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Mancano pochi minuti alle otto. La notte s’è bella che accasciata su Békindi, questo singolare quartiere alla periferia di Douala. L’aria calda sa di sudore e fognatura. Niente si muove, i rami dei manghi e degli avocadi stanno fissi, immobili. Il vento non soffia, e d’altronde non è il benvenuto. Adesso sembra quasi un quartiere fantasma, Békindi, un quartiere cimitero, un quartiere morto. Solo qualche moccioso un po’ più audace continua a gesticolare sulla schiena della madre. Una mosca sfrontata fa un giro in aria e poi s’eclissa silenziosamente. Un cane fa finta di abbaiare in un angolo buio della strada principale. Quel cane sa bene che Békindi non è vuota, e vuole attirarsi qualche sguardo, ma invano. Tutte le anime del quartiere, infatti, sono silenziose e a farsi sentire sono soltanto le radio che proclamano in coro i risultati degli esami di maturità.

La lettura dei risultati degli esami di maturità è ben più di un evento a Békindi, ben più di una festa nazionale, più della festa delle donne, ben più di un matrimonio o di un lutto. Per noi quella lettura rappresenta un momento di consacrazione, un battesimo. È un modo, per noi, di segnare il passaggio di un ragazzo da uno stato a un altro; il passaggio dallo status di bambino a quello di adulto. I ragazzi, il diploma li rendeva uomini, uomini che la circoncisione non aveva fabbricato del tutto. Era una tappa importante che completava la loro maturazione. Una tappa imprescindibile nel processo di finalizzazione, di rifinitura dello stato del maschio. Dopo il diploma non restava più niente, o quasi, visto che bisognava ancora dimostrare di essere potenti – cioè di poter avere un bambino, ma non un bambino e basta, soprattutto un maschio. Era quello lo zenit dell’eccitazione per la condizione maschile: avere un figlio!

Per le ragazze invece, la maturità rivestiva un carattere ambivalente, visto che le famiglie erano combattute tra il sentimento d’orgoglio di avere una figlia provvista di diploma e lo stress di non poterla vendere con facilità a un pretendente a causa dell’elevato livello d’istruzione. LOL! Ma a Békindi, le ragazze se ne infischiavano, «non siamo mica bastoni di manioca» ribattevano ai genitori quando questi domandavano di tenere a bada il loro livello d’istruzione per paura che diventassero zitelle a vita. Poco importa, quelle ragazze avevano ben altre ragioni per ambire al diploma. Volevano andare all’università, visto che per loro era il modo migliore per abbandonare l’ingombrante uniforme da collegiale e ricoprire da quel momento in poi i propri corpi d’un vestito non più lungo della fine del sedere. Carezzavano così l’idea d’essere più sexy di Pamela Anderson, e soprattutto, di sperimentare i primi rapporti sessuali… le vergini s’intende. Quelle tutt’altro-che-vergini, invece, loro sognavano ancor più fornicazione e dissolutezza. Ecco cos’era diventato il diploma di maturità a Békindi: un passaporto per la libertà sessuale e la dissolutezza. Ed ecco la ragione per cui tutti quanti rimanevano attentissimi durante le solenni letture dei risultati dell’esame di maturità. Tutti volevamo sapere chi aveva ottenuto la propria licenza di dissolutezza, la licenza di libertinaggio, la licenza di deflorazione, la licenza di sverginamento, la licenza per smisurate botte e via, la licenza orgiastica, e soprattutto la licenza di beccarsi una Mst o l’Aids, visto che i preservativi per i giovani di Békindi erano come il calore per i pesci.

