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Questo è un estratto del racconto eponimo del libro Il collezionista di conchiglie edito da Rizzoli, che ci ha gentilmente concesso la pubblicazione, e tradotto da Daniele A. Gewurz e Isabella Zani.

Strofinava patelle nel lavandino quando sentì il raschio del taxi d’acqua sulla barriera. All’udirlo si stizzì: la chiglia sgretolava i calici delle acropore e le cannucce della Tubipora musica, lacerava le formazioni a felce e a fiore dei coralli molli e rovinava anche le conchiglie, forando le lumache oliva, i murici e i buccini, le Hydatina physis e le Turris babylonia. Non era la prima volta che qualcuno provava a stanarlo.

Udì un ciac-ciac di piedi a riva e il motore del taxi che ripartiva per Lamu, poi la cantilena lieve dei colpetti alla porta. Tumaini, la sua pastora tedesca, emise un uggiolio basso da sotto la branda dov’era acquattata. Lui mollò una patella nel lavandino, si asciugò le mani e andò controvoglia ad accogliere i visitatori.

Due cronisti di un tabloid newyorkese, entrambi sovrappeso e di nome Jim, dalla stretta di mano rovente e scivolosa. Lui gli versò un chai. Nel suo cucinino occupavano un volume sorprendente. Dissero che erano lì per scrivere di lui: si sarebbero fermati due sere soltanto e lo avrebbero pagato bene. Che gliene pareva di diecimila dollari americani? Lui si cavò dal taschino una conchiglia – un ceritide – e se la rigirò tra le dita. Gli chiesero della sua infanzia: davvero sparava ai caribù da ragazzino? Non ci voleva la vista buona?

Lui fornì risposte sincere. Sembrava tutto un capriccio, una fantasia. Quei due Big Jim non potevano essere davvero lì al suo tavolo, a fargli quelle domande, a lamentarsi del tanfo di molluschi morti. Alla fine vollero sapere dei coni, della potenza del loro veleno, e quanti visitatori avesse ricevuto. Di suo figlio non gli chiesero niente.

Fece caldo tutta la notte. La folgore screziava il cielo oltre la barriera. Dalla branda il collezionista sentiva i siafu, le formiche guerriere, che si pascevano dei due omoni, e loro che si graffiavano dentro i sacchi a pelo. Prima dell’alba li avvisò di rovesciare le scarpe per via degli scorpioni, i due eseguirono e infatti ne cascò fuori uno, che schizzò sotto il frigorifero con un raschio leggerissimo.

Il collezionista prese il secchiello per la raccolta, agganciò Tumaini dalla pettorina e la cagna li condusse tutti lungo il sentiero per il reef. L’aria sapeva di fulmini. I due Jim ansimavano per stare al passo. Si dissero molto impressionati dai suoi movimenti così rapidi.

«Perché?»

«Be’» mormorarono, «lei è cieco. Il sentiero non è agevole. Tutte queste spine.»

In lontananza il collezionista sentì la voce alta e amplificata del muezzin di Lamu che richiamava alla preghiera. «È il Ramadan» disse ai due Jim. «Finché il sole è sopra l’orizzonte la gente non mangia. Bevono solo chai fino al tramonto. Staranno mangiando adesso. Stasera se vi va possiamo uscire. Arrostiscono la carne per strada.»

Per mezzogiorno erano usciti di un chilometro, lungo la grande dorsale ricurva della barriera, con la laguna che gli sciabordava tranquilla alle spalle e l’acqua bassa che gli si infrangeva davanti. La marea stava salendo. Libera dalla pettorina Tumaini boccheggiava, mezza dentro e mezza fuori dall’acqua, piantata su uno scoglio a forma di fungo. Il collezionista stava chino, con le dita che frugavano, fremevano, mulinavano per trovare le conchiglie in una fossa sabbiosa. Agguantò il guscio rotto di un fusiforme, fece scorrere un’unghia sulle spire scolpite. «Fusinus colus» disse.

