Questo vedere che viene prima delle parole, e di cui esse non riescono mai a dare del tutto conto, non dipende dalla reazione meccanica a uno stimolo. […] Vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta. Il risultato di tale atto è che quanto vediamo si pone alla nostra portata. Anche se non necessariamente a portata della nostra mano.
Toccare è mettersi in relazione con quanto si tocca. (Chiudete gli occhi, muovetevi per la stanza e noterete come la facoltà di toccare non sia che una sorta di visione statica e limitata.) Noi non guardiamo mai una cosa soltanto; ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste tra noi e le cose. La nostra visione è costantemente attiva e costantemente mobile. E, costantemente, costringe le cose a girarle attorno, costituendo ciò che ci circonda nella nostra individualità.
John Berger apre così uno dei saggi introduttivi di Questione di Sguardi, firmando probabilmente la migliore recensione, ante litteram, di Sabbie bianche, la prima pubblicazione del Saggiatore dedicata a Geoff Dyer.
Parlare di caso sarebbe sbagliato: Dyer, scrittore che di britannico non ha solo l’umorismo aguzzo ma anche i natali, esordisce nel 1986 proprio con un’opera incentrata sul critico d’arte londinese (Ways of Telling) di cui curerà anche una raccolta di saggi scelti nel 2001. Più che a livello stilistico, Berger condiziona l’approccio dyeriano alla comprensione della realtà; non si fa modello di riferimento linguistico, quanto lente: Dyer indossa Berger nel guardare al mondo e il risultato è un riflesso ancora distinto; un assolo estetico in cui la sinestesia contenutistica è metodo, in modo da masticare immagini ed esperienze per restituirle sotto forma di una visione del mondo così intima da guadagnarsi l’empatia.
In Sabbie bianche guardi il mondo con gli occhi da Dyer, che a sua volta cerca lo sguardo di Berger, di Gauguin, di Adorno, di Horkheimer, di Lawrence, di Smithson, senza riuscire a prescindere dal suo tempo intrinseco – che non vuol dire, necessariamente, presente – e quindi da playing degli Old and New Dreams, dall’ispettore Callaghan, da Riders on the Storm o da Arsenal-Machester City. Il risultato è qualcosa di diverso dalla somma delle parti.
In ogni pagina Dyer suona il suo paesaggio personale: un bebop impulsivo, troppo riottoso per essere acid(o), eppure elegante, composto come da un afroamericano nato in un borough del Gloucestershire, che il canone l’ha studiato per dimenticarselo e adesso si ritrova a fare su e giù sul pentagramma paesaggistico da flâneur cosmopolita, cittadino di un unico mondo: il suo.
Dove? Che cosa? Dove
Ma cos’è Sabbie bianche? Del romanzo elude – forse è più corretto dire se ne batte – la forma.
Chiamarlo raccolta di racconti sarebbe abbastanza pigro e pure cronaca di viaggi risulterebbe improprio; proviamo allora a considerarlo una lunga passeggiata tra la Città Proibita, la Polinesia, lo Utah, il New Mexico e la California. Una passeggiata in cui si smarriscono volentieri le coordinate spaziotemporali ma della quale il tempo resta, comunque, uno degli elementi costituenti.
Un esempio? Arrivato in Polinesia per scrivere un libro su Gauguin, Dyer perde la sua bussola: la biografia del pittore scritta da David Sweetman. Da quel momento in poi il suo pensiero tenterà automaticamente di tracciare una mappa, muovendosi per tentativi, per spazializzarsi e raggiungere la percezione avuta dall’artista durante la permanenza nella regione.
«Non riuscivo a mettermi nei panni di Gauguin, non riuscivo a vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Me ne stavo lì a guardare quel che guardava lui senza nemmeno avvicinarmi a vedere come vedeva lui, ma in compenso, per un istante, mi sembrò vagamente di comprendere la fascinazione esercitata dall’Islam. Impossibile – nemmeno concepibile – che un musulmano, nel fare l’obbligatorio pellegrinaggio di una volta nella vita alla Mecca, possa restare deluso. Ecco la sostanziale differenza fra il pellegrinaggio religioso e il pellegrinaggio laico: il secondo ha sempre in sé la possibilità di deludere.»
L’origine dello scarto – l’irraggiungibilità di Gauguin – emerge nell’incapacità di astrarsi da una funzione connaturata: quella dell’ottica personale. Dyer vorrebbe raggiungere Gauguin ma non può farlo se non attraverso il proprio punto di vista, la propria funzione cognitiva, che lo fa deviare, lo porta su altri sentieri, gli stimola connessioni discordi attinte da un patrimonio immaginifico, più che culturale, per forza di colse altro; diverso.
«[…] per un artista guardare è una forma di comprensione in sé.»
Così la Tahiti paradisiaca delude. Agli occhi dello scrittore risulta spesso vuota, inospitale; molto poco onirica e fin troppo di carne.
