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Era arrivata dal bagno con i capelli umidi e il telefono in mano. Si era seduta sul tavolo dicendole che c’era una buona notizia. Aveva fatto il biglietto.

«Davvero? È assurdo. Hai ricominciato a comportarti come una sociopatica, stai sempre con il telefono in mano», disse Antonia.

«Mi stai torturando» rispose Gemma con un filo di voce.

«Giuro che la smetto se mi spieghi il senso di andare a casa di uno che non sai neanche che faccia ha.»

«Appunto, lo hai detto pure tu. Il senso è andare a vedere che faccia ha.»

«E tu sei disposta a fare mille e trecento chilometri solo per vedere un tizio che hai conosciuto in chat?» Adesso che si stavano avvicinando ai trent’anni, Antonia somigliava sempre di più a sua madre. Gli stessi capelli radi e le doppie punte. Trascorreva la maggior parte del tempo in cucina, ormai indossava il grembiule già dalla mattina presto, direttamente sul pigiama.

«Mi sono detta: ma quando ti ricapita di trovare uno con cui parli così bene? Allora vado, non c’è molto da pensare. E poi è Berlino, stanno tutti là, non corro nemmeno il rischio di restare da sola.»

Antonia aveva tagliato le zucchine a strisce e le stava cuocendo nella salsa di pomodoro in latta, così potevano fare finta che fossero spaghetti ipocalorici. Gemma fumava una sigaretta tenendo il telefono appoggiato sul ventre, con lo schermo verso il basso. Di tanto in tanto una vibrazione le faceva tremare le mani, ma prima di leggere contava settanta secondi e poi altri dieci.

«Lo capisco, vuoi vedere come è fatto. Ti piace come scrive, ti piacciono le cose che fa e lo vuoi conoscere. Potevi dirgli di venire qua, sarei potuta andare a dormire da qualcuno. Mi sembra che stai rischiando troppo, come al solito. Ma tu fai sempre di testa tua.»

Le suggerì di prenotare una stanza in un ostello; non che poi dovesse andarci davvero, ma se le cose si fossero messe male almeno avrebbe avuto un posto in cui aspettare al sicuro il momento di tornare a casa. Gemma aveva preso due bicchieri dallo scolapiatti, aveva versato un po’ di vino. La loro cucina era attrezzata come quella di un ristorante, erano tutti acquisti di Antonia o regali che aveva ricevuto dalla madre per il compleanno.

«Ho smesso da un po’ di prendere sul serio gli uomini che frequento, e dovresti farlo anche tu.»

«Bugia», disse Antonia.

«E va bene, è una stronzata, però tu fammene passare una ogni tanto.»

Non era la prima volta che Gemma entrava in intimità con un uomo conosciuto in chat. C’era stato uno che a un certo punto le aveva chiesto se poteva chiamarla, una domenica notte, e l’aveva tenuta al telefono fino alle due a parlare del pomeriggio che aveva trascorso a restaurare una bicicletta. Era un tipo che faceva battute senza alterare mai il tono di voce, il più delle volte Gemma non riusciva a capire se stesse parlando sul serio, ma la faceva ridere molto. A tratti per non svegliare Antonia doveva soffocare le risate nel cuscino. Era stata bene, anche se alla fine lui le aveva augurato la buona notte chiamandola con il nome di un’altra. Aveva risposto «anche a te», ma poi non si era mai più fatta sentire, e nemmeno lui.

«E poi continui a dire che è uno sconosciuto, e mi fai incazzare. Come al solito sminuisci le questioni essenziali e dai importanza a dettagli insignificanti, ad esempio chi dei due si decide per primo a prendere un aereo per andare dall’altro. Mi ha detto che non ha mai incontrato nessuna con cui era riuscito ad aprirsi così tanto. Ti rendi conto di quanto è difficile trovare qualcuno che si confidi?»

«Andiamo, sarà la centesima volta che mi racconti che questo è diverso dagli altri. Avrà capito che sei una a cui piacciono le confidenze e ti ha detto quello che volevi sentirti dire.»

Antonia bevve un sorso di vino, piegò la testa verso destra in segno di approvazione, e disse:

«Glauco, che nome del cazzo. Ma tu hai mai conosciuto qualcuno che si chiama così?».

«Ti ricordo che l’ultimo marinaio livornese con cui sei uscita si chiamava Chevin col ch», disse Gemma «e io non ti ho fatto nemmeno la metà delle storie che mi stai facendo tu.»

«Ma che c’entra, non è che se l’è inventato?»

