La storia di F. S. Fitzgerald è intimamente legata al fallimento: la sua esperienza personale e la società in cui ha vissuto mostrano chiaramente questo crack-up, confluito, in maniera quasi inevitabile, all’interno della sua intera opera.
Per te morirei (e altri racconti), raccolta di storie inedite dello scrittore pubblicata di recente da Rizzoli, dimostra questa tesi dalla prima all’ultima pagina e ci dà la chiave di volta per interpretare il fallimento, alla fine, come un successo.
Per te morirei è essenzialmente una serie di short stories rifiutate, incomplete, dimenticate dallo stesso autore, con l’aggiunta di qualche soggetto per il cinema, industria con cui l’autore americano non fu mai veramente in sintonia.
Si tratta, in sostanza, di una cronologia del fallimento di F. S. Fitzgerald.
C’è chi li ha già ribattezzati «racconti del crepuscolo». Ma leggendo le 464 pagine del volume, tradotto in italiano da Vincenzo Latronico, riusciamo a vedere ben più di questo. Tra le righe, si insinua, di tanto in tanto, una luce verde (e non è il risultato della stanchezza oculare della giornata, ma un chiaro riferimento alla luce verde sognata da Gatsby).
Non che i temi di queste storie siano tanto inclini al sogno: suicidio, miseria, alcolismo, furto, pazzia, malattia, corruzione – è soprattutto per questi contenuti espliciti che i racconti non furono pubblicati, perché ritenuti troppo cupi, molto lontani dagli apparentemente scintillanti racconti e romanzi per cui Fitzgerald era riconosciuto dal pubblico.
Il punto è che, quando chiudiamo il libro, non possiamo fare a meno di notare che, ancora una volta, nonostante le brutture e le difficoltà che abbiamo letto e che intuiamo essere state parte della stessa vita dell’autore, rimane sempre una piccola apertura alla speranza.
Che Fitzgerald, sotto sotto, abbia atteso, fino alla fine, in sciarpa e cappotto in piena estate, colto da uno dei suoi ultimi attacchi di tubercolosi, la chiamata di un’ipotetica Daisy, prima di morire nella sua piscina?
In questo percorso dall’ottimismo più sfrenato alla distruzione, traiettoria dell’uomo dalla giovinezza alla vecchiaia, ci ritroviamo, o ci ritroveremo, un po’ tutti. Ed è un itinerario impervio, non privo di cadute. Perché come lo stesso Fitzgerald scrisse «la vita è soltanto un processo di disgregamento» (Good Luck & Goodbye, Donzelli, traduzione di Maurizio Bartocci) ma allo stesso tempo è fatta di desideri e bellezza che ci accompagnano fino alla fine, in una parabola universale che lega gli uomini di ogni tempo.
«Mi accorsi della vecchia isola che un tempo rifiorì agli occhi dei marinai olandesi – il fresco e verde seno del nuovo mondo. I suoi alberi adesso scomparsi, gli alberi che avevano lasciato spazio alla casa di Gatsby, un tempo avevano assecondato con i loro sussurri l’ultimo e il più grande di tutti i sogni umani; per un transitorio e incantato momento l’uomo deve aver trattenuto il respiro davanti a questo continente… E mentre me ne stavo lì seduto, a rimuginare su quel mondo vecchio e sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby quando la prima volta riconobbe la luce verde in fondo al pontile di Daisy.»
È Nick, il narratore de Il Grande Gatsby a dirci di questa luce verde, dei sogni umani, a dare forma all’isola dove la casa di Gatsby sorge e dove i primi esploratori delle Americhe giunsero in passato.
La meraviglia per un fascio di luce che fende l’aria, per il verde degli alberi selvaggi, per un cespuglio di rose che si inerpica sul muro di una villa, per un bus «dai mille occhi verdi» che attraversa il Paese carico di passeggeri assonnati, la speranza intrinseca innescata dalla bellezza che ci circonda: tutto ciò viene fotografato e messo in forma dalla narrazione.
Fitzgerald aveva in sé una solerzia romantica (e romanzesca, è il caso di dire) che non abbandonò mai, nonostante le vicissitudini, e questa può essere considerata la cifra della sua intera produzione.
«Se la personalità è una serie ininterrotta di successi, allora c’era qualcosa di magnifico in lui, un’accentuata sensibilità verso le promesse della vita, come se fosse collegato a una di quelle macchine complesse che registrano terremoti a diecimila miglia di distanza. Questa sensibilità non aveva niente a che fare con la fiacca emotività che si nobilita sotto il nome di “temperamento creativo” – era un dono straordinario per la speranza, una solerzia romantica come non ho mai trovato in nessun altro e che probabilmente non troverò mai più. No – Gatsby si rivelò a posto, alla fine; era ciò che depredava Gatsby, quella polvere nauseante che fluttuava nella scia dei suoi sogni che pose fine temporaneamente al mio interesse per i dolori vani e le affannate euforie degli uomini.»
