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Nella cameretta di Lelečka tutto era luminoso, bello e allegro. Il suono della voce di Lelečka rallegrava la madre. Lelečka era una bimba adorabile. Nessuno mai aveva avuto una figlia così, nessuno mai era stato o sarebbe stato come lei. Serafima Aleksandrovna, la madre di Lelečka, ne era certa. Lelečka aveva gli occhi grandi e neri, le guance rosee, le labbra fatte per baciare e sorridere. Ma non erano tutte queste qualità a donare a Serafima Aleksandrovna la gioia più grande.

Lelečka era la sua unica figlia. Per questo, qualsiasi movimento di Lelečka la incantava. Che meraviglia tenere Lelečka sulle ginocchia, accarezzarla, stringere fra le braccia la figlioletta, vispa e gioiosa come un uccellino!

Per la verità, Serafima Aleksandrovna si sentiva felice solo nella cameretta della figlia. Con il marito era fredda.

Forse perché lui stesso amava il freddo: l’acqua fredda, l’aria fredda. Era sempre algido e gelido, con un sorriso glaciale; ovunque lui passasse soffiavano sempre correnti d’aria fredda.

I Neslet’ev, Sergej Modestovič e Serafima Aleksandrovna non si erano sposati né per amore, né per interesse, ma solo perché era quello che ci si attendeva da loro. Il giovanotto aveva trentacinque anni, la ragazza ventisei, facevano parte della stessa compagnia, erano beneducati e andavano d’accordo: lui doveva sposarsi, lei aveva fretta di trovare marito.

Serafima Aleksandrovna pensava addirittura di esserne innamorata e ciò la rendeva felice. Lui era elegante e scaltro, nei suoi intelligenti occhi grigi si scorgeva sempre un’espressione dignitosa e svolgeva i suoi doveri matrimoniali con irreprensibile dolcezza.

Sergej Modestovič non era innamorato e non si sentiva particolarmente felice, ma era soddisfatto poiché, dopotutto, aveva una vita tranquilla e sobria.

La fidanzata era bella ma non troppo: una ragazza alta, con gli occhi e i capelli neri, profondamente timida ma in modo discreto. Lui non puntava alla sua dote, tuttavia lo compiaceva che lei ne avesse. Lui aveva delle conoscenze, lei proveniva da una famiglia influente. All’occorrenza questo poteva tornare utile. Sempre corretto e discreto, Neslet’ev aveva fatto carriera non tanto in fretta da essere invidiato, né tanto lentamente da invidiare gli altri: era tutto successo nel modo e con i tempi giusti.

Dopo il matrimonio, in nessuna occasione il comportamento di Sergej Modestovič aveva instillato dubbi nella sua sposa. In seguito, tuttavia, quando Serafima Aleksandrovna era in dolce attesa, Sergej Modestovič aveva intrecciato legami di natura frivola ed effimera altrove. Serafima Aleksandrovna ne era al corrente e, con suo stesso stupore, non ne fu troppo addolorata; aspettava l’arrivo del bebè con una trepidazione che non lasciava spazio ad altri sentimenti.

Nacque una bambina e Serafima Aleksandrovna le si dedicò anima e corpo. Dapprima, raccontava con entusiasmo al marito tutti i dettagli più gioiosi della vita di Lelečka. Ma si rese presto conto che Sergej Modestovič la ascoltava senza il minimo interesse e solo perché era abituato ad essere cortese. Serafima Aleksandrovna iniziò ad allontanarsi sempre di più. Amava sua figlia con lo stesso amore inappagato con cui le donne, che creano erroneamente il proprio destino, intraprendono relazioni occasionali con uomini più giovani.

«Mamočka, giochiamo a nascondino» gridò Lelečka pronunciando la «s» come una «c» dicendo così «naccondino» invece di «nascondino».

Questo suo parlare in maniera scorretta faceva sempre sorridere di tenerezza una rapita Serafima Aleksandrovna. Lelečka si mise a correre, sbattendo i piedini grassottelli sul tappeto e si nascose dietro le tende della propria stanza.

«Cucù mamočka!» gridò con la sua tenera vocina squillante, spiandola con un furbo occhietto nero.

«Dov’è la mia bambina?» chiese la mamma facendo finta di cercare Lelečka senza vederla.

Lelečka non riusciva a soffocare le risate, al riparo nel suo nascondiglio. Poi si fece più avanti e la mamma, fingendo di averla vista solo in quel momento, la prese in braccio esclamando con gioia: «Ecco qua la mia Lelečka!».