A pochi passi dalla discesa paludosa, si ergeva maldestra la capanna di mia madre. Una casa stretta, fatta per metà di mattoni poggiati su delle fondamenta sempre più fragili, a causa dell’erosione eccessiva del terreno sghembo su cui era sorta. Il resto della casa, cioè la parte superiore, era fatta di tavole rosicchiate qua e là da termiti in crisi alimentare. Spensieratamente chiamavamo quel tipo di baracche «case semidure», perché rispecchiavano il nostro tenore di vita «semipovera-semiricca». La casa semidura di mia madre riusciva a stipare al suo interno tutti i ragazzini che aveva messo al mondo durante gli anni di effimero concubinato, gli anni di delusioni amorose, gli anni di promesse maschili mai mantenute. «Ah gli uomini» diceva sempre, «sono tutti dei bugiardi!» Eravamo poco più d’una ventina di teste a trovar rifugio lì quella sera: mia madre, il suo ultimissimo amante, i miei nove fratelli e sorelle, due delle mie cognate e i rispettivi figli, tre cugini venuti dal villaggio apposta per l’occasione, dei vicini sprovvisti di preziosi mezzi di comunicazione, qualche curioso inebetito e io, naturalmente.

Siamo tutti seduti intorno alla nostra piccola radio nera made in China. La scrutiamo come un efebo penetra con lo sguardo il sedere ondeggiante di una fanciulla. Dentro vogliamo sviscerarci non so che cosa. Vogliamo ascoltare con lo sguardo l’annunciatrice, vogliamo vedere i nomi che legge, vogliamo che ce li bisbigli all’occhio. Più siamo concentrati, più la voce dell’annunciatrice ci ipnotizza e le nostre pupille non si muovono più, nemmeno al passaggio di una zanzara. Quale che sia la pronuncia o l’accento del conduttore radiofonico, a questo ritmo nessun nome conosciuto può sfuggirci. Poco importa se ha un accento marcato dell’ovest, del paese Bamiléké dove si pronunciano con indolenza tutte le sillabe delle parole; poco importa se confonde la «u» con la «i» come nei paesi Bassa dove si dice «Jilie» al posto di «Julie» o «sissirrare» al posto di «sussurare». Poco importa se la giornalista lavora in diretta sul suo accento parigino, tanto per dimostrare ai piccoli niente-di-niente quali eravamo quanto sia di un’altra categoria per aver fatto la Sorbona, quella vera, a Parigi, e non la Ngoa Ékélé a Yaoundé.((Università del Camerun.))

La giornalista dal finto accento parigino leggeva, leggeva, e leggeva ancora. Il tempo passava a gocce di flebo, i cuori battevano all’impazzata, saliva l’adrenalina, il puzzo della spirale anti-zanzare ci carezzava l’olfatto ma ce ne fregavamo, il puzzo delle scorregge misto al sudore non ci faceva sollevare gli sguardi dalla nostra radio nera made in China. Poi oplà! la conduttrice dal finto accento parigino annuncia la pausa: «Sono le otto, è l’ora del notiziario in lingua francese, presentato da Barbara Nkono». Un grande Ah! si fa sentire a mo’ d’inno di disapprovazione. È il grido d’impazienza dei candidati, degli sbadati, delle loro famiglie, degli impiccioni, dei voglio-sapere-tutto. Per chi conosceva già la propria sentenza, c’era una sola alternativa: esplodere di gioia o singhiozzare. Quando escono i risultati è così. I neodiplomati si affollano per le strade come un esercito di mosche davanti a un mucchio di merda. Gridano la gioia del loro sollievo e non mancano d’ingollare in un colpo litri di birra e di farne mandar giù altrettanta ai parenti, a chi si è spostato apposta per l’occasione, agli impiccioni, ai vicini, ai passanti. Il diploma di maturità, diciamolo pure, dà anche il permesso per sbronzarsi, per bere come una spugna, per vomitare quando se ne ha lo stomaco pieno. Dopo la maturità, la vita diventa bella! Sì, ma che ne è dei poveri respinti? In teoria non hanno diritto all’atmosfera, non fanno parte della festa e restano afflosciati sulle loro consumate poltrone di vimini. In teoria, ripeto in teoria, ci si aspetta che restino a casa a frignare, pieni di dolore. Ma spesso non è ciò che accade. Tutti bevono, si sbronzano, e dormono nelle canalette. Tutti, compresi i bocciati! E così spesso non si sa, il giorno dopo, chi si è veramente diplomato e chi no, chi sa o no tenere in mano una penna, chi sa scrivere il suo nome e chi no, chi sa o no la data d’indipendenza del paese, chi sa o no la Marsigliese, chi ha avuto il suo permesso di dissolutezza e chi no. A Békindi, senza saperlo, diploma o no, viviamo tutti la peggiore delle dissolutezze sulla terra. In realtà, abbiamo sempre pensato che fosse fondamentale che anche i bocciati festeggiassero, per meglio simulare la festa che organizzeranno quando ce la faranno davvero. A Békindi, i momenti di successo, ci piace più immaginarli che viverli. Ci piace tanto immaginare di aver vinto alla lotteria o alle corse ai cavalli, la coppa del mondo di calcio, o semplicemente di aver superato la maturità.

