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«Oh, una storia di maschere! Chi non ne ha vissuta una? A dirla tutta, il Carnevale è interessante solo perché ci dà quella sensazione di angustioso imprevisto. Tutti hanno una storia di Carnevale, divertente o macabra, algida o ricca di atroce lussuria. Un Carnevale privo di avventure non è Carnevale. Io stesso ne ho vissuta quest’anno…»

Heitor de Alencar si stiracchiava pigramente sul divano, gustandosi la nostra curiosità.

Nel salottino c’erano il barone Belfort, Anatólio de Azambuja, tanto inviso alle donne, e Maria de Flor, la stravagante bohémienne, tutti bramosi di conoscere l’avventura di Heitor. Calò un silenzio come d’attesa. Heitor fumava un’autentica gianaclis, sembrava assorto.

«È un’avventura allegra?» interpellò Maria.

«È soggettivo.»

«Indecente?»

«Quantomeno spaventosa.»

«Di giorno?»

«No. Notte fonda.»

«Ma, per l’amor di Dio, racconta!» supplicava Anatólio. «Non vedi che Maria sta diventando matta?»
Heitor fece un profondo tiro di sigaretta.

«Non c’è nessuno che esca durante il Carnevale senza propensione all’eccesso, senza propensione all’impeto della carne e alle più estreme stravaganze. Il desiderio, quasi malsano, è come dettato, insinuato dall’ambiente. Tutto sa di lussuria, si percepiscono smania e spasmo ovunque, e in questi quattro giorni paranoici, di palpitazioni, di grida, di spudoratezza smisurata, tutto è possibile. Non c’è chi si accontenti di una…»

«O di uno,» lo interruppe Anatólio.

«I sorrisi sono doni, gli occhi supplicano, le risate attraversano l’aria come fremiti orticanti. Forse molti riescono a restare indifferenti. Io sento tutto questo. E quando esco, di sera, e vado verso la fornicazione della città, esco come i navigatori fenici andavano alla processione di Primavera o gli alessandrini alla notte di Afrodite.»

«Bellissimo!» sussurrò Maria de Flor.

«Come immaginerete, quest’anno ho organizzato un’uscita con quattro o cinque attrici e quattro o cinque amici. Non avevo il coraggio di restarmene solo come un cencio nel turbinio di voluttà e piacere della città. Il gruppo era la mia ancora di salvezza. Il primo giorno, il sabato, passammo di ballo in ballo, in automobile. Andavamo, senza distinzioni di sorta, a bere champagne nelle sale da gioco esclusive che davano balli e ai più ordinari balli maxixe. Era divertentissimo e alla quinta sala da gioco eravamo del tutto eccitati. Fu allora che mi ricordai di un ballo pubblico di Recreio. “Santo Cielo!” disse la prima diva delle riviste, che ci accompagnava. “Ma che orrore! Gente comune, marinai in borghese, donne pretenziose negli antri più appartati della rua de São Jorge, un tanfo atroce, risse continue…”

“E allora? Non andiamo?”

E così ci andammo tutti insieme, mascherate le donne. Non c’era niente da temere e realizzammo il nostro desiderio più grande: incanaglirci, infangarci per bene. Naturalmente ci andammo ed era una desolazione, con nere labbrute e sdentate che sparpagliavano pezze maleodoranti sul palco della banda militare, tutta la schiera dei ruffiani dei vicoli lugubri e le strane sagome da larve diaboliche, da incubi in fiaschi di alcol, che hanno le meretrici di certe vie, donne, ma dai tratti come schiacciati, molto pallide, pallide come carta assorbente e carta di riso. Non c’era niente di nuovo. Tuttavia, non appena il gruppo si fermò dinnanzi ai ballerini, sentii qualcosa sfregarsi contro di me, paffuto e allettante, un bebè vestito di tarlatana rosa. Guardai le gambe, con i calzini corti. Belle. Controllai le braccia, l’inarcamento delle spalle, la curva dei seni. Molto gradevoli. Quanto al volto, era un visetto impertinente, con due occhi perversi e una bocca carnosa che sembrava offrirsi. Di posticcio aveva soltanto il naso, un naso così benfatto, così impeccabile, che fu necessario osservarlo con cura per appurarne la falsità. Non ebbi nessun dubbio. Allungai la mano e le diedi un pizzicotto. Il bebè si abbassò ancora di più e disse in un sospiro: “Ahi che male!” Capirete che io fui subito tentato di fuggire dal gruppo. Ma con me c’erano cinque o sei dame eleganti, in grado di spassarsi ma non di perdonare gli eccessi altrui, e sarebbe stato sgarbato abbandonarle per rincorrere una habitué dei balli di Recreio. Tornammo alle automobili e cenammo nel circolo più chic e noioso della città.»

