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Questo articolo di Maria Nadotti è uscito su Lo Straniero che ringraziamo. 

Lo straniero chiude e a me viene chiesto, quasi in dirittura d’arrivo, di «scrivere una breve cosa anche fuori dai denti da rubricare sotto Donne, in cui osservi lo stato delle cose senza le abituali demagogie maschili o femminili».

Illustrazione di B.Pucci

Illustrazione di B.Pucci

E allora parto da qui, da queste demagogie, che hanno disegnato, per me e per le donne con cui divido da anni pensieri e azioni, una sorta di rocciosa extraterritorialità. Ci siamo, ma è come se non ci fossimo, come se fossimo venute da altrove, e altrove continuassimo a essere e talora a scegliere di rimanere. Serviamo, anzi qualche volta siamo considerate insostituibili, ma i nostri pensieri, la nostra vita attiva, non entrano in risonanza con altri pensieri e altro agire. Non passano. Come se si impigliassero nella sterpaglia di uno status quo (maschile e femminile) evidentemente – o forse illusoriamente – ancora garante di vantaggi e privilegi. A destra come a sinistra. Tra gli uomini come tra le donne.

L’Italia, come sappiamo, non è un paese accogliente. Non mi riferisco al buon cibo, all’arte, al clima mite o alle bellezze paesaggistiche che incantano i turisti da Goethe in avanti, e neppure a quella piacioneria così intrinseca al nostro dna nazionale. Ho in mente un’accoglienza che è sinonimo di apertura, curiosità, porosità intellettuale, voglia di confronto, disponibilità al cambiamento, passione disinteressata per la vita (la propria e l’altrui, se no che passione è?). Perché questa accoglienza si dia è indispensabile che non si voglia ridurre il diverso all’identico, l’altro da me a un gigantesco e rassodato, ventriloquo IO, spesso camuffato da un indefinito, generico NOI. Lo dico in senso lato, senza contrapporre il femminile al maschile, senza ipotizzare cioè che le donne siano, perché donne, migliori di tutti gli uomini o, se preferite, che tutti gli uomini siano, perché uomini, peggiori di tutte le donne.

La materia è fluida, indocile, incostante e si presta a ogni possibile combinazione. Come si spiegherebbe altrimenti, a ogni tornata elettorale, la fedeltà dimostrata da tante donne nei confronti di partiti che non le prevedono o che si limitano a usarle come specchietti per le allodole o pura facciata? Come si spiega, per stare alla cronaca recente, che l’elettorato nordamericano, in buona parte femminile, abbia preferito spaccare tutto, scegliendo di farsi rappresentare da un brocco, piuttosto che affidarsi alla competente continuità nel disastro di una donna? Perché da noi si continua a considerare un obiettivo per cui battersi il teatrino delle quote rosa, uno dei mostri più autolesionistici prodotti dal sonno essenzialista della ragione?

È ancora plausibile invocare più donne presidente, ministro, segretario di stato, amministratore delegato, senza interrogarci e garantirci su cosa esse annuncino di nuovo e diverso per tutte e per tutti? Non hanno già dimostrato, gli ultimi decenni di vita politica e sociale globalizzata, che è pericoloso isolare i temi del sessismo e della discriminazione di genere (ma altrettanto si potrebbe dire per il razzismo e la discriminazione razziale) dall’analisi critica complessiva del sistema capitalistico in cui viviamo? Davvero, davanti a figure politiche come quelle di Theresa May, Marine Le Pen, Park Geun-hye, Beata Szydlo – tanto per fermarci alle ultime arrivate – dovremmo sentirci più rappresentate, riconosciute, addirittura empowered?

Lo ha detto bene alcune settimane fa la filosofa e teorica femminista statunitense Nancy Frazer, denunciando con voce ferma e serena dalle pagine di Le Monde le falle della candidatura democratica alle presidenziali 2016: «Hillary Clinton si batte da tempo per far avanzare la causa delle donne, intesa però da un punto di vista liberale che s’interessa soprattutto all’individuo, all’uguaglianza dei diritti, in seno a un sistema definito dal mercato. In base a questa corrente di pensiero, bisogna venire a capo delle discriminazioni affinché le donne possano fare concorrenza agli uomini per ottenere i posti di potere. Ma questo femminismo non cerca di rovesciare le gerarchie. In un’epoca come la nostra, contrassegnata dalle montanti diseguaglianze, battersi perché le donne possano raggiungere il vertice della piramide non è un’aspirazione egualitaria.»

Per cosa battersi allora? E con chi? Ed è così insignificante parlare di metodo, oltre che di visione del mondo? A me non pare affatto indifferente che questa o quella donna, invece di essere scelta da altre donne e a esse rispondere attraverso deleghe vincolanti che comportano un lavoro comune, sia cooptata, imbeccata, fornita di una mission dalle tinte alternativamente rosa, nero o rosso sangue (la barzelletta della donna-risorsa sposa assai bene il necrologio della donna uccisa, stuprata o semplicemente tenuta in stato di servitù) da uno o più uomini che la vogliono lì proprio a dimostrazione della loro lungimiranza politica, vale a dire di un agile mantenimento dell’ordine dato.

Qualunque persona di buon senso, uomo o donna che sia, si sarà chiesto come mai ogni volta che un/a politico/a nomina la questione femminile, sugli schermi appaia l’immagine di torme sofferenti di esseri diversamente abili, da tutelare e proteggere perfino da se stessi con leggi, finanziamenti, servizi pubblici ad hoc. Più luci e forze dell’ordine nelle strade, perché qualche malintenzionato non si senta autorizzato a saltar loro addosso; più asili nido e flessibilità oraria sul posto di lavoro, perché le poverette (per definizione sempre madri di bambini in età prescolare) debbano fare meno acrobazie per conciliare l’inconciliabile; più soldi e più aiuti perché possano riprodursi e riprodurre l’italica specie; eccetera eccetera. Perché, a chi occupa un posticino e/o un ruolo anche solo alla lontana imparentato con il potere, non viene neanche in mente di pensare alla libertà, non sempre e solo alla (presumibilmente naturale) bisognosità delle donne? La domanda, lo so, è fin troppo retorica, ma perché non provare a chiedersi che scarto ci sia tra la Donna e le donne? Tra un simbolo manipolato e manipolabile, e le nostre multiple, complesse realtà.

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