Durante la pausa delle news in lingua francese, siamo sempre più impazienti, specie mia madre. Aspetta quei risultati piena d’ansia. Eppure non è la prima volta che partecipa a uno spettacolo del genere. C’era già passata più e più volte. Aveva seguito i risultati dei miei fratelli Jonas, Ivan e Titus che noi chiamavamo «Titis», perché siamo originari dei paesi Bassa dove confondono la «u» con la «i». Mia madre aveva seguito la proclamazione dei risultati con lo stesso ardore, la stessa suspense, ma… ahimè! Alla fine, fallivano sempre tutti, e noi festeggiavamo comunque per simulare ciò che avremmo fatto il giorno in cui finalmente il diploma fosse entrato nella nostra casa semidura.
Avrete capito quindi che fino a quel momento mai un diploma aveva varcato la soglia della casa di mia madre. I miei suddetti fratelli ci avevano invitato così tante volte alla grande messa della proclamazione dei risultati, ma liquidandola sempre con un chinar di capo, una scrollata di spalle e… una festa! LOL! Eppure, il giorno dopo, non mancavamo d’accusare un tale vegliardo di aver rosicchiato la memoria di Titis, o una tale vicina d’essere gelosa dell’intelligenza di Jonas. Ci ricordavamo allora di una certa visita inaspettata di una zia o di uno zio lontano del villaggio, e pensavamo che fossero venuti per fargli una fattura. Nessun indizio si doveva omettere ricercando le cause del fallimento dei miei fratelli. Si dovevano prendere in considerazione tutte le possibilità, per capire la causa del loro permanente fallimento. Insomma, si doveva rimproverare tutto agli altri e niente a loro.

Così ancora una volta Jonas, Ivan e Titis ci avevano cortesemente invitato a prendere parte alla prestigiosa proclamazione dei risultati dell’esame di maturità che ci offriva la radio nazionale. Per fortuna, non era richiesto un abbigliamento formale, e l’entrata era libera e gratuita, tutti potevano fare il mi-invito-da-solo. Quella sera, molti dei nostri invitati abituali avevano saltato l’appuntamento dati i ripetuti insuccessi dei miei fratelli. Per ciò che riguarda quelli che si erano degnati di venire, i pareri erano discordi: per alcuni, finalmente era arrivato l’anno della liberazione, secondo gli altri, più scettici, le lancette si sarebbero spezzate tempo addietro e si stava facendo molto tardi; per altri ancora, non c’era più nulla da aspettarsi da quei buoni-a-nulla. Tutti però concordavano su un punto: oramai bisognava volgere gli sguardi verso un altro rampollo della casa semidura di mia madre, un vero Kirikou, un non-grande-ma-valoroso, un non-grande-ma-intelligente, il beniamino di famiglia che ad appena sedici anni tentava per la prima volta il prezioso esame tanto temuto da un gran numero di giovani di Békindi. Quel piccolo niente-di-niente ero proprio io.