«Anto’ adesso stai esagerando. Come siamo messe, sono pronti gli spaghetti?» chiese Gemma illuminando lo schermo del telefono.

«Tranquilla, prima di fare il biglietto l’ho cercato su Facebook: il nome e la foto corrispondono alle informazioni sul profilo della chat. Dovresti fidarti di più.»

«Di che stai parlando adesso? Di te o dei tipi con cui esci ogni fine settimana? Mi piacerebbe non doverti raccogliere in mille pezzi. Stavi andando bene, non bloccarti un’altra volta.»

Da sei settimane a quella parte lei e Glauco si stavano conoscendo a fondo attraverso lo schermo di un telefono. Se lui le mandava un link a una canzone mentre era in giro per biblioteche, Gemma smetteva di fare qualsiasi cosa stesse facendo per ascoltare il pezzo. Si sedeva in un angolo del chiostro di Palazzo Ricci, accendeva una sigaretta e metteva la canzone al massimo. Da quando chattava con Glauco la sfera romantica richiedeva una certa intimità, come una seduta spiritica.
Se lo sentiva sempre addosso e non prendeva più nessuna decisione senza prima essersi mentalmente confrontata con lui.

La sera indossava un paio di pantaloncini da atletica e una canotta bucata sul seno, si sdraiava sul letto e gli scriveva messaggi in cui gli raccontava come stava. Il più delle volte ne venivano fuori testi criptici, anche per lei. La mattina li rileggeva sul bus che la lasciava di fronte al dipartimento di Lettere; scopriva spunti interessanti sulla sua personalità, ne faceva screenshot che rigirava ad Antonia per riparlarne a cena. Certe notti si rigirava nel letto fino alle due domandandosi perché non riuscisse più a tenere un segreto, sentiva il bisogno di raccontargli anche i dettagli più noiosi della sua giornata in facoltà. Trascorreva la notte alle prese con una angoscia che le stringeva la gola, le riempiva lo stomaco come la marea, quando sale e non resta altro da fare che aspettare che si decida a scendere. La mattina le sembrava di essersi sognata tutto: Glauco, la marea e i sentimenti per un uomo con la faccia in digitale. Ma il suo messaggio al risveglio era sempre lì, nitido sullo schermo a ricordarle che cosa stavano facendo.

Se a un certo punto Glauco le avesse scritto che non aveva più voglia più di scambiare messaggi così intimi con una sconosciuta, lei si sarebbe sentita in diritto di parlare di lutto. Invece Glauco le scriveva «ancora, ne voglio di più: leggere le tue parole quando apro gli occhi al mattino mi fa sentire come se mi risvegliassi accanto a te, nel tuo stesso letto.» Aveva preso per mano uno sconosciuto e lo aveva accompagnato nei meandri di se stessa; piccoli sentieri angusti in cui a stento c’era spazio per lei, figuriamoci per due che camminano fianco a fianco.

Dopo un po’ che si scrivevano le aveva spedito un selfie che si era fatto non appena sveglio. Quando Gemma aveva sfiorato lo schermo l’immagine si era ingrandita su una risma di appunti sul comodino di Glauco. La grafia era piccola, appuntita come aghi di pino. Riusciva a leggere solo le parole città e immagine, tutto intorno ai bordi c’erano delle losanghe scarabocchiate. «Ciao, buongiorno. Ti auguro una buona giornata», ogni mattina le mandava sempre lo stesso messaggio vocale con la voce graffiata dal sonno. Gemma si alzava subito dopo e metteva su il caffè.

Glauco si era fatto trovare agli arrivi, fuori dall’aeroporto. Indossava una giacca a vento nera e due paia di guanti senza dita, uno sopra l’altro. Aveva le mani arrossate dal freddo e la stava aspettando ancora a cavallo della bicicletta, come se si fosse tenuto pronto per scappare, in caso di necessità. Se l’era immaginato più alto, anche se le aveva detto sin da subito di aver aspettato qualche giorno a contattarla la prima volta perché le ragazze più alte di lui lo mettevano in imbarazzo.

