati dalla stessa atmosfera e dallo stesso stile». Si tratta quindi di luoghi strutturalmente esclusivi – in cui l’individuo perde il suo ruolo di persona e assume soltanto quello di cliente-fruitore – e transitori dove l’identità è pericolosa e negata per chi ci si trova. Allo stesso modo il non luogo temporale dello scrittore americano è un tempo sospeso tra il passato e il futuro: non propriamente un presente ma un’eterna soglia, dove si sta frammentati, in bilico sul baratro della morte ma aggrappati alla vita. C’è chi oscilla in avanti e chi indietro, chi è già caduto e sta risalendo alla confusa ricerca di una seconda opportunità – ecco qui l’espediente usato dall’autore che è solo un mezzo e non il pilastro del libro –, di un colpo di fortuna (solo un’illusione per l’appunto) che ne instradi il cammino.

In tutto ciò la tecnologia è l’acceleratore mentale della riflessione attorno all’atavico cruccio esistenziale – l’inesorabile panta rei – che frantuma ancor più rapidamente le canoniche categorie temporali: non distinte ma composte in un pasticcio continuo di momenti, paure e fortune che riposano nel tentativo (non riuscito) di esercizio della memoria: unica dimensione davvero pertinente alla comprensione della vita dell’essere umano, anche se costantemente deludente. Le innovazioni del progresso tecnologico forniscono strumenti per fare un salto nel futuro o nel passato come fosse un addestramento quotidiano, in un contesto che sfiora la distopia ma non l’abbraccia mai per una precisa scelta di realismo di Johnson. Alla memoria si contrappongono la rimozione, la negazione o il revisionismo.

Nel racconto George Orwell era un mio amico l’ex direttore del principale carcere della Stasi a Berlino est continua a vivere nel quartiere dell’ex istituto penitenziario anche dopo il crollo del muro e la dissoluzione del regime. Di più, Hohenschönhausen è ormai diventato un museo dove ex detenuti fanno da guida turistica ai ragazzi delle scuole. Hans non ha mai accettato il ricordo delle violenze che lui stesso ha guidato e permesso e continua ad aggirarsi per il quartiere col cane profanando le tombe delle sue vittime; fino a quando cerca di condurre lui stesso una guida (munito di occhiali-camera) per mostrare ai giovani ciò che succedeva veramente in quello che secondo lui è stato un normale carcere molto efficiente. Racconta il passato oscuro con il filtro della tecnologia per trasmettere la propria narrazione mediata della storia, un processo aberrante di rappresentazione della realtà che corrompe la memoria in ricordo; non più quindi la facoltà di mantenere in vita i contenuti del passato con mente razionale, ma l’esigenza di riportare al cuore i fatti (come da etimo latino) con tutte le decodifiche fuorvianti del caso. La crisi dello smemorato protagonista lo struttura in modo pervasivo ingurgitando ogni aspetto della sua vita. Il rapporto con la famiglia e soprattutto quello con la moglie:

«Il bere la riportava da me e poi lentamente in un posto che solo Gitte poteva raggiungere. A letto, di lei mi restava unicamente l’involucro. Ma il corpo che abbracciavo era legato al suo spirito, o almeno questo io credevo. Quando parlavo, sapevo che poteva sentire le mie parole, da lontano. Quando le allargavo le cosce ed entravo in lei, a volte la sua testa si girava dal cuscino per guardarmi in faccia. A occhi chiusi allineava il suo viso al mio, e io sapevo che ovunque avessero viaggiato i suoi occhi, laggiù, erano aperti. Una versione di me stesso si trovava anche lì e allora lo sguardo di Gitte, per la prima volta in quel giorno incrociava il mio. Questa era la suprema ironia: lei aveva bisogno che il liquore la trasportasse in un luogo dove avremmo potuto entrare in contatto in un modo puro e limpido. Il suo viso, in questo luogo lontano, era illuminato dalle braci».

In Nirvana c’è un marito che, mentre la moglie è paralizzata da una rara malattia progressiva, si consola parlando all’avatar di un ex presidente Usa molto popolare e morto; l’immagine è creata da un iProjector di sua invenzione: una proiezione che annebbia la realtà confondendo il passato finito del presidente, il futuro terminale della moglie e il presente bianco del protagonista arroccato tra la concretezza delle cure e l’evasione dalla realtà.