«E il bebè?»

«Il bebè restò lì. Domenica, però, nel bel mezzo dell’Avenida, ero accanto allo chauffeur, nella baraonda colossale, quando sentii un pizzicotto alla gamba e una voce roca dire: “Per quello di ieri”. Guardai. Era il bebè in rosa, sorridente, con il naso posticcio, quel naso così perfetto. Ebbi il tempo di chiedere: “Dove vai oggi?”

“Dappertutto!” rispose, e si perdette tra la folla in tumulto.»

«Ti seguiva!» commentò Maria de Flor.

«Magari era un uomo…» insinuò sospettoso il gentile Anatólio.

«Non interrompete Heitor!» fece il barone, tendendo la mano.

Heitor accese un’altra gianaclis, punta d’oro, e continuò:

«Quella notte non lo vidi e non lo vidi nemmeno il lunedì. Il martedì mi separai dal gruppo e caddi nell’alto mare della depravazione, da solo, con indosso abiti leggeri e tutti i cattivi istinti fustigati. Del resto, l’intera città era in quello stato. È il momento in cui da dietro le maschere le ragazze confessano passioni ai ragazzi, è l’istante in cui i legami più segreti traspaiono, in cui la verginità è dubbia e tutti noi la troviamo inutile, l’onore una seccatura, il buon senso una fatica. In quel momento tutto è possibile, le assurdità più grandi, i crimini peggiori; in quel momento c’è un’euforia che galvanizza i sensi e i baci si schiudono con spontaneità.

Io trepidavo, con una smania di incanaglirmi quasi morbosa. Niente signorine dei piani alti profumate e fin troppo conosciute, nessun contatto familiare, bensì la dissolutezza anonima, la dissolutezza rituale di chi arriva, afferra, conclude, continua. Era ignobile. Per fortuna in molti soffrono di quello stesso male durante il Carnevale».

«A chi lo dici!» sospirò Maria de Flor.

«Ma io non avevo fortuna, avevo la guigne, il malocchio dei defunti indios. Mi avvicinavo e vedevo fuggire la preda desiderata. Dopo una di queste battute di caccia per i viali e le piazze, irruppi a São Pedro e mi buttai nelle danze, mi sfregai a quella gente in genere poco pulita, insistetti di qua e di là. Niente!»

«Non c’è cosa che fa innervosire di più!»

«Proprio così. Rimasi nervoso fino alla fine del ballo, vidi andare via tutti e uscii ancora più disperato. Erano le tre di notte. Il movimento per le strade si era calmato. Gli altri balli erano già terminati. Le piazze, qualche ora prima incendiate dai proiettori elettrici e dai fumi cangianti dei bengala, ricadevano nell’ombra, l’ombra complice della notte urbana. A ricordare la baldoria, l’eccitazione della città, soltanto un’automobile qua e là con le ruote sgonfie, in cui le maschere si davano ai baci, o gente travestita che faceva tintinnare i sonagli sui marciapiedi resi soffici dai coriandoli. Oh! L’effetto snervante di quelle figure irreali nella penombra delle ore morte, a consumare i marciapiedi, li tintinnio dei sonagli che si perde qua e là! Pare qualcosa di impalpabile, di vago, di enorme, che emerge a brandelli dall’oscurità… E i domino avvolti, le ballerine stropicciate, la collezione indefinita delle maschere dell’ultimo momento che si trascinano estenuate! Mi incamminai lungo il largo do Rocio, andavo verso il ministero degli interni, quando vidi, fermo, il bebè in tarlatana rosa.

Era lui! Sentii il cuore palpitare. Mi fermai.

“I buoni amici si rincontrano sempre,” dissi.

Il bebè sorrise senza dire una parola. “Stai aspettando qualcuno?” Fece di no con la testa. Lo strinsi a me. “Vieni con me?” “Dove?” interrogò la sua voce ruvida e roca. “Dove vuoi!” Presi le sue mani. Erano umide ma curate. Cercai di baciarla. Si ritrasse. Le mie labbra sfiorarono appena la punta fredda del naso. Impazzii.