Se si escludevano lei e Antonia, nel suo giro erano tutti accoppiati: gli amici e gli amici degli amici. Qualcuno cresceva le figlie leggendo a voce alta le storie di Bianca Pitzorno, altri scrivevano dottorati a distanza, cercavano di tenersi in equilibrio in un rapporto in cui c’erano poco tempo e pochi soldi, quanto bastava per incontrarsi una volta al mese in una capitale europea. Quando Gemma si rese conto che era arrivato il momento di allargare i suoi orizzonti, aveva scaricato un’applicazione di incontri mentre aspettava una amica al bar e si era presa un po’ di tempo per compilare il profilo. Nome completo: Gemma Pani. Età: 29. Altezza: 1,78 cm. Professione: @Unipi. Città: Pisa, Italia. Aveva lasciato incompleti i campi: hobby e libri o film o canzoni o gruppi preferiti. Le due foto che aveva caricato risalivano a tre, quattro anni prima. Le aveva prese dall’archivio di foto di Facebook, scrollando rapidamente verso il basso i selfie ante litteram che si era fatta nel bagno della sua casa da fuori sede. Non le sembrava di essere cambiata poi molto negli ultimi anni, ma quella virgola di diversità si era concentrata nel colore dei suoi occhi. Era torbido, adesso, e dotato di una prospettiva in cui si sprofondava a non starci attenti. Antonia diceva che tutto era iniziato da quando si era messa in testa di trovare l’uomo della sua vita fra gli sconosciuti con cui si scriveva in chat.

«Le storie che finiscono male ti fanno a pezzi perché non sopporti i fallimenti» le diceva. «Dovresti vivere gli incontri con leggerezza, goderti la serata. E invece hai sempre gli occhi tristi, chi vuoi che ti si prenda in questo stato?»

«Ma cosa ne vuoi sapere tu dei miei fallimenti? E poi smettila di farmi la morale ogni fine settimana, qualcuno lo troverò.»

«Sì, tipo un medico senza frontiere o uno studente di psicologia dell’ultimo anno. Vuoi mettere la comodità di avere una cavia in casa?»

«E chi lo sa meglio di te? Non fai altro che testare su di me tutte le ricette che preparerai per il tuo futuro maritino. Non sarà il caso che inizi a cercarti anche un uomo a cui cucinarle tutte ‘ste leccornie? Se andiamo avanti così, fra un anno dovrò caricare foto di me dalle spalle in su», le diceva Gemma abbracciandola forte.

Glauco aveva il volto pallido, due occhi azzurri che non stavano fermi un attimo, ma le occhiaie invecchiavano il suo sguardo come non aveva mai visto su un uomo della sua età. La accolse baciandole le guance, le poggiò la mano sulla schiena e la spinse delicatamente in direzione della S-Bahn.

Viaggiarono in piedi, uno di fronte all’altro, con la bici fra di loro. Gemma azionava il freno cercando di capire se aveva voglia di finirci a letto subito, non appena si fosse fatto buio. Glauco le raccontò che si era trasferito a Berlino per frequentare la Neue Schule für Fotografie e che il lunedì e il martedì lavorava in un bar sulla Revaler Strasse. Gli piaceva mescolare i cocktail a ritmo di Ellen Allien, ma poi usciva da lì con i capelli che puzzavano di posacenere bagnato.

«Ah, davvero!» rispondeva Gemma, ma era attenta a come gli si arricciassero le labbra ogni volta che pronunciava la lettera O. Era un ovale perfetto, e questo le piaceva molto. Per tutto il resto c’era ancora tempo.

Dopo un po’ che viaggiavano su un binario che correva al centro del niente, affiancato da alberi e da strade percorse da poche auto, fuori dal finestrino il paesaggio in fuga si trasformava nei palazzoni dipinti con i graffiti che Gemma aveva visto su Google. I rami induriti dal freddo sembravano vecchie mani che cercavano di grattare via i colori dalle facciate.

«Eccola finalmente! In questi giorni ho visto così tante foto di Berlino che mi sembra quasi di esserci già stata. In due giorni ce la faremo a vedere tutto?»

«Non credo, ma intanto scendiamo. Siamo a Hermannstrasse», le disse Glauco.

Quando si aprirono le porte li investì un odore di brezel appena sfornati. Sulla banchina Gemma si voltò a guardarsi indietro, in mezzo a quel vespaio lo perse un attimo di vista. Le persone aspettavano i treni ai bordi dei binari fumando o zigzagando fra senzatetto che cercavano bottiglie di vetro dentro la spazzatura. Due bambini con una tuta bucata sulle ginocchia giocavano a calcio sulla banchina facendo tunnel fra le gambe dei passanti. Glauco la stava aspettando accanto alla scala mobile, con la bici in spalla scuoteva una mano in aria.

Il coinquilino di Glauco era partito per un fine settimana in Norvegia. Cercava riparo dalla città, si era ritirato in un convento dove avrebbe osservato il silenzio totale per tutta la durata dell’internamento.

«Qui si usa togliersi le scarpe, spero non ti dispiaccia», le disse mentre la accompagnava nella stanza di Jules.