Io sono Adama Ateba, detto Bambino colletta, ovvero un bambino fatto da diversi spermatozoi. LOL! A Békindi ci si prende gioco della scienza mica poco! Alla domanda sul perché i miei cognomi appartenessero a etnie diverse, rispettivamente Peul e Fang-Béti, mia nonna mi aveva risposto in modo piuttosto crudo per il ragazzino di quattro anni qual ero. Mi aveva detto che mia madre non era altro che una finta poligama, che andava a letto con chiunque le promettesse un dolciume, che non mancava di concedersi gratis al primo arrivato, ai magri, ai grassi, agli alti, ai nani, ma sempre a poveracci. Che era sempre la prima a ridere ma anche la prima a piangere, che gli uomini si prendevano gioco di lei, e che lei, mia nonna, aveva dovuto aiutarla a portare un fardello fatto di dieci bambini, ciascuno con un padre e la sua storia. Mi aveva anche detto che quando la mia cara mamma s’era resa conto, quattro mesi dopo il concepimento, di essere incinta del decimo figlio – che sono io – non riuscì affatto a stabilirne la paternità. D’altronde non ci riusciva che rarissime volte dati i molteplici partner sessuali. È il motivo per cui alla mia nascita mi diede i cognomi dei due amanti preferiti d’allora, quindi Adama della provincia di Adamaoua e Ateba d’Ebolowa. Ecco perché mi chiamo Adama Ateba, detto il Bambino colletta! LOL!

Per quel che mi riguarda, dei miei presunti padri biologici io non avevo mai conosciuto né l’uno né l’altro. Ero, come tutti i miei fratelli e sorelle, un bastardo. Devo però segnalare che quella sera, durante la lettura dei risultati dell’esame di maturità, eravamo in compagnia di Moukouri. Anzi, «Papà» Moukouri, visto che mia madre attribuiva un’importanza fanatica a quell’appellativo, al punto di ordinarcene fermamente l’uso nel rivolgerci a quelli che lei chiamava i suoi amici, i suoi Ma Wanda. I suoi amanti, sì! Così, i miei sedici anni d’esistenza mi avevano concesso l’onore o il disonore di distribuire sfilze di «Papà» d’ogni sorta ai cosiddetti amici della mia carissima madre. Distribuivo dei «papà» adulatori con l’intento di ottenere una caramella, dei «papà» irrispettosi quando mamma vuotava il contenuto della pentola nei loro piatti, riservandoci così gli avanzi dei giorni precedenti, dei «papà» beffardi quando bisognava estorcere una o due monete da cento franchi CFA per comprarsi delle frittelle ai fagioli, dei «papà» ingiuriosi, dei «papà» sprezzanti, o ancora dei «papà» detti alla chi-se-ne-frega o semplicemente per abitudine. «Papà», «papà» e ancora «papà», ma mai papà veri.

Devo comunque rivolgere a papà Moukouri un’attenzione speciale. Rispetto ai suoi predecessori, lui si preoccupava dell’andamento della casa, dello stato delle pance degli uni e degli altri, e soprattutto dei miei studi. Ancora più sorprendente era accorgersi che aveva già convissuto un po’ più di un anno con la mamma, sembrava quindi il più serio di tutti quelli che avevo conosciuto fino a quel momento. E lo era davvero, del resto, visto che fu proprio lui che finì per salvare ufficialmente mia madre dal suo vecchio nubilato chiedendola in sposa agli zii che la vendettero per un casco di banane nane! E quella sera durante la pausa del giornale radio, papà Moukouri mi stringeva forte la mano e mi faceva mantenere la temperatura a 37. Non mi diceva vane parole opprimenti del tipo «sono sicuro che ce la farai», o «sei molto intelligente». Si mise a sedere nella veranda, su una vecchia poltrona di vimini. Io mi accomodai di fianco a lui su una piccola panca traballante, rovinata da punteruoli e altri coleotteri di cui non conosco il nome. Mi reggevo quindi più sui piedi che sulle chiappe, per paura di diventare l’assassino di uno degli unici mobili che ci restavano. Papà Moukouri mi teneva ancora per mano, poi mi fece un sorriso, ma senza proferire parola.