“Per poco…”

Non serviva altro durante il Carnevale, soprattutto mentre lei diceva con voce ansante e lasciva: “Non qui!” Le cinsi la vita e ci incamminammo senza dire una parola. Si appoggiava a me, ma era lei a guidare il cammino e i suoi occhi bagnati sembravano fruire di tutto il bestiale desiderio espresso dai miei. In questa fase dell’amore non si conversa. Non ci scambiammo una frase. Sentivo il battito disordinato del mio cuore e il sangue in fermento. Che donna! Che vibrazioni! Eravamo tornati al giardino. Davanti all’entrata che dà sulla rua Leopoldina lei si fermò, esitò. Poi mi trascinò, attraversò la piazza, ci infilammo nella via buia e senza luci. In fondo, il palazzo delle Belle Arti era desolante e lugubre. La strinsi più forte. Lei si accoccolò ancora di più tra le mie braccia. Come le brillavano gli occhi! Attraversammo la rua Luís de Camões, restammo proprio sotto le spesse ombre del conservatorio di musica. Era enorme il silenzio e l’atmosfera intorno aveva un colore vagamente cinereo con l’oscurità appena rischiarata dalla luce dei lampioni distanti. Il mio bebè paffuto e rosa era ciò che restava del vizio in quella austerità notturna. “Allora, andiamo?” chiesi. “Dove?” “A casa tua.” “Ah! No, in casa non puoi…” “Allora da qualche altra parte.” “Entrare, uscire, spogliarmi. Non sono il tipo!” “E cosa vuoi, gioia? Non possiamo restare per strada. Da un momento all’altro passerà un vigile.” “E quindi?” “Non penseranno che siamo qui con buone intenzioni, alle prime ore del mercoledì delle ceneri. E alle quattro devi toglierti la maschera.” “Che maschera?” “Il naso.” “Ah! Sì!” E senza dire altro mi attirò a sé. L’abbracciai. Le baciai le braccia, le baciai il petto, le baciai il collo. La sua bocca si offriva golosa. Intorno a noi il mondo era qualcosa di opaco e indefinito. Le succhiai il labbro.

Ma il mio naso avvertì il contatto del naso posticcio di lei, un naso che sapeva di resina, un naso che faceva male. “Togliti il naso!” Lei mormorò: “No! no! Ci vuole tanto a metterlo!” Cercai di non toccare il naso tanto freddo su quella carne in fiamme.

Il pezzo di cartone, tuttavia, si ingrandiva, sembrava crescere, e io sentivo un malessere curioso, uno strano stato di inibizione. “Ma che diavolo! Non andrai mica a casa con questo! E poi, non maschera niente.” “Sì, invece!” “No!” Cercai la cordicella tra i capelli. Non c’era. Ma mentre mi abbracciava, mi baciava, il bebè in tarlatana rosa sembrava un’indemoniata impaziente. Le sue labbra si accostarono di nuovo alla mia bocca. Mi lasciai andare. Il naso sfregava contro il mio, il naso che non era il suo, il naso finto. In quel momento non resistetti, avvicinai la mano, la avvicinai sempre di più, mentre la sinistra la stringeva ancora più forte, e all’improvviso afferrai il cartone, lo strappai. Attaccata alle labbra, con due occhi in cui collera e pavore sembravano fondersi, avevo una testa strana, una testa senza naso, con due buchi insanguinati tappati dal cotone, una testa allucinante, un teschio con carne…

La allontanai, mi ritrassi immensamente nauseato da me stesso. Tremavo tutto per l’orrore, per lo schifo. Il bebè in tarlatana rosa si era accasciato a terra, il teschio rivolto verso di me, in un pianto che gli arricciava la bocca mostrando insolitamente i denti bianchi sotto il buco del naso. “Perdonami! Perdonami! Non picchiarmi. Non è colpa mia. Soltanto a Carnevale posso divertirmi. Quindi ne approfitto, capisci? Ne approfitto. Sei stato tu a volere…”

La scossi con furia e la rimisi in piedi con uno strattone che deve averla disorientata. Una voglia di sputare, di rigurgitare mi stringeva la glottide, e mi venne l’imperioso desiderio di prendere a pugni quel naso, di rompere quei denti, di ammazzare quell’atroce perversità della Lussuria… Ma un fischietto risuonò. Il vigile stava all’angolo e ci guardava, aveva notato la scena nella semioscurità. Che fare? Portare il teschio alla polizia? Dire a tutti che l’avevo baciato? Non resistetti. Mi allontanai, affrettai il passo e, una volta arrivato al largo, inconsciamente mi misi a correre verso casa come un pazzo, con i denti che battevano, ardendo di febbre.

Solo quando mi fermai sulla porta per estrarre la chiave, mi resi conto che nella mano destra stringevo una sostanza oleosa e insanguinata. Era il naso del bebè in tarlatana rosa…»

Heitor de Alencar si interruppe, la sigaretta tra le dita, spenta. Maria de Flor contorceva il viso sgomenta e il dolce Anatólio non aveva un bell’aspetto. Allo stesso narratore scorrevano gocce di sudore sulla fronte. Calò un silenzio penoso. Infine, il barone Belfort si alzò, suonò la campanella affinché il domestico portasse delle bevande e riepilogò: «Un’avventura, amici miei, una bella avventura. Chi non ha la sua avventura di Carnevale? Questa è quantomeno entusiasmante».

E si sedette al piano.

 

Traduzione di Gabriella Goria