(Il Grande Gatsby)
Era però proprio la «polvere nauseante che fluttuava nella scia dei suoi sogni» a dare a Fitzgerald i maggiori pensieri e le maggiori difficoltà, anche nella scrittura.
Negli ultimi anni della sua carriera, in cui scrisse la maggior parte delle storie contenute in questa raccolta di inediti, era soprattutto stufo di scrivere solo per soldi, perché guadagnare dal suo lavoro voleva dire a quel punto piegarsi a uno stereotipo che le riviste e il pubblico avevano costruito su di lui. Eppure la sua situazione personale continuava a portarlo verso quella strada, per necessità pratiche.
In gioventù erano state la voglia di riscatto e l’ambizione, la testardaggine di voler conquistare e sposare una donna più ricca di lui, e, negli ultimi anni, era diventato il bisogno di mantenere la moglie Zelda nelle sue costose cure e la figlia Scottie, nel suo percorso scolastico. Ma più di tutto si faceva avanti la volontà di riscatto come autore.
«… dubito che scriverò molti altri racconti sugli amori giovanili. È un’etichetta che mi è stata affibbiata dagli esordi fino al 1925. Da allora ho scritto spesso sull’argomento, con difficoltà e insincerità crescenti. Bisognerebbe essere un vero mago o un imbrattacarte per continuare a sfornare un prodotto identico per tre decenni.
So che è questo che ci si aspetta da me, ma in quell’ambito il pozzo è pressoché prosciugato e mi sembra più saggio non sforzarmi più di trarne ancora qualcosa per andare invece in cerca di un’altra sorgente, una vena nuova… Tuttavia la stragrande maggioranza degli editori continua ad attribuirmi un interesse monomaniacale per le ragazzine – fissazione che alla mia età rischierebbe di farmi finire dietro le sbarre.»
Fitzgerald a Kenneth Littauer, direttore della rivista Collier’s, 1939 (tratta dalla postfazione alla raccolta Per te morirei)
Era da una parte prigioniero dello stereotipo dell’autore delle maschiette e dell’Età del Jazz, una gabbia molto difficile da cui uscire ma, d’altra parte, rimaneva in lui la consapevolezza di dover «dare alle riviste ciò che volevano».
Scriveva per vivere, però sapeva ben distinguere la sua attività di «imbrattacarte su commissione» e la sua attività artistica migliore, quella in grado di dare forma alla bellezza. Non mentì mai su questa differenza e anzi provava, quando poteva, ad azzerarla.
Come tutti gli autori, infatti, quando riusciva a metter d’accordo pubblico e duro lavoro era soddisfatto, quando però avveniva l’opposto era una grande delusione per lui: «Trovo molto scoraggiante che una storia dozzinale come Un sogno di ragazza, scritta nel giro di una settimana nei giorni in cui nasceva la bambina, mi abbia fruttato più di millecinquecento dollari, e che invece Il diamante grosso come il Ritz, un racconto originale cui ho dedicato tre settimane di vero entusiasmo, sia caduto nel vuoto».
(Da una sua lettera del 1922 all’agente Harold Ober)
Lo stesso atteggiamento ebbe nei confronti di Hollywood, che gli diede da vivere ma decretò al tempo stesso il suo insuccesso: secondo lui era un mondo che non sapeva rinnovarsi e che poneva ingenti rischi alla creatività di un autore.
Più volte tornò a lavorare per l’industria del cinema (mettendo mano, tra l’altro, forse pochi lo sanno, alla sceneggiatura del colossal Via col vento). Più volte ne uscì disilluso sul fronte creativo e personale.
E la disillusione è il tema principe del racconto Per te morirei, che dà il nome a questa raccolta, quasi una critica diretta a Hollywood come fabbrica di sogni e promesse che non sempre vengono mantenute e che in tanti hanno portato alla tragedia, finanche al suicidio. Allargando la prospettiva, una critica generale a un’industria culturale che non riusciva a collocare in giusta misura talento e commercio.
Nel 1936, Fitzgerald inviò il racconto al suo agente, chiedendogli di venderlo al più presto, perché, tanto per cambiare, era al verde. Ma la storia di un suicidio, oscura, inattesa da uno come lui, fece sì che ricevesse il rifiuto di diverse riviste, dal Post a Cosmopolitan. La richiesta era sempre la stessa: cambiarne l’impostazione, renderlo meno cupo, meno sinistro e tragico. La risposta di Fitzgerald era ormai, sempre più di frequente, un no. E si fece restituire il manoscritto. Il 29 gennaio scrisse al suo agente: «Rimandamelo e basta».