Il ritorno dei miei fratelli e degli altri abitanti del quartiere nelle rispettive baracche ci fece dedurre che il notiziario in lingua francese era finito e che la lettura dei risultati era ripresa. Rientrammo e ci rimettemmo all’ascolto. Al microfono, c’era ancora la giornalista dal finto accento parigino, dalla voce elastica, piena di ehm! ehm! Ma come ho detto, nulla poteva impedirci di seguire un nome che conoscevamo. L’annunciatrice fece rotta per la «sede decentrata del Lycée Mongo Joseph». Non era la mia sede d’esame, ma conoscevamo una ragazza che l’aveva fatto lì: si trattava di Ngo Mbila Pauline, la figlia della nostra vicina di casa. Una giovincella bella come una padella! Il suo naso e la sua bocca non facevano pensare ad altro se non a un buffo gorilla. Ma la cosa più spassosa è che si credeva la più seducente di Békindi. Miss Spazzatura sì! LOL! Ad ogni modo, era così che la chiamavamo. Eppure, la nostra Miss Spazzatura se la tirava come se fosse Miss Mondo, caruccia, mignonne, guapa, beautiful, e urlava su tutti i tetti arrugginiti di Békindi che si augurava di non mischiare il suo destino con quello delle bande di luridi paesani che non eravamo altro. «Banda di teppisti!» ci gridava.

Tutti quindi aspettavamo i risultati della nostra Miss Spazzatura. Tutti, soprattutto gli analfabeti, i principali zimbelli della star. La lettura procedeva in ordine alfabetico, dalla A alla Z. A noi interessava la lettera N perché il cognome della nostra Miss Spazzatura era Ngo Mbila, figlia di suo padre, figlia di papà Mbila. Seguivamo meglio di prima, e l’attenzione salì di parecchie note. Ci fu una notevole trasposizione. Eravamo tutti fermi immobili, anche le robuste zanzare delle stagioni di svernamento si erano acquietate per non sentire il nome di Miss Spazzatura alla radio e prendersi poi gioco di lei. L’annunciatrice leggeva, leggeva e non si fermava. Passò le K come Kanfack, Kingue o Kuitchoua, poi le L come Long o Longò, e le M come Mbidjimi, Missonghi o Moussima. Finalmente le N. Passò dai Nana ai Nématchoua, poi ai Ngando, ed ecco i «Ngo». Seguimmo tutti i «Ngo» prima che fossero esaurite tutte le N, finché l’annunciatrice attacca con la O di Obagma Atangana Junior e l’intero quartiere di Békindi fu sopraffatto dalla gioia. Lanciammo in coro urla di gioia, di soddisfazione, di sollievo e di conforto. Miss Spazzatura era stata appena bocciata per la quinta volta consecutiva! L’infelicità della nostra Miss Spazzatura faceva la felicità di tutta Bekindi. Per un buon numero di persone quella era la fine dell’ascolto della proclamazione dei risultati, e ben presto il quartiere sprofondò di nuovo nella sua solita atmosfera: un bambino affamato che gridava di qua, un cane che abbaiava di là al passaggio di un piccolo fattorino, delle zanzare che giocavano a nascondino con le mani nervose delle madri, o ancora un ubriacone che sbraitava perché aveva rovesciato la sua bottiglia di Castel.

A casa nostra, pure noi avevamo gridato, avevamo festeggiato il fallimento di Miss Spazzatura, ma avevamo rincollato il più in fretta possibile gli occhi alla nostra radio nera made in China. L’annunciatrice dal finto accento parigino si stancò, abbandonò il microfono e le subentrò un uomo dalla voce roca. Doveva essere per forza dell’Ovest, del paese Bamiléké, si vedeva a occhio nudo, tanto pronunciava distintamente tutte le sillabe delle parole. Di certo non aveva fatto la Sorbona come la collega, l’annunciatrice dal finto accento parigino. Passò senza nessuna transizione – nemmeno musicale, giusto per aiutarci ad assaporare il fallimento della nostra Miss Spazzatura – alla lettura della sede decentrata del Lycée della Cité des Cocotiers, quella del mio esame. Frequentavo infatti quel liceo-sede-d’esame, che portava il nome del quartiere in cui si trovava. Stranamente non c’era nemmeno una palma da cocco in quella zona, e mi domandavo sempre perché lo chiamassero «Rione delle Palme da cocco». C’erano solo degli alberi di mango dove andavo spesso a rubare qualche mango selvatico. Io, ad ogni modo, chiamavo quel quartiere il «Rione dei manghi» e il mio liceo, «Liceo del rione dei manghi». LOL!