«Puoi mettere le tue cose sul divano ma non toccare niente, e soprattutto non cambiare la disposizione degli oggetti». I libri con le coste dai colori caldi erano sui ripiani superiori della libreria, quelle dai colori freddi tutti insieme, negli scaffali più in basso. L’assenza del letto faceva sembrare la stanza molto spaziosa, ma le mensole non lasciavano un centimetro di muro vuoto. Dentro alcune cassette di legno, a terra, c’erano vinili e musicassette, diverse scatole di aspirine e altri medicinali, due paia di Doc Martens bordeaux e uno nero. Nell’armadio aperto le camicie erano appese in base alla lunghezza delle maniche: prima quelle con la manica corta, poi quelle a manica lunga. Quando Gemma si voltò di nuovo verso la porta per chiedere che razza di problema avesse il suo coinquilino, si accorse di essere rimasta da sola.

«Immagino vorrai farti una doccia» le disse dalla sua stanza. Gemma tirò fuori dallo zaino un maglioncino rosso, una collana lunga fino a poco sopra l’ombelico, un paio di orecchini che aveva comprato al mercatino in piazza dei Cavalieri e mise tutto sul divano. Andò a cercarlo e si ritrovò in cucina.

Glauco era nella sua stanza, inginocchiato per terra di fronte al computer. Stava cercando qualcosa, continuava a dire «aspetta un attimo, ci sono quasi. Ancora un attimo» e dopo un po’ che apriva e chiudeva finestre del desktop iniziò Palestina dei Matìa Bazar.

«Non sentivo questa canzone da una vita. Però mi piace, è un po’ retrò», disse Gemma.

«Io e Jules andiamo per mercatini nel fine settimana. Quelle sono le mie preferite, le abbiamo prese a una svendita dei mobili di un Best Western a Steglitz», e le indicò una coppia di poltrone, la pelle della seduta e dei braccioli era lisa. Glauco si mise a ballare a occhi chiusi, ancheggiava a tempo di musica, muoveva le braccia per aria come se imitasse l’andirivieni delle onde del mare.

«L’abbiamo ascoltata a ruota durante il nostro viaggio in Andalusia. Era fine maggio e faceva così caldo che abbiamo comprato un paio di guanti per poter poggiare le mani sullo sterzo e guidare lungo la costa. Non hai anche tu la sensazione che faccia un po’ meno freddo fuori adesso?»

Gemma andò a sedersi su una delle due poltrone e guardò fuori dalla finestra, prese un lungo respiro a occhi chiusi, poi disse che aveva bisogno di fare una doccia. Gli si avvicinò strusciando i piedi per terra, prendendogli la mano gli sussurrò di accompagnarla in bagno.

«Fa’ con calma, prendi tutto il tempo di cui hai bisogno» era rimasto sulla porta, come se quello non fosse il bagno di casa sua. Gemma aprì il rubinetto per sentire l’acqua, aspettò che diventasse tiepida e iniziò a slacciarsi i bottoni della camicia senza mai smettere di guardarlo.

«Non va anche a te di fare una doccia?» gli disse.

«Non adesso, devo uscire un attimo a sbrigare alcune cose per Jules. Fra cinque milioni di danesi lui è l’unico disorganizzato.»

«È davvero urgente, questa cosa?»

«Devo andare alla fine della Pannierstrasse e prendere un paio di dischi, il negozio chiude fra venti minuti. Sarò di ritorno prima che tu sia fuori dalla doccia» le disse fissando un punto oltre le spalle di Gemma, poi chiuse la porta.

Quando uscì dalla doccia Glauco non era ancora tornato, così andò ad aspettarlo in camera sua ancora avvolta nell’asciugamano. La stanza era spoglia, come se ci si fosse appena trasferito. C’erano pochi libri e le mensole sui muri erano quasi vuote, tutto il contrario della stanza di Jules. Accanto alla finestra c’era una piccola teca di vetro con dentro alcune macchine fotografiche. Ne contò sette, ogni obiettivo aveva un suo tappo. I libri erano a terra, appoggiati al muro uno sull’altro. In cima a una pila c’era un volume di Lebeck su Berlino e accanto un altro libro aperto sull’immagine di due uomini in camicia che pisciavano in un bagno di un appartamento newyorkese. Non conosceva la foto ma sapeva della città perché era scritto nella didascalia: Boys pissing, New York 1982.