«Interrogarmi sulle possibili reazioni di editor e editori ha su di me un effetto deleterio”, aveva scritto in passato e le circostanze lo dimostrarono, fino al punto in cui, quello stesso anno, dopo una stroncatura sul Post, Fitzgerald aveva tentato il suicidio con delle pastiglie di morfina. Alla fine le aveva vomitate e aveva scritto al suo agente: «L’ho pagata cara e mi sono sentito un imbecille.»
Questo pare essere il presupposto per la scrittura del racconto Per te morirei e un punto di non ritorno nella parabola della produzione dell’autore.
Nero e bianco. Disillusione e speranza. Questo è Fitzgerald, nella sua consapevolezza di uomo e di autore.
Non ci fu mai un momento in cui egli fu davvero soddisfatto della sua vita economica, in realtà, se analizziamo i suoi scritti privati e le corrispondenze con il suo agente Harold Ober. Nemmeno nel momento di massimo successo in cui passava da una festa all’altra, da una rivista all’altra, percependo fino a quattromila dollari per ogni racconto, era stato felice del suo guadagno. Aveva la ricchezza, la ragazza dei suoi sogni, la fama, ma mai gli riuscì di sentirsi a proprio agio nei suoi panni. Né da giovane mondano e di successo, né da marito e padre che la malattia della moglie all’improvviso portò a visitare cliniche e ospedali, né da uomo maturo, malato e in bilico tra attimi di successo e lucidità e ristrettezze economiche da esuberanza.
La differenza tra la sua produzione dalla gioventù alla maturità, se davvero esiste, è quindi da considerarsi in relazione al suo modo di accettare di conformarsi al sistema, in relazione alla sua volontà ormai diventata imperativo di dare voce alla bellezza nascosta nella miseria. Che poi può essere anche visto come un tratto comune di tutto ciò che scrisse. (Un altro esempio di come la contraddizione in Fitzgerald sia sempre sinonimo di integrità.)
Le redazioni delle riviste, Hollywood, tutti volevano sempre il lieto fine, l’agente e gli editor gli dicevano di modificare un tale passaggio sul suicidio o sul divorzio, di evitare di tratteggiare giovani preoccupati di aver contratto una malattia venerea o di aver messo incinta una sedicenne. Vera censura, non semplice richiesta di editing.
Fitzgerald è stato uno scrittore che ha lavorato moltissimo sulla revisione dei suoi testi, convinto della necessità di tagliare per migliorare, di rivedere per rendere più vivido un passaggio o un personaggio ma quando ciò voleva dire non tener fede al proposito di ritrarre la realtà che lo circondava e di cui era testimone, rifiutarsi era quasi un atto di stoicismo eroico, l’ultima possibilità di redenzione (a proposito si vedano Max Perkins, l’editor dei geni, di A. S. Berg, Elliot Edizioni, e Trimalcione. La prima versione perduta del Grande Gatsby, BUR Rizzoli).
La raccolta Per te morirei, si apre dunque in maniera illuminante da questo punto di vista, con il racconto Il pagherò, del 1920, una parodia del mondo dell’industria editoriale, scritta, questa, quando Fitzgerald era ancora il giovane autore di Di Qua dal Paradiso. Si prosegue poi con altre storie più mature, in cui è possibile sentire l’eco della Grande depressione americana (Incubo), soffermarsi sul ricordo della Guerra Civile (Pollici in Su); riflettere sui progressi nell’emancipazione femminile e sulla maggiore libertà sessuale degli anni Trenta (La perla e la pelliccia, Grazie per questa fiamma, Fuorigioco).
Potrebbero sembrare temi dalla forte densità specifica, ma non è così, alla fine, per il lettore, nonostante il sedimento rimanga.
Tanto per cominciare, i personaggi dei racconti, quasi tutti sotto i trent’anni, con l’eccezione di qualche storia, assomigliano moltissimo ai giovani di oggi, sorprendentemente: hanno le stesse paure, le stesse disillusioni, gli stessi sogni, la stessa difficoltà a comunicare. Vivono dunque tematiche serie, relative spesso alla propria identità e al loro posto nel mondo, ma lo fanno con la leggerezza che contraddistingue la loro età (leggerezza non vuol dire superficialità, Fitzgerald ce lo dimostra ogni volta).
«Era felice e un po’ cresciuta. Al pari di tutti i figli della sua generazione accettava la vita come una serie di coincidenze, una pesca della sorte in cui arraffare tutto il possibile e in cui non c’erano certezze.»
(dal racconto La perla e la pelliccia, contenuto nella raccolta Per te morirei, Rizzoli)
Leggendo qualche racconto ci accorgiamo, anche, della presenza di un potente lavoro sul sottotesto, rileviamo la contraddizione tra le battute di dialogo dei personaggi e ciò che sentono sul serio, l’incapacità di parlare e raccontarsi per quello che si è, di condividere con l’altro:
«Alla stazione successiva molta gente scese e finalmente Considine poté riprendere posto accanto a lei.