Papa Moukouri mi prese ancora una volta per mano, la bocca sempre cucita e quella volta, io avvertii la potenza del silenzio. Qualunque emozione disordinata tace al silenzio. L’annunciatore dalla voce roca aveva già esaurito le serie A (lettere e filosofia), C (matematica e fisica) ed ecco che attaccava con la serie D, Scienza della Vita e della Terra. Scandì, nel suo accento Bamiléké, la famosa frase introduttiva: «si di-chia-ra-no pro-mos-si all’e-sa-me di ma-tu-ri-tà, i can-di-da-ti i cui nomi qui di se-gui-to…». Poi pronunciò per primo e sempre nel suo accento marcato, il mio nome: A-da-ma A-te-ba, seguito da un «con-gra-tu-la-zio-ni!», per segnalare che avevo superato l’esame con il massimo dei voti.

È l’euforia totale nella casa semidura di mia madre. Roba da matti! Papà Moukouri mi proietta con un braccio verso il cielo e io manco di un dito le lamiere arrugginite della nostra catapecchia, i vicini lanciano degli iu-huu! e avvertono tutto il quartiere che s’illumina poco a poco; i miei fratelli gridano come se Éto’o del Barcellona avesse appena segnato un gol contro il Chelsea, i cugini venuti dal villaggio intonano un canto tradizionale degno del traguardo, in lingua Bassa, e i miei fratelli ne ripetono a stento il ritornello, perché di dialetto sanno a malapena qualche parola. Oh mia madre! Non potrò dimenticarla! È la migliore.

Riuscite a immaginarvi la gioia di un vero padre alla vista del suo lattante? Riuscite a immaginarvi la gioia di una giovane sposa alla vista del marito di ritorno da una lunga guerra? Riuscite infine a immaginarvi la gioia di un buon gaou((Termine argot utilizzato in Camerun e Costa d’Avorio per indicare una persona sprovveduta, che per troppa ingenuità è pronta a credere a tutto quanto altri dice. ))quando arriva in Francia, a Parigi? Ebbene! Se ci riuscite, vi dirò che la gioia di mia madre era ancor più grande. Che gioia! Finalmente! Aveva ottenuto ciò che era stato oggetto di lunghi anni di attesa. Fine del disonore portato dalla nostra famiglia, fine della credenza alla malasorte che avrebbe pesato su di noi. Non si trattava più di camminare con il volto velato da tutte le grosse bravate dei miei fratelli, o a testa bassa per colpa dei molteplici aborti delle mie sorelle: «tale madre, tale figlia!», gridavano le malelingue. Avevamo di che gonfiarci il petto, ormai, e procurarci qualche invidia.

La promozione all’esame di maturità con il massimo dei voti, quell’anno mi diede diritto a una rara borsa di studio per l’ammontare di sessantacinquemila franchi CFA, da far felice mia madre come una Sara che concepisce un figlio a novant’anni. Insomma, il diploma mi consacrò alla mia nuova vita: una vita da universitario, una vita da intellettuale e… una vita di dissolutezza! LOL! Non chiedetemi quale sorte sia toccata ai miei fratelli Jonas, Ivan e Titis. Ancora una volta avevano fallito con il massimo dei voti, pure loro. Eravamo dispiaciuti per loro e contenti per me. Ma in ogni caso, avevano festeggiato insieme a me per simulare, come al solito, il giorno in cui anche loro avrebbero finalmente ottenuto quel famoso diploma di maturità tanto temuto da più di un Békindinese.

® Traduzione italiana di Sara Princivalle 2017

® Tutti i diritti riservati

 

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