La stanza aveva lo stesso odore di Glauco quando lo aveva baciato sulla guancia, all’aeroporto. Era l’odore di tutti i locali che frequentava di notte. Gli strati di fumo che si depositavano l’uno sopra l’altro. Avrebbe potuto scoprire la sua storia prendendo in mano uno qualsiasi dei maglioni appesi sull’appendiabiti accanto alla porta e ricostruire la sua vita notte dopo notte, una stratigrafia del divertimento. Ma non le interessava, quindi li scartabellò uno dopo l’altro come quando girava per negozi senza voler comprare davvero, li spostava con la punta delle dita e ne tastava la consistenza, ne osservava le trame. Rimise le grucce così come le aveva trovate, andò a sdraiarsi sul letto e chiuse gli occhi. Dopo un po’ si svegliò; non sapeva quanto tempo era passato, così senza guardare allungò la mano per cercare la sveglia sul suo comodino, accanto ai tubetti di crema per le mani. Invece sul comodino di Glauco c’erano solo una penna e un blocco per appunti, oggetti di una vita che non le apparteneva.

«Glauco, sei qui?» urlò verso la porta. Ma non arrivò nessuna risposta. Dall’appendiabiti prese un maglione e dopo averlo indossato si rimise sotto le coperte.

Glauco non la svegliò, rimase in piedi a osservarla. Si mise a fissare la curva dove i fianchi si stringono per diventare bacino. Ne seguì il profilo con l’occhio fino ad arrivare alla pelle lievemente arrossata del collo. Le scattò una foto con il cellulare nel punto dove il collo sfuma nel lobo dell’orecchio e rimise il telefono nella tasca dei jeans. Si sdraiò accanto a lei a guardare il quadrato di luce che il telaio della finestra riverberava sul soffitto. Quando Gemma si svegliò sentì le dita di Glauco che sfioravano le sue; le prese il volto fra le mani e le baciò le labbra, poi il punto esatto che aveva fotografato.

«Iniziavo a temere di essere venuta a Berlino solo per dormire in un letto scomodo.»

«E invece ti stavi sbagliando.»

Fare l’amore con lui fu semplice. Buongiorno, ti auguro una buona giornata, finalmente stava accadendo.

La portò a cena fuori sul cannone della bicicletta. Le strade lì intorno erano anonime e vuote, ma sapeva che a Berlino la vita accade dentro le case, come dicevano su Italiani a Berlino, un forum di Facebook di cui era diventata membro qualche giorno prima della partenza. Passarono davanti a un appartamento con la finestra aperta dove in un soggiorno illuminato cinque ragazzi stavano ballando musica elettronica.

«Fermati un attimo, voglio sbirciare», ma Glauco continuò a pedalare ridendo.

«Non mi piace chi curiosa in casa degli altri, non è mica un circo.»

Le strade mal illuminate avevano tanti piccoli punti di luce, a volte la facciata grigia di un palazzo prendeva vita grazie a una porta lasciata aperta anche se tirava un vento gelido. Glauco andava avanti sulla pista ciclabile mentre i locali si susseguivano uno dietro l’altro.

«In questa via ci sono solo bar turchi» disse Glauco fermandosi dall’altro lato della strada. Dalle porte gruppi di amici stavano seduti al tavolo, tutti con la sigaretta fra le labbra, a giocare a backgammon. Alcuni stavano in piedi di fronte al locale, a bere tè o a fumare: quando si accorsero di loro, smisero di fare quel che stavano facendo per guardarli fino a quando Glauco non si decise a ripartire. Le vie erano così silenziose che il rumore secco dei dadi sulla tavola da gioco sembrava annunciare l’arrivo di cavalli al passo.

Glauco si fermò a uno späti a comprare due bottiglie di birra che avrebbero bevuto in giro per la città di notte. A un suo cenno, Gemma gli appoggiava il collo della bottiglia sulla bocca e la inclinava quel tanto da permettergli di bere.

Faceva freddo, Gemma aveva piccoli tagli sulle labbra, eppure non riusciva a smettere di descrivergli tutto ciò che le passava davanti agli occhi; ma quell’entusiasmo non lo infastidiva, al contrario lo trovava tenero e si ricordò di quando era appena arrivato, di quando anche lui si stupiva di tutto. Adesso quello che dicevano gli altri su Berlino era un padrenostro distratto, una preghiera che si dice così, in ginocchio la domenica in chiesa con la testa da un’altra parte.