Lelečka rise a lungo e di gusto, con il viso sulle ginocchia della mamma, dimenandosi tra le sue braccia pallide: i neri occhi della madre brillavano di emozione.

«Ora, mamočka, ti nascondi tu!» disse Lelečka, stanca di ridere.

Andò a nascondersi, Lelečka si voltò fingendo di non guardare anche se di sottecchi sbirciava il nascondiglio della sua mamočka. La mamma si nascose dietro l’armadio e gridò: «Cucù tesoro mio!».

Lelečka iniziò a girare per la stanza, controllando ogni angolino e facendo finta, così come aveva fatto la madre con lei, di cercarla anche se sapeva benissimo dove si trovasse.

«Dov’è la mia mamočka?» chiedeva Lelečka. «Qui no… qui nemmeno» diceva correndo da un angolo all’altro.

La mamma era immobile, tratteneva il respiro, con i capelli arruffati appoggiati al muro. Un sorriso colmo di dolcezza e agitazione le affiorò sulle labbra rosee.

La balia Fedos’ja, una donna buona e avvenente ma dall’aria sempliciotta, ridacchiava, guardava la padrona con la sua espressione abituale, quasi a voler dire che non stava a lei discutere dei capricci dei signori, e pensava tra sé: La madre sembra proprio una bambina, guarda un po’ come si diverte.

Lelečka si stava avvicinando al suo nascondiglio e la mamma, presa dal gioco, iniziò ad agitarsi sempre di più; il suo cuore palpitava rapidamente, con forza e lei si strinse ancora di più contro la parete, afferrandosi i capelli. Lelečka scorse il nascondiglio e urlò di gioia.

«Tlovata!» gridò esultante, pronunciando scorrettamente la «r», cosa che fece rallegrare di nuovo la madre.

Trascinò la mamma al centro della stanza, entrambe erano gioiose e sorridenti e, di nuovo, Lelečka tuffò il viso sulle ginocchia della mamma cinguettando, cinguettando senza sosta paroline dolci, pronunciandole in maniera così tenera e buffa al tempo stesso.

Sergej Modestovič si avvicinò in quel momento alla cameretta. Attraverso la porta socchiusa, udì le risa, le grida entusiaste, il suono del loro divertimento. Con il suo sorriso freddo ma gentile entrò nella stanza, algido e retto, vestito impeccabilmente, circondato da un’aura di candore, distacco e freddezza. Entrò interrompendo il vivace passatempo e confuse tutti con la sua limpida freddezza. Addirittura Fedos’ja si sentì in imbarazzo, ora per la padrona, ora per se stessa. Serafima Aleksandrovna si fece d’un tratto calma e in apparenza fredda; tale disposizione d’animo influenzò anche la figlia che smise di ridere, tacque e prese a osservare con attenzione il padre.

Sergej Modestovič esaminò la cameretta con una rapida occhiata. Gli piaceva tutto di quella stanza: era arredata con gusto poiché Serafima Aleksandrovna si era data da fare affinché la sua bimba, fin dalla tenera età, fosse circondata solo da cose belle. Serafima Aleksandrovna vestiva in maniera impeccabile, lo faceva per Lelečka, sempre per la stessa ragione. C’era solo una cosa che Sergej Modestovič non riusciva ad approvare: la costante presenza della moglie nella cameretta della figlia.

«Proprio come pensavo… Ero sicuro di trovarti qui» disse con un sorriso beffardo e accondiscendente.

Uscirono entrambi dalla stanza. Dopo aver condotto Serafima Aleksandrovna nello studio, Sergej Modestovič disse con tono indifferente, quasi di sfuggita e senza dar peso alle proprie parole: «Non trovi che talvolta alla bambina farebbe bene non essere solo in tua compagnia? Sai, insomma, in modo da riuscire a sentire la propria individualità» aggiunse, chiarendo il significato delle proprie parole in risposta allo sguardo stupito della moglie.

«È ancora così piccola» disse Serafima Aleksandrovna.

«Non è che la mia modesta opinione. Non insisto, quello è il tuo regno.»

«Ci penserò» rispose la moglie sorridendo, così come fece lui, in modo freddo e garbato.
Poi si misero a parlare d’altro.

II

In cucina, quella sera, la balia Fedos’ja stava parlando con la silenziosa cameriera Dar’ja e la loquace vecchia cuoca Agaf’ja di quanto alla piccola padroncina piacesse giocare con la madre a nascondino: «Si copre il visino e grida: “cucù!”. E anche la padrona sembra proprio una bambina» disse Fedos’ja ridacchiando.

