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Eileen è un’acqua cheta.
Almeno a prima vista.

Ha ventiquattro anni, la gonna di lana al ginocchio e la potremmo definire con questa sfilza di aggettivi: lugubre, ossuta, stitica, trasandata, vergine. Ma sotto la sciatta, spigolosa Eileen ribolle una rabbia frustrata e vertiginosa fatta anche di pulsioni torbide e una sessualità resa morbosa dall’occultamento diurno.

Lavora a Moorehead, una «prigione per bambini», e vive in una cittadina insignificante, a cui assegna il nome fittizio di X-ville, dentro una casa-tugurio fredda e inospitale, anch’esse carceri da cui vagheggia di scappare fin da quando ha memoria. Ma la vera prigione che la rinchiude è il suo corpo: una pelle di tamburo tesa e vizza che non le dà scampo e la segue ovunque vada. Il suo volto è la «maschera mortuaria» con cui si cela agli altri e in cui non le riesce di volersi riconoscere. La sua è una storia di ribellione contro di sé, ma soprattutto contro il proprio corpo, artigliato e avvilito in ogni maniera possibile e immaginabile. Una storia di mortificazione e autorepressione che si sfoga in pensieri violenti e tetri, mai o forse mai disponibili a tramutarsi in azione.

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«Eileen» di Ottessa Moshfegh (Mondadori, traduzione di Gioia Guerzoni)

Il padre è un ex poliziotto in pensione alcolizzato, un carceriere bolso e odioso e cattolico. Ma si sa, una delle cose che si apprendono subito entrando in una prigione è che i ruoli di questa cattività sono ben delineati solo sulla carta: non esistono carcerieri che non siano carcerati. E così Eileen è vittima e carnefice di se stessa, come di suo padre.

Non fa che guardare scorrere le ore sull’orologio al muro del suo ufficio e nel frattempo si ricapitola in testa per l’ennesima volta il piano di fuga, pensato e ripensato senza mai essere attuato. La sua vita è «una lunga condanna a far passare il tempo», che se vogliamo è una summa precisissima di cosa sia in effetti l’istituzione carceraria. Ma siamo nel 1964 e la libertà sembra essere un alito di vento ormai in procinto di scoperchiare i tetti delle morali perbeniste degli abitanti del New England. Eileen è la storia della settimana che le cambierà la vita; la cronaca minuta della settimana del Natale 1964 in cui finalmente fuggirà.

Rachitica e anonima, eppure lasciva e violenta, la psicologia di Eileen ricorda da vicino quella della Joe di Nymph()maniac di Lars Von Trier (se non l’avete visto non vi scomodate, sarebbero le cinque ore e mezza dedicate al sesso peggio spese della vostra vita); ciononostante nel suo essere detestabile e repellente nella sua perenne autocommiserazione da grigia bibliotecaria su un autobus di provincia, la sua voglia di riscatto e lo scacco autoinflitto scatenano un’immedesimazione che forse non era nemmeno nelle ambizioni dell’autrice.

Ecco, l’autrice. Ottessa Moshfegh, trentacinquenne di Boston con padre iraniano e madre croata, ha vissuto un paio di anni in Cina e ne ha passati otto negli Alcolisti anonimi. Con Eileen ha scritto uno tra i migliori libri del 2016, perlomeno secondo tale AM Homes, vincendo il PEN/Hemingway per l’opera prima e arrivando nella shortlist di Man Booker e National Book Critics Circle Award. Quest’anno uscirà una sua raccolta di racconti, Homesick for Another World, che si trovano sparsi un po’ tra Granta, Paris Review e New Yorker, e il suo primo lavoro, McGlue, è una novella allucinatoria su un omicidio e un amore omosessuale che le ha fruttato diversi riconoscimenti. Eileen, a quanto pare, finirà al cinema nei prossimi anni e, bisogna dirlo, la cosa – vista la potenza dell’ordigno narrativo – non sorprende. Per dirla con le sue parole, interpellata da Vice: «La mia scrittura fa sì che le persone facciano i conti con la propria depravazione, ma allo stesso tempo è molto rifinita… È un po’ come vedere Kate Moss che caca».

Prescindendo dalle autodefinizioni, in questo romanzo più che Kate Moss è Freud a essere evocato spesso, e uno dei temi portanti è senza dubbio il parricidio, come pure i rapporti all’interno della famiglia, costituzionalmente e per sua stessa natura disfunzionale e malata. Eileen soffre più per la morte del cane che non per quella della madre, ma quello che vuole davvero compiere è un parricidio; misfatto di cui è accusato un ragazzino imberbe di nome Lee Polk che, tra gli altri, ha sotto la sua custodia nel carcere di Moorehead. Un preadolescente alla cui storia si legheranno lei e la bella e altolocata Rebecca, che Eileen vede come il passaporto per scappare dal New England e di cui si invaghisce in maniera patologica e senza speranza.

Eileen ribalta completamente il caposaldo cui si ancorano tutte le scuole di scrittura di questo mondo e figuriamoci quelle americane: «show don’t tell». Fa, se possibile, esattamente l’opposto: è tutto un «tell don’t show» e assurdamente, per una volta, la cosa è salutare e ragionata. Tutta questa confessione torrenziale che ci viene rovesciata addosso da una Eileen ormai in là con gli anni, ci distoglie da ciò che è davvero importante in questa storia? Forse. Di sicuro è in attesa, dietro l’angolo, una sorpresa, una svolta «noir» che l’inaffidabile voce narrante ha tenuto in serbo per noi lungo tutto il romanzo.

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