In Uragani Anonimi una moglie e madre smemorata abbandona marito e figlio in uno scenario postapocalittico americano dove tecnologia e degrado convivono tranquillamente e lo scorrere del tempo è sornione e non si cura della devastazione intorno. Un luogo di fatto non c’è più, la città è stata spazzata via dall’uragano Rita, ma l’essere umano resta abbarbicato alle macerie nella speranza di avere il proprio happy meal dal razionamento e nell’inganno che un qualche gingillo tecnologico sia comunque in grado di protenderlo in avanti. L’uomo di Urugani Anonimi è scarnificato delle sue passioni emotive più articolate, la grande ombra dell’angoscia esistenziale si dirada nel materialismo del quotidiano che lascia soltanto qualche flebile pertugio all’umanità, alla cura di un figlio, alla compassione per un cattivo padre morente. Ciò nonostante chi legge scoprirà da subito che quel barlume è l’intimo motore dei personaggi, una forma di tenerezza proibita a chi non può fermarsi mai per sua natura. Sembra quasi che il protagonista Nonc e gli spettrali personaggi di Uragani Anonimi stiano inconsapevolmente ragionando sulle Confessioni mentre si districano tra alette di pollo fritto e gps; sembra quasi che si chiedano insieme a Sant’Agostino: Che cosa è allora il tempo? se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so; e con lui rispondano: il presente delle cose passate è la memoria; il presente delle cose presenti è la vista; e il presente delle cose future è l’attesa; e che giungano con lui alla conclusione che il tempo non esiste, è solo una dimensione dell’anima, una distensio animi.

Stazione di Montparnasse, Giorgio De Chirico

Stazione di Montparnasse, Giorgio De Chirico

Quella di Johnson è una lotta contro il tempo cronometrico di De Chirico quando immortala lo sbuffare del treno in Stazione di Montparnasse; una colluttazione tra concezioni vinta dall’idea flaubertiana del tempo come «principio di dissoluzione, elemento in cui le idee e gli ideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la loro sostanza»; e ancora una battaglia contro il tempo dell’età contemporanea, lo stesso per cui Gregor Samsa, appena diventato insetto ha come unica preoccupazione quella di non perdere il treno; o almeno, La fortuna ti sorride cerca di rappresentare l’affannarsi dell’essere umano contro questa tirannia; la volontà insostenibile di riuscirla a catalogare e controllare (magari tramite la tecnologia) ricordando, mettendo in fila i fatti e gli errori, quindi gestendola. L’autore però ci conferma che questo non è possibile, neppure attraverso uno snervante sforzo morale o il progresso della scienza. Ci mostra questo annaspare inutile in cui anche la fortuna gioca un ruolo predominante ma in fin dei conti irrilevante, perché è solo l’ago della bilancia tra chi si rassegna e chi non si rassegna alla tirannia: due categorie affatto incisive rispetto alla natura stessa del tempo, divoratore e serial killer. La fortuna anche quando ti sorride è una truffa, il maquillage di un cadavere, di una vita irrimediabilmente troppo corta e sempre ostile.

Così nel racconto che dà il titolo al libro, due esuli della Corea del nord, fuggono in quella del sud: qui non si adattano, uno dei due almeno ci prova e continuerà a vivere, ma solo nella nostalgia di quel mostro che era casa sua, un luogo dove «sotto il manto della brina invernale, anche i gusci delle vecchie fabbriche sovietiche potevano essere belli». Sun Ho e DJ sono prodotti della rimozione della memoria, hanno tagliato i ponti con il luogo di provenienza, per sempre; si sono imbarcati senza identità verso qualcosa che non raggiungeranno mai. Si trovano ai margini di due luoghi, quello dell’abbondanza capitalista della Corea più ricca che difficilmente riusciranno a calzare, e quello della miseria di profughi e stranieri del proprio paese che gli farà sempre volgere lo sguardo a nord, verso quel regime familiare e attanagliante insieme.

Se quindi la memoria fallace si corrompe in ricordo nostalgico, negazionismo, cinismo oppure buonismo allora le storie rischiano di essere dimenticate o manipolate e la narrazione stessa diventa effimera o contraffatta. «Riesci a raccontare una storia che non ha inizio, che all’improvviso accade e basta?» È questo il grande talento di Adam Johnson, la risposta affermativa alla domanda. Raccontare storie che d’improvviso sono in un tempo indefinibile e in un luogo negato, in un non luogo per l’appunto che è l’età contemporanea o forse proprio tutta l’èra dell’essere umano. Eppure l’autore americano racconta personaggi compassati e al tempo stesso densamente popolati da crucci esistenziali; e lo fa in modo straordinariamente elegante con un sarcasmo e un’ironia tagliente sempre presenti e una lingua asciutta e lineare; oltre all’ingegno di raccontare scenari e situazioni così poco immaginabili e, da subito, così prossimi.