Agaf’ja ascoltava scuotendo con disapprovazione la testa, poi il volto le si fece severo e apprensivo.

«Si sa, se lo fa la padrona è un conto» disse, «ma se è la padroncina a nascondersi sempre non va bene.»

«E perché?» chiese con curiosità Fedos’ja.

Quella espressione incuriosita le rendeva il viso gentile e rubicondo simile a quello di una bambola di legno dipinta rozzamente.

«No, non va bene» ripeté con convinzione Agaf’ja. «Non va per niente bene!»

«Be’?» la interrogò nuovamente Fedos’ja, accentuando la buffa espressione di curiosità sul viso.

«Si nasconde, si nasconde e rimane nascosta» disse Agaf’ja in un misterioso sussurro scrutando la porta.

«Ma cosa dici?» esclamò spaventata Fedos’ja.

«È la verità, ricorda le mie parole» disse Agaf’ja in tono sicuro e sibillino. «Questo è di sicuro un segno.»

Il segno se l’era inventato la vecchia cuoca, così, all’improvviso e ora, era evidente, ne andava davvero fiera.

III

Lelečka stava dormendo mentre Serafima Aleksandrovna era seduta nella sua stanza a sognare la figlia con tenerezza e gioia. Nei suoi sogni Lelečka era una bimba graziosa, poi una ragazza graziosa e poi di nuovo una bimba adorabile e così, fino alla fine, rimaneva sempre la piccola Lelečka della mamma.

Serafima Aleksandrovna non si era nemmeno accorta dell’arrivo di Fedos’ja e che la donna le si era messa di fronte. Fedos’ja aveva un’espressione ansiosa e spaventata.

«Padrona, padrona» la chiamò lei dolce, con la voce tremante alterata dall’emozione.

Serafima Aleksandrovna si riebbe e il volto di Fedos’ja la fece preoccupare.

«Cos’hai Fedos’ja?» chiese lei turbata. «È successo qualcosa a Lelečka?»

Si alzò rapidamente dalla poltrona.

«No padrona» rispose Fedos’ja gesticolando in modo da calmare e far sedere la padrona. «Lelečka dorme, che il Signore sia con lei! Però sa, vorrei dirle una cosa… vede, Lelečka si nasconde sempre da tutti noi: non va bene.»

Fedos’ja fissava la padrona con gli occhi arrotondati dalla paura.

«Perché non va bene?» chiese Serafima Aleksandrovna con stizza, schiacciata involontariamente da un vago senso di timore.

«Non posso dirle quanto sia sbagliato» disse Fedos’ja con un viso che esprimeva una decisa sicurezza.

«Ti prego, parla chiaro» ordinò secca Serafima Aleksandrovna. «Non ci capisco niente.»

«Ecco padrona, è un segno» rispose subito Fedos’ja con vergogna.

«Sciocchezze» disse Serafima Aleksandrovna.

Non voleva più stare ad ascoltare quei discorsi sui segni e su cosa potessero predire. Ma, in qualche modo, un senso di terrore e spavento si impossessò di lei e fu umiliata dal constatare quanto quell’assurda frottola avesse il potere di turbare i suoi dolci sogni e agitarla nel profondo.

«Certo, so che la gente perbene non crede nei segni, ma questo è un brutto segno» disse Fedos’ja con voce addolorata. «La padroncina si nasconde, si nasconde…»

D’un tratto scoppiò in lacrime, singhiozzando. «Si nasconde, si nasconde e rimane nascosta, quel piccolo angelo, in una tomba umida» ripeteva, asciugandosi le lacrime e il naso sul grembiule.

«Chi ti ha messo in testa queste sciocchezze?» chiese Serafima Aleksandrovna con tono grave e severo.

«Agaf’ja, padrona» rispose Fedos’ja. «Lei le sa queste cose.»

«Le sa!» disse stizzita Serafima Aleksandrovna, come a volersi proteggere da quell’improvviso senso di angoscia.

«Che sciocchezze! Ti prego in futuro di non raccontarmi più certe stupidaggini. Ora vai.»

Fedos’ja, con aria offesa e amareggiata, se ne andò.

«Che stupidaggine! Come se Lelečka potesse morire!» pensò Serafima Aleksandrovna cercando di allontanare con ragionamenti logici quella sensazione di gelo e terrore che la assaliva al pensiero della morte di Lelečka.