In automatico, all’arrivo di ogni onda, sollevava il secchiello perché non fosse inondato. E appena passata l’onda tornava a infilare le braccia nella sabbia, le dita che sondavano una fessura tra gli anemoni, sostavano per identificare un blocco di coralli cervello, rincorrevano una lumachina che si rintanava.

Uno dei Jim aveva con sé una maschera da sub e la usava per guardare sott’acqua. «Ma guarda ’sti pescetti blu» esclamava. «No, guarda che blu

In quello stesso istante, il collezionista di conchiglie rifletteva sull’indifferenza delle nematocisti; cellule piccolissime che scaricano il proprio veleno anche dopo la morte. L’anno precedente un unico tentacolo essiccato, reciso da otto giorni, aveva punto un ragazzino del villaggio facendogli gonfiare le gambe; un morso di tracina aveva dilatato tutto il lato destro di un uomo adulto, gli aveva offuscato gli occhi, lo aveva reso cianotico. Diversi anni prima, proprio al collezionista la puntura di un pesce pietra aveva corroso tutta l’epidermide di un tallone, rimasto levigato e privo di solchi. E quante spine di ricci, spezzate ma ancora piene di veleno, aveva tolto dalle zampe di Tumaini? Che ne sarebbe stato dei due Jim, se un serpente marino dagli anelli gli si fosse insinuato tra le gambe cicciotte? Se qualcuno gli avesse infilato un pesce leone nel colletto?

«Ecco cosa siete venuti a vedere» annunciò estraendo il mollusco – un conus – dalla sua galleria che intanto cedeva. Lo rigirò e se ne sistemò la parte piatta tra due dita: ancora la proboscide velenosa si sporgeva in fuori, a cercarlo. I due Jim si avvicinarono rumorosamente.

«Questo è un cono geografico» disse. «Si nutre di pesci.»

«Quell’affarino mangia i pesci?» chiese uno dei due. «Ma se è più piccolo del mio mignolino.»

«Quest’animale» disse il collezionista di conchiglie gettandolo nel secchiello «ha dodici diversi tipi di veleno nei denti. Potrebbe paralizzarla e annegarla qui su due piedi.»

Tutto era cominciato con una buddista malarica nata a Seattle, di nome Nancy, che era stata punta da un conus nella cucina del collezionista. Il mollusco era strisciato fuori dall’oceano, si era trascinato per un centinaio di metri sotto le palme da cocco e attraverso la macchia di acacie, l’aveva pizzicata e aveva riguadagnato la porta.

O forse era cominciato prima di Nancy, forse era cresciuto a partire dallo stesso collezionista proprio come crescono le conchiglie, attorcigliandosi verso l’alto dal di dentro, a volute intorno al proprio occupante, sempre erose nel frattempo dalle intemperie marine.

I due Jim avevano ragione: a caccia di caribù il collezionista c’era andato. Aveva nove anni a Whitehorse, in Canada, e già il padre lo faceva sporgere dalla cupola vetrata dell’elicottero nel nevischio battente per sfoltire i caribù malati con la carabina di precisione. Ma poi era arrivata la coroideremia con degenerazione della retina; nel giro di un anno non gli restava che la visione a cannocchiale, imbrattata da aloni arcobaleno. E a dodici anni, quando il padre lo portò seimila e cinquecento chilometri più a sud da uno specialista in Florida, era ridotto al buio.