“Adesso ti va di parlare?” disse.
“Sì, e sarò molto schietto. Kiki, mi piaci più di qualunque altra ragazza abbia mai conosciuto. L’estate scorsa, quando…”
“Lo hai visto giocare anche l’estate scorsa?”
“Chi?”
“Quel tizio, Van Kamp. Cioè, se l’hai visto giocare l’estate scorsa, perché non gli hai fatto un’offerta più alta di loro?”
Lui la guardò senza sorridere.
“Sul serio, Kiki, c’è una cosa di cui dobbiamo discutere…”
“Oh, sta zitto”.
“Cosa stai dicendo, Kiki?”
“Discutila da solo. Io l’ho capito da due ore quello che stavi per dirmi”.
“Ma io…”
“… E sono molto esigente su come mi faccio scaricare. Riprenditi l’anello – mettilo nella tua collezione di fossili – mettitelo in tasca. Il tizio seduto lì davanti ci sta guardando – è un’immagine che non ha bisogno di spiegazioni”.
“Kiki, io…”
“Zitto – zitto – zitto!”
“Va bene” disse cupamente.
“Scrivimi una lettera, piuttosto, la farò leggere a mio marito. Potrei sposarmi con Van Kamp. Sai, alla fine sono contenta che tu abbia deciso di dirmelo – o di non dirmelo – proprio ora. Stasera esco con una persona nuova e voglio sentirmi libera. Ed ecco la fermata…”
Non appena si furono alzati in piedi lei si allontanò, insinuandosi lungo il corridoio con agilità e disperazione, scontrandosi con altri passeggeri, animata dal proposito di sfuggirgli a tutti i costi.»
(dal racconto Fuorigioco, contenuto nella raccolta Per te morirei, Rizzoli)
Forse anche per questo motivo, le storie d’amore ritratte da Fitzgerald non sono quasi mai a lieto fine o appaiono comunque precarie.
In più, il Fitzgerald dei racconti soprattutto, così come il Fitzgerald sceneggiatore a Hollywood, è un gran fan dell’ironia e della leggerezza a servizio della dissacrazione della realtà, della ricerca di un senso, della denuncia: un sorriso per alzare il velo della menzogna e affrontare temi spesso scomodi da analizzare, come il razzismo, i diritti civili, la malattia.
Trovate ricorrenti in queste storie sono lo scambio di identità (ad esempio tra un malato vero e uno falso), un amore perduto cui ne segue subito uno nuovo, presunti caduti in guerra che appaiono all’improvviso a scombussolare il nuovo equilibrio venutosi a creare, furti in nome della moralità, il tutto condito in salsa screwball. Commedie brillanti contaminate da un umorismo tagliente, alla Susanna! di Hawks (per trovare le affinità, anche questo film fu inizialmente un insuccesso al botteghino ma nel tempo è stato alla fine considerato un classico del cinema).
Commedie che nascondono però qualcosa di profondamente buio e triste, un’inquietudine e un disadattamento fuori dal comune. Sogni che si oscurano e tenebre che si illuminano, come in una dissolvenza incrociata.
A questo punto una domanda sorge spontanea: e se la sua luce verde, il suo sogno, fino all’ultimo, non fosse stata semplice speranza per il futuro, amore per le gioie della vita, ma capacità di svelare cosa c’è dietro un determinato problema attraverso la scrittura? Arrivare a una verità universale attraverso la letteratura? Dare una forma all’informe e per questo avere l’illusione di una redenzione, di un senso?
Una prospettiva in senso pieno romantica, ma allo stesso tempo realistica perché si nutre di tutto ciò che di triste e depresso, isterico la vita ci restituisce, per arrivare a una luce.
A questo punto la verità di Fitzgerald sarebbe stata senza dubbio quella del fallimento umano, che si risolve sempre in un successo.
La sua esistenza ce lo dimostra, i temi che mette in campo nelle sue opere, le sue stesure anche, così dense di riscritture, molto lontane dall’essere autobiografiche, ma in fondo piene di lui, fallimentare e vincente, sempre rivolto all’universalità dei lettori.
Fitzgerald ci racconta ancora, a distanza di decenni, che saper fallire vuol dire avere un «dono straordinario per la speranza», vuol dire avere successo. Per il solo fatto che non smise mai di tentare di replicare la bellezza, quella profonda però, che sa di verità. E la sua nave forse poteva imbarcare acqua ogni tanto, ma rimaneva a galla dignitosamente ed era capace per questo di traversate ancor più leggendarie.
«Così remiamo, barche contro corrente, risospinti senza sosta nel passato.»
(Il Grande Gatsby)
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