Serafima Aleksandrovna pensava che fosse l’ignoranza di quelle donne a spingerle a credere nei segni. Sapeva bene che non poteva esserci alcuna relazione tra quel passatempo infantile, amato da tanti bambini, e la durata della loro vita. Quella sera si sforzò in maniera particolare di occupare la propria mente con altre questioni ma i suoi pensieri tornavano involontariamente all’idea che Lelečka amasse nascondersi.

Quando Lelečka era ancora piccola e aveva da poco imparato a distinguere la madre dalla balia, a volte, seduta tra le braccia di Fedos’ja, fissava la mamma e all’improvviso le rivolgeva un’espressione malandrina, scoppiava in una risatina e nascondeva il viso nel petto della balia. Poi faceva capolino con un’espressione maliziosa.

Nell’ultimo periodo, nei pochi momenti in cui la madre si allontanava dalla cameretta di Lelečka, Fedos’ja aveva ripreso a insegnarle a nascondersi; perciò, visto quanto era adorabile la piccina mentre giocava a nascondino, anche la mamma aveva preso a giocare con lei.

IV

Il mattino seguente, assorbita dalla cure per la figlia, Serafima Aleksandrovna aveva del tutto dimenticato le parole di Fedos’ja.

Ma quando, rientrata nella cameretta dopo aver ordinato il pranzo, vide Lelečka nascondersi sotto il tavolo e gridare «Cucù!», Serafima Aleksandrovna fu colta da un’angoscia improvvisa.

Nonostante rimproverasse a se stessa quel timore infondato e superstizioso, non riusciva a trarre godimento dal giocare a nascondino con Lelečka e cercava di distrarla con altre attività.

Lelečka era una bimba dolce e obbediente. Accettava ben volentieri di dedicarsi a qualsiasi gioco le proponesse la mamma. Ma siccome era ormai abituata a divertirsi a nascondino con la madre gridando «Cucù!», quel giorno provò più volte a giocarci.

Serafima Aleksandrovna tentava con tutte le forze di distrarre Lelečka. Ma non era affatto facile, soprattutto perché era colta di continuo da pensieri angoscianti e minacciosi.

Per quale motivo Lelečka continua a gridare «Cucù»? Perché non si stufa di ripetere sempre gli stessi gesti: chiudere gli occhi e nascondere il viso? Forse – pensava Serafima Aleksandrovna – Lelečka non prova interesse per il mondo esterno come gli altri bambini, attratti da tutto ciò che li circonda. Ma se così fosse, questo non sarebbe segno di una debolezza interiore? Il germe di un’inconsapevole rifiuto della vita?

Serafima Aleksandrovna era tormentata dai presentimenti. Provava vergogna verso Fedos’ja e verso se stessa nel giocare a nascondino con Lelečka. Quel gioco diventò per lei una tortura; era ancora più un tormento poiché desiderava davvero giocarci e perché qualcosa la spingeva con forza a nascondersi da Lelečka e a cercare la figlioletta che a sua volta si nascondeva. In un paio di occasioni, fu addirittura la stessa Serafima Aleksandrovna a cominciare il gioco, con il cuore gonfio, soffrendo come quando si fa una brutta azione pur sapendo di non doverla fare.

Fu un giorno triste per Serafima Aleksandrovna.

V

Lelečka stava per addormentarsi. Non appena si distese sul suo letto, protetto su tutti i lati da una rete, gli occhi cominciarono a chiudersi per la stanchezza. La mamma la coprì con un lenzuolo celeste. Lelečka liberò le morbide e pallide braccine da sotto le coperte e le allungò verso la madre per stringerla in un abbraccio. La mamma si chinò su di lei. Lelečka, con una tenera espressione sul viso assonnato, baciò la madre e abbandonò la testa sul cuscino. Nascose le braccia sotto il lenzuolo e sussurrò: «Le braccia, cucù».

Il cuore della mamma si fermò; Lelečka distesa sul letto era così piccola, debole, serena. Lelečka sorrise debolmente, aprì gli occhi e disse piano: «Gli occhietti, cucù».

E poi ancor più piano: «Lelečka, cucù».

Con queste parole si addormentò, la guancia poggiata sul cuscino, coperta dal lenzuolo, piccola e fragile. La mamma la guardò con occhi tristi.

Serafima Aleksandrovna rimase a lungo vicino al letto di Lelečka a guardarla colma di affetto e apprensione.

Sono sua madre, è mai possibile che non sia in grado di proteggerla?, pensava, immaginando le possibili sventure che avrebbero potuto colpire la sua bambina.