«[…] il tratto distintivo darwiniano tipico della zona: la sopravvivenza del più pingue. La gente è enorme. Ti guardano dalla profondità della loro ciccia. È come se fossero andati in ibernazione dentro le pieghe della loro stessa carne. La ragione del fenomeno […] è che i polinesiani hanno il consumo pro capite di zucchero più alto del mondo.»
Il senso latita ma il vuoto non resta tale, anzi si satura dell’io dell’autore, solo non in maniera artata o manierista ma fisiologica. A ciò che manca sopperisce il pensiero di chi racconta, che scalpita, corre in avanti, torna indietro, si ferma, prende il tempo necessario a dispiegarsi muovendosi nello spazio bianco della pagina; l’unica dimensione possibile per manifestarsi.Così giunge a definire in quello spazio un tempo, che non è presente, passato o futuro e nemmeno il tempo narrativo, ma piuttosto il tempo della costituzione del mondo.
In una meravigliosa raccolta di storie itineranti, Atlante di un uomo irrequieto, Christoph Ransmayr apre degli scorci nel reale, spesso a partire da immagini fugaci, gesti, sguardi o azioni apparentemente di nessun peso, su universi alieni. Spazi altri, tesi verso l’esterno. Ci si distacca dalla physis per superarla, lanciare, per un attimo, un’occhiata su ciò che sta oltre e poi ritornare alla terra. Passeggiare insieme a Dyer è diverso, anche se altrettanto destabilizzante: insieme a lui siamo trasportati all’interno, al centro della terra, e la terra in questione non è altro che Dyer stesso.
In questo luogo il tempo si contorce, muta forma, si piega per non tornare nei binari tracciati.Siamo nel tempo soggettivo nello spazio relativo – E = mc2, direbbe qualcuno –, che si assolutizza nel momento in cui ci si rende conto essere l’unico spaziotempo possibile a chi racconta.
«[…] questa consapevolezza a sua volta mi fece capire una cosa che sarebbe dovuta risultare ovvia fin dall’inizio: che molti viaggi geografici in realtà sono una forma di viaggio nel tempo, e che ero io, sotto ogni aspetto, un visitatore venuto da mille anni di distanza, tornato a interrogarsi sul significato di questo luogo.»
Essere Geoff Dyer
«Leggere David Foster Wallace è stato come sentire le palpebre aprirsi. Alcuni scrittori si specializzano in quello che sta al di fuori della loro casa. Fanno safari, vanno a mangiare in giro per l’Italia, documentano una guerra. Wallace offre invece il suo sé vivo, incidendo il nostro acquario soporifero, le nostre normali tv, i negozi e le campagne politiche. Gli scrittori che possono farlo, come Salinger o Fitzgerald, intrecciano un nodo inscindibile con i lettori. Non ti perdi dentro i suoi libri in cerca di una storia, di informazioni, ma per una particolare esperienza: la sensazione, per un certo numero di pagine, di essere David Foster Wallace.»
Questo è il discorso iniziale di The End of the Tour di James Ponsoldt, con cui il giornalista David Lipsky, interpretato da Jesse Eisenberg, commenta la morte di David Foster Wallace. Dyer condivide con l’autore di Una cosa divertente che non farò mai più la capacità dell’offrirsi al lettore sia come intermediario che come oggetto del racconto: attraverso di loro vediamo ma ciò che vediamo altro non è che una versione possibile del mondo, la loro. Si potrebbe quasi dire che Dyer e Wallace si vestono e non si leggono. La disinvoltura con cui viene interpretato un simile rapporto con la scrittura ha dello stupefacente; un altro fattore che accomuna i due autori, infatti, è l’ironia pervasiva di cui le loro pagine sono intrise. Sempre in The End of the Tour, Wallace (Jason Segel) spiega a uno studente che un buon modo per scrivere personaggi simpatici e spiritosi potrebbe essere quello di provare a essere effettivamente persone simpatiche e spiritose. Prendendo per vera quest’affermazione si dovrebbe pensare che Dyer sia una persona decisamente brillante, dato che in Sabbie bianche ci si ritrova spesso a ridere e di gusto. Si ride di una cena dalla gestione complicata in Cina, si ride durante un viaggio tribolato in macchina in compagnia di uno sconosciuto, si ride mandando a «’Fanculo l’aurora boreale e le sue apparizioni non programmate». Si ride e si finisce per scivolare negli spazi bianchi tra le righe senza mai chiedersi cosa ci abbia condotto fino a lì.
Dopotutto, stavamo passeggiando e passeggiando si chiacchiera e se la chiacchiera è brillante va per le lunghe e a un certo punto si alza la testa, ci si guarda intorno, accorgendoci che forse non abbiamo mica più tanto idea di dove siamo finiti o della strada fatta.
Ma ha davvero importanza?
Si apre Sabbie bianche per (ri)prendere a camminare; perché la luce ci sembra proprio bella e la vista non è niente male o forse siamo solo noi a vederla così.
Del resto, è pur sempre una Questione di Sguardi.
(John Berger a passeggio con Tilda Swinton, in The Seasons in Quincy)
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