Dopo cena andarono a giocare a ping pong al Mister Ping. Ci si metteva tutti intorno a un tavolo da gioco e si aveva a disposizione un solo scambio, poi sarebbe toccato al prossimo. Chi sbagliava usciva dal giro, andava a fumare seduto sui divani di pelle o a ordinarsi da bere al bancone appiccicoso di birra. Anche a lui piaceva giocare, in questo era simile a tutti gli altri ragazzi che aveva avuto, ma Gemma se lo tenne per sé. Ci teneva a regalargli la sensazione che lui fosse il primo, che lei stesse imparando tutto quella sera, che non avesse altri uomini con cui confrontarlo, migliori o peggiori.

Quando uscì dal giro, Glauco andò a chiedere da accendere a un gruppo di ragazzi che bevevano birra a un tavolo accanto al bar. Gemma era ancora in gioco, colpiva la pallina e poi girava intorno al tavolo cercando lo sguardo di Glauco, che continuava a parlare con loro come se si fosse dimenticato di essere lì con qualcuno. A un certo punto tirò fuori il cellulare dalla tasca e digitò qualcosa; in quel momento Gemma mancò completamente la pallina che era tornata nella sua metà campo e le ragazze raccolte intorno al tavolo, che fino a quel momento avevano tifato per lei, esplosero in gridolini acuti. Una di loro si avvicinò e le disse che era un vero peccato che l’ultima ragazza ancora nel giro fosse uscita; Gemma le diede la racchetta che teneva in mano e senza nemmeno risponderle andò in direzione di Glauco, che le stava andando incontro.

«Sono amici tuoi quelli?» chiese Gemma.

«Non li ho mai visti anche se mi hanno detto che vengono qui tutti i venerdì.»

«Ho visto che vi siete scambiati il numero. Hai abbordato? Non ti pare di cattivo gusto quando esci al primo appuntamento con una ragazza?»

«Ma figurati, ma non hai visto che cessi?» disse Glauco. «Mi sono sembrati dei tipi simpatici, magari ci rincontriamo per una birra un’altra volta.» Gemma lo ascoltava con lo sguardo immobile, come se si fosse addormentata con gli occhi aperti.

«Che hai da fissare in quel modo?» le chiese ritirando il sorriso che aveva sulle labbra.

«Sto cercando di capire» rispose lei. Glauco disse che non vedeva cosa ci fosse da capire in un incontro casuale in un bar.

«Siamo venuti qua per stare insieme e tu mi molli da una parte per farti nuovi amici. Ti sto rovinando il divertimento? Magari vado a casa e ti aspetto lì, se mi dici come tornarci» disse Gemma.
Glauco la ascoltava fissando un punto per terra. Stava per dire qualcosa ma in quel momento Gemma gli tirò su il mento con la mano e guardandolo negli occhi gli sussurrò: «Dai, andiamocene. Non mi va più di stare qui» e lo prese per il braccio.

«Scusami, ho esagerato. Non so che mi è preso, il rumore della pallina mi sta facendo impazzire.» Gemma si mise la giacca e si incamminò verso la porta, uscì dal locale senza nemmeno aspettarlo. Glauco arrivò subito dopo.

Alle due andarono a mangiare una zuppa di lenticchie dal turco sul Kottbusserdamm. Anche se aveva gli occhi rossi per la stanchezza, Glauco non smetteva di fissare un cliente seduto accanto a loro, si era convinto che avrebbe voluto rubare qualcosa dalla borsetta di Gemma. Il ragazzo invece non staccava gli occhi dal piatto né le mani dal suo börek. Mangiava come un vecchio, si portava il boccone fino alle labbra che aspettavano immobili, e masticava a lungo con lo sguardo che per contegno si tiene durante un funerale o in una stanza di ospedale. Da quando era lì Gemma aveva visto turchi che giocavano o mangiavano in silenzio, mosci come una pianta di basilico su un davanzale dove non batte mai il sole.