L’oftalmologo capì che il ragazzino era cieco al solo vederlo varcare la soglia, una mano aggrappata alla cinta del padre e l’altro braccio teso in avanti, palmo all’infuori, a parare gli ostacoli. Anziché visitarlo – che c’era più da visitare? – il medico lo accolse nello studio e gli sfilò le scarpe, poi lo accompagnò fuori dalla porta posteriore e lungo un viottolo sabbioso fino a una lingua di spiaggia. Il ragazzino non aveva mai visto il mare e faticò ad assimilarlo: le sfocature che erano onde, le striature che erano alghe drappeggiate sulla linea di marea, il tuorlo sbavato del sole. Il medico gli mostrò il bulbo di un’alga bruna, lasciò che lo spezzasse tra le mani e ne raschiasse l’interno con il pollice. Seguirono molte scoperte analoghe: un piccolo granchio a ferro di cavallo che ne montava uno più grosso nella risacca, un grappolo di mitili abbarbicati all’umido disotto di uno scoglio. Ma fu quando s’immerse fino alla caviglia, e le dita dei piedi s’imbatterono in una conchiglietta tonda, non più lunga di una falange del suo pollice, che il ragazzino cambiò davvero. La estrasse in punta di dita, tastò l’uovo lustro del corpo, il varco dentato dell’apertura. Era la cosa più elegante che avesse mai tenuto in mano. «Quella è una ciprea» disse il dottore. «Magnifica scoperta. Ha delle macchie brune, e strisce più scure alla base, come quelle delle tigri. Ma tu non la vedi, giusto?»

Invece sì. Non aveva mai visto nulla con tanta nitidezza in vita sua. Le dita carezzarono la conchiglia, la fecero saltare e girare. Non aveva mai toccato niente di così liscio; mai immaginato che qualcosa potesse possedere tanta levigatezza. Domandò, quasi mormorando: «Chi l’ha fatta?». L’aveva ancora nel palmo quando, una settimana più tardi, suo padre gliela cavò di mano a forza, lamentandosi per la puzza.

Dalla sera alla mattina il suo mondo divenne gusci, conchiliologia, il phylum Mollusca. A Whitehorse, nell’inverno senza sole, imparò il Braille, si mise a ordinare libri di conchiglie per corrispondenza, rigirava tronchi dopo il disgelo in cerca di chiocciole boschive. A sedici anni, bramando le barriere che aveva scoperto sui libri, come Le meraviglie dei mari di corallo, lasciò Whitehorse per sempre e diventò marinaio sulle barche a vela nei Tropici: Sanibel Island, Santa Lucia, le isole Batan, Colombo, Bora Bora, Cairns, Mombasa, Mo’orea. Il tutto da cieco. La pelle si fece bruna e i capelli bianchi. Le dita, i sensi, la mente, tutto in lui era ossessionato dalla geometria degli esoscheletri, dalla scultura del calcio, dalla logica evolutiva di rampe, aculei, grani, spire, pieghe. Imparò a identificare le conchiglie facendosele trottolare in mano; il guscio girava, le dita ne determinavano la forma, lo classificavano: Ancilla, Ficus, Terebra. Tornò in Florida, conseguì la laurea in biologia, il dottorato in malacologia. Fece il giro dell’Equatore; si perse paurosamente per le strade delle Figi; lo rapinarono a Guam e pure alle Seychelles; scoprì nuove specie di bivalvi, una nuova famiglia di scafopodi, un nuovo nassaride, un nuovo Fragum.

Quattro libri, tre pastori guida e un figlio di nome Josh più tardi, lasciò la cattedra in anticipo e si trasferì in una kibanda, una capanna con il tetto di paglia poco sopra Lamu, in Kenya, un centinaio di chilometri a sud dell’Equatore, all’interno di un piccolo parco marino nell’ansa più remota dell’arcipelago. Aveva cinquantotto anni. Si era convinto, finalmente, che c’era un limite a quanto poteva capire, che la malacologia lo trascinava sempre più giù, verso altre domande. Non aveva mai compreso le infinite varianti di struttura: perché questo reticolo ornamentale? Perché le tali lamelle scanalate, i talaltri nodi bitorzoluti? L’ignoranza era, alla fin fine e per moltissimi versi, un privilegio: trovare una conchiglia, sentirsela in mano, capire soltanto a un livello inesprimibile perché si desse la pena di essere tanto bella. Quanta gioia scorgeva in tutto questo, quale assoluto mistero. […]

Proprietà letteraria riservata

© 2002 Anthony Doerr
© 2017 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli, Milano

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