Il racconto che dà il titolo alla raccolta Quella cosa intorno al collo di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi traduzione di Andrea Sirotti), ha la voce insolita della seconda persona:
«Pensavi che in America avessero tutti la macchina e la pistola; anche i tuoi zii e cugini lo credevano. Avevi appena vinto la lotteria per il visto americano e ti dicevano: Tra un mese avrai il macchinone. E presto una casa grande. Ma non comprarti la pistola come gli americani».
A tu per tu con la protagonista e con la storia raccontata, vediamo spalancarsi un immaginario del benessere, costruito su villette, vialetti curati e macchine, che da Lagos finisce dritto nelle cittadine degli Stati Uniti e si misura con lavori per pochi dollari, stanze squallide e solitudine totale. Quella cosa intorno al collo è una descrizione accurata del cappio invisibile che stringe e soffoca Akunna prima di addormentarsi, in una di quelle parentesi in cui cerchiamo di riprende fiato dalla vita.
La stretta sembra allentarsi nel tempo, ma non abbastanza: Akunna vorrebbe fare scoppiare la bolla rassicurante in cui vivono gli americani che incontra, le persone che le chiedono se avesse mai visto un’automobile prima di arrivare negli Stati Uniti, dove avesse imparato l’inglese, se anche in Africa ci fossero «case vere». Vorrebbe renderli consapevoli dell’accumulo insensato di oggetti con cui cercano di dimostrare di esistere, senza pensare a come esistere, in un’ingenuità colpevole che li rende incoscienti e odiosi ai suoi occhi.
Altre donne in questa raccolta vivono la stessa solitudine, seppure in contesti e condizioni differenti, come nel racconto L’imitazione, dove Nkem ha imparato ad amare «l’abbondanza di speranze irragionevoli» di cui l’America è una generosa dispensatrice, o I combinamatrimoni, in cui Chinaza, arrivata in America per ricongiungersi al marito, viene costretta a un processo di americanizzazione forzata, sentendosi dire che a convincerlo a sposarla è stato il colore chiaro della sua pelle, nella prospettiva di avere figli, perché «quelli non troppo neri hanno più chance in America».
C’è un altro racconto narrato in seconda persona, ed è forse, paradossalmente, il migliore della raccolta. Paradossalmente perché, se nell’intera produzione letteraria di Adichie il contesto storico si incrocia perfettamente con le vicende personali dei protagonisti, in Domani è troppo lontano questo binomio si rompe, lasciando spazio a una storia interamente privata. La morte della nonna riporta la protagonista in Nigeria e la costringe a rievocare a diciotto anni di distanza il ricordo di un’estate tragica. Il racconto è una confessione, una resa dei conti filtrata, di nuovo, da una prospettiva atipica, ma non per questo meno crudele; un’occasione per fare i conti con un passato rimosso e accantonato:
«Ti sei appoggiata alla scrivania, le gambe molli, sentendo crollare il silenzio di una vita, e non pensavi alla nonna, pensavi a Nonso e a lui, Dozie, e all’avocado e a quell’estate umida nel regno amorale della tua infanzia. […] Quell’estate di diciotto anni fa fu l’estate della tua prima autoconsapevolezza».
Come è stato detto, Adichie si muove con estrema abilità tra storia nazionale e storia privata; è quanto avviene in Spettri, uno tra i racconti di ambientazione nigeriana, in cui l’incontro del protagonista con un amico creduto morto fa risalire in superficie le vicende drammatiche della guerra del Biafra e alcune verità rimaste nascoste per decenni; o La storica testarda, una piccola saga familiare in tre generazioni dove il colonialismo viene riletto da chi l’ha subito. Anche L’ambasciata americana è una vicenda individuale che si trasforma in racconto politico: dopo avere aiutato il marito a uscire clandestinamente dal paese e avere visto il figlio morire davanti ai propri occhi, la protagonista decide di presentarsi all’ambasciata degli Stati Uniti per richiedere asilo politico. Qui viene a galla tutta la violenza istituzionale e l’insensatezza di pratiche burocratiche che richiedono di trasformare la propria tragedia personale nella storia giusta da raccontare al funzionario allo sportello. Il racconto è vivo, perché il focus si sposta continuamente tra i ricordi drammatici della donna e le voci delle persone in coda con lei davanti all’ambasciata, come se protagonista e lettore venissero costantemente richiamati al presente da un colpo sulla spalla o da una domanda.
La bellezza di questo e degli altri racconti di Adichie si rivela poi nelle metafore insolite, dalla macchia di sangue che si allarga sul petto di un bambino come una macchia di olio di palma fresco, ai repertori del colore della pelle, che non ha davvero un colore, ma solo sfumature meravigliose (color burro di arachidi o di un cocomero maturo o delle arachidi tostate); e se possiamo cogliere tutte queste sfumature, il merito va alla traduzione di Andrea Sirotti, che riflette senza abbagli la voce luminosa dell’autrice.
I racconti di Quella cosa intorno al collo non sono scritti per distrarci, ma per dotarci di un antidoto contro quel tipo di ingenuità colpevole che ci rende insensibili al mondo. Sconfinando dalla frontiera della pagina, non lasciano scuse alla distrazione, e indicano invece una chiave per afferrare un mondo distante e vicinissimo, quello dell’altro che si avvicina e ci travolge con la sua unicità.
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