Dormirono fino a quando Glauco non la svegliò mordendole il lobo dell’orecchio. Fecero l’amore di nuovo, sul letto e sul pavimento. Mangiarono una fetta di pane con il bacon e l’uovo fritto, bevvero birra allo zenzero da due cannucce che attingevano alla stessa bottiglia. Glauco prese una macchina dall’armadietto e la fotografò seduta sullo sgabello della cucina, nuda e con le gambe accavallate mentre si legava i capelli in una crocchia da cui sfuggivano ciocche in tutte le direzioni. Le mordicchiò un capezzolo e le disse «questo lo lasci a me, questo non te lo faccio portare via» e poi la tirò verso la finestra e abbracciandola da dietro le mostrò il barbiere dove andava a farsi tagliare i capelli. Più in là c’era il negozietto dove lui e Jules andavano a prendere la vodka nel bel mezzo della notte, per combattere la noia ogni volta che decidevano che se ne sarebbero rimasti tranquilli a casa a guardare un film. Mentre indicava i posti che adesso lei sentiva essere anche un po’ suoi, la prese da dietro, in piedi contro il vetro della finestra. Da quando erano tornati a casa avevano quasi smesso di parlare; la stanza era silenziosa, a volte Gemma si concentrava sul sussurrio dell’acqua dentro i tubi del termosifone. Sembrava il silenzio irreale di certe notti in montagna, e per un attimo le sembrò di essere lì, sdraiata dentro una tenda a mille e cinquecento metri. Ma le bastò aprire la finestra e accendersi una sigaretta per accorgersi che invece era in città: l’autobus notturno si fermava e ripartiva dopo aver richiuso le porte e l’insegna con la e fulminata del negozio di fronte a casa lampeggiava ora sì ora no, accompagnando la comparsa della parola Delikatessen con un sibilo elettrico.

«Quand’è che hai l’aereo?» le domandò, e siccome in quel momento non riusciva a pensare a nulla gli disse solo: «Non me lo ricordo.»

Glauco scese dal letto e andò a prendere un libro con la copertina di cartone e la costa rilegata con lo spago. Era una raccolta di foto di città. Piazza del Campo nel giorno del palio fotografata dalla finestra di una casa ai bordi della piazza; S.Ciriaco quasi fucsia grazie alla luce di un tramonto estivo, e poi l’immagine sovraesposta di una fontana monumentale al centro di una piazza che Gemma non aveva mai visto.

«Che posto è questo?»

«È la città dove abitano i miei genitori» disse Glauco sfilandole l’album dalle mani e mettendolo via.

«E dove si trova?»

«Non ha importanza, non è per questo che ti ho mostrato le foto. Volevo giustificare il tempo che ho impiegato scrivendoti della fotografia e farti vedere quello che faccio.» Di tanto in tanto la stanza si illuminava con la luce dello schermo del telefono, come se una candela si spegnesse e si riaccendesse.

«Scusami adesso, qualcuno continua a scrivermi, devo vedere chi è», Glauco si era seduto sul bordo del letto a leggere i messaggi dandole le spalle.

Quando tornò sotto le coperte, Gemma gli lesse un passo di un testo che si portava dietro fra le foto del telefono:

Lui ha un grande senso dell’orientamento; io nessuno. Nelle città straniere, dopo un giorno, lui si muove leggero come una farfalla. Io mi sperdo nella mia propria città; devo chiedere indicazioni per ritornare alla mia propria casa.

Era un racconto che amava molto e lo riprendeva fra le mani di tanto in tanto per ripassare quante e quali facce può avere l’intimità con un uomo. Avrebbe voluto leggerglielo tutto ma le tremava la voce e poi le mancavano diversi pezzi. Alla Feltrinelli di Corso Italia c’era una commessa che dopo un po’ che ti eri portato il libro nel chiostro veniva a bussarti sulla spalla per invitarti a comprare il volume o a rimetterlo subito a posto oppure, se ti scopriva a fotografare le pagine, non ti lasciava in pace finché non le avevi cancellate proprio davanti ai suoi occhi. Così aveva fotografato le pagine di fretta, mentre Antonia la teneva impegnata chiedendo se i libri di una certa Jane Rhys erano ordinabili in lingua originale, e di tutte le pagine di sinistra, le prime e le ultime righe erano rimaste tagliate fuori.

Lo schermo del cellulare segnava le tre del pomeriggio quando Gemma si svegliò. Si alzò coprendosi con una maglietta che aveva trovato ai piedi del letto e lo cercò in ogni stanza. Glauco era davanti alla finestra della cucina, parlava a voce bassa al telefono guardando la strada. Quando lei si avvicinò e gli poggiò una mano sul fianco, Glauco si voltò con l’indice davanti alla bocca.

«Zitta.»

Aveva scandito ogni singola lettera, come se si stesse rivolgendo a una sorda. Nei suoi occhi da vecchio era comparso un lampo folle, un guizzo che Glauco non aveva saputo tenere sotto controllo. Gemma si tirò giù la maglietta, cercò di coprirsi; per la prima volta era in imbarazzo per essere stata tutto il tempo nuda davanti a lui. Camminò all’indietro, fino a quando non sentì la sua schiena sul muro, freddo sul sedere e sulle cosce. Poi se ne andò in camera di Jules, rimise la maglia rossa e la collana dentro lo zaino e iniziò a rivestirsi.

«Chi era?» chiese Gemma.

«Era Jules»

«Perché te ne stavi nascosto di là?»

«Viviamo insieme da due anni, questa è casa nostra» rispose.

«Me lo hai già detto ma continuo a non capire perché ti sei nascosto per parlare con il tuo coinquilino.»

«Non volevo che sapesse che con me c’era qualcuno» disse passandosi la mano fra i capelli. «Non volevo che sapesse che mi vedo con delle donne quando lui non c’è.»

«Il tuo coinquilino non vuole che tu inviti delle donne in casa tua, quando lui non c’è?»

«Né uomini né donne. Soprattutto se ci vado a letto.»

«A certe persone piace controllare la vita degli altri, è successo anche a me. Ma un certo punto te ne devi andare.»

«Ma io non me ne voglio andare, Jules è il mio compagno» disse Glauco.

Gemma fece un passo indietro, si passò una mano sulla nuca per far rientrare la pelle d’oca. Aveva di nuovo lo sguardo di una che si è addormentata con gli occhi aperti.

«Ho bisogno di qualcosa di forte da bere. Che cosa hai in casa?»

«Niente. Questo è il mese del detox di Jules, mi ha vietato di tenere alcolici a droghe a portata di mano.»

«Mi devo sedere. Non posso ricevere una notizia del genere da sobria e in verticale» disse Gemma, e andò a sedersi su una delle due poltrone che avevano preso alla svendita. Si passò le mani sul volto, poi rimase seduta con i gomiti puntati sulle cosce e parlò sottovoce:

«Che cosa ti aspetti che io faccia adesso?» chiese. Il silenzio della stanza era come una pinza che stringeva sulle tempie.

«Non avevo messo in conto che avresti origliato le mie conversazioni al telefono.»

Glauco fece alcuni passi verso di lei. Era ridicolo nella sua nudità, le spalle erano ossute, la pelle del petto pallida come quella di un neonato.

«Avresti fatto meglio a rimanere a letto. Non dovresti andare in giro a curiosare in casa degli altri» le disse.

«Non stavo curiosando» ribatté Gemma, «mi sono svegliata e non ti ho trovato, così mi sono alzata e sono venuta a cercarti.»

«Al massimo potevo essere in un’altra stanza, ma sarei tornato subito.»

«Sono entrata nel panico, ho pensato che cazzo faccio se non torna? Non so nemmeno dove sono» disse Gemma alzandosi in piedi, «sono a Berlino con uno sconosciuto e non so nemmeno in quale parte della città mi trovo», guardava Glauco negli occhi, ma non stava parlando con lui. Gli passò oltre e andò all’ingresso, si mise le scarpe.

«Mi dispiace, non doveva andare così» le disse Glauco avvicinandosi. Aveva allungato un braccio verso di lei ma Gemma aveva fatto un passo indietro, andando a sbattere contro la porta.
Non capiva se le scuse erano reali o se stesse recitando anche quelle, come aveva recitato i messaggi, le confidenze. Magari lo sembravano solo perché le aveva già provate tante altre volte, con tante altre donne e uomini.

Ma non le importava davvero, il dispiacere di Glauco non leniva la pesantezza delle gambe. Si stava radicando a terra come in quel mito dove la ragazza diventa un albero di alloro.

«Adesso vado, non ho ancora visto niente di interessante in questa città» gli disse. Fuori dalla porta Gemma si girò verso di lui e chiudendosi il cappotto gli disse: «Ho un’ultima domanda». Glauco fece cenno di sì con la testa, mettendosi il giubbotto sulla pelle nuda. Dalle scale saliva una corrente fredda che stava asciugando i gradini, la rampa odorava di detersivo al pino. Era la prima volta che Gemma sentiva il profumo di pulito in quella città.

«Se dovessi comprare un souvenir da portare alla tua coinquilina, sceglieresti un lacerto del muro o la torre della televisione in miniatura?»

E così avrebbe camminato lungo la Sonnenallee fino a quando non avrebbe cambiato nome, diventando Kottbusserdamm. Sarebbe passata accanto al locale dove la notte prima erano andati a mangiare la zuppa, avrebbe guardato dentro e avrebbe trovato il tavolo dove si erano seduti, quello accanto alla vetrata da dove lei aveva osservato Berlino. Quando sarebbe arrivata a un ponte sulla Sprea avrebbe poggiato lo zaino per terra e guardato giù cercando di capire in che direzione andava il fiume. Da che parte stava Pisa? Poi avrebbe scritto un messaggio ad Antonia dicendole che stava andando in ostello, e l’indomani sarebbe tornata a casa in tempo per la cena.

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