Pregò a lungo quella notte, ma le preghiere non alleviarono la sua angoscia.

VI

Trascorsero alcuni giorni. Lelečka prese l’influenza. Una notte le venne la febbre. Quando, svegliata da Fedos’ja, Serafima Aleksandrovna andò da Lelečka e la vide febbricitante, irrequieta e sofferente, le tornò subito alla mente il segno nefasto e fu travolta da un’improvvisa e tormentata disperazione.

Chiamarono il medico, fecero tutto ciò che si deve fare in queste situazioni ma accadde l’inevitabile. Serafima Aleksandrovna cercava di consolarsi nella speranza che Lelečka guarisse e tornasse a sorridere e giocare: le sembrava una gioia così improbabile! Lelečka diventava sempre più debole di ora in ora.

Tutti si fingevano calmi per non spaventare Serafima Aleksandrovna, ma i loro visi inespressivi la rendevano ancora più triste.

I piagnucolii e i lamenti di Fedos’ja la fecero piombare in uno stato di profonda angoscia: «Lelečka si nascondeva, si nascondeva!».

I pensieri di Serafima Aleksandrovna erano confusi e lei quasi non capiva cosa stesse succedendo. Lelečka era consumata dalla febbre, perdeva di continuo conoscenza e delirava. Ma quando tornava in sé, sopportava il proprio dolore e i propri tormenti con fare dolce e mite e sorrideva alla sua mamočka perché non pensasse che stesse soffrendo. Trascorsero tre giorni, penosi come un incubo. Lelečka diventava sempre più debole. Non sapeva che stava per morire.

Guardò la madre con gli occhi offuscati e farfugliò con voce lieve e rauca: «Cucù, mamočka! Fai cucù, mamočka!».

Serafima Aleksandrovna nascose il viso dietro le tende del letto di Lelečka. Quanta angoscia!

«Mamočka!» chiamò Lelečka con voce quasi inudibile.

La mamma si chinò su Lelečka e Lelečka, per l’ultima volta, vide con gli occhi offuscati il volto pallido e disperato della sua mamočka.

«Mamočka è bianca!» sussurrò Lelečka.

Il viso cereo della madre si fece livido e tutto davanti a Lelečka divenne scuro. Afferrò debolmente l’orlo del lenzuolo e sussurrò: «Cucù».

Emise un rantolo. Lelečka aprì e richiuse velocemente le labbra esangui e morì.

In preda a un’ottusa disperazione Serafima Aleksandrovna lasciò Lelečka e uscì dalla stanza. Incontrò il marito. «Lelečka è morta» disse con voce lieve e quasi inudibile.

Sergej Modestovič fissò ansioso il suo volto impallidito. Fu colpito dai tratti inebetiti di quel viso che, un tempo, era stato così vivo e bello.

VII

Lelečka fu vestita, adagiata dentro una piccola bara e trasferita nel salone. Serafima Aleksandrovna stava in piedi vicino a lei e guardava la figlia morta con aria instupidita. Sergej Modestovič si avvicinò alla moglie e confortandola con parole vuote e fredde cercò di allontanarla. Serafima Aleksandrovna sorrise.

«Vattene» disse piano. «Lelečka sta giocando. Tra poco si alzerà.»

«Sima, tesoro, non ti agitare.» mormorò Sergej Modestovič.

«Bisogna arrendersi al fato.»

«Si alzerà» ripeté testarda Serafima Aleksandrovna, gli occhi fissi sulla figlia morta.

Sergej Modestovič si guardò intorno ansioso: aveva timore di tutto ciò che era inopportuno e ridicolo.

«Sima, non ti agitare» disse nuovamente. «Questo sarebbe un miracolo, ma nel diciannovesimo secolo i miracoli non succedono.»

Pronunciate queste parole, Sergej Modestovič percepì la loro irrilevanza rispetto a ciò che era successo. Si sentì goffo e irritato. Prese la moglie sottobraccio e la scortò con cautela lontano dalla bara. Serafima Aleksandrovna non si oppose.

Aveva il volto calmo, gli occhi asciutti. Entrò nella cameretta e cominciò a vagare, sbirciando in quegli angoli in cui era solita nascondersi Lelečka. Camminò in cerchio per tutta la stanza, chinandosi per guardare sotto il tavolo o sotto il letto, gridando con voce allegra: «Dov’è la mia bambina? Dov’è la mia Lelečka?».

Terminato di girovagare per la stanza, cominciò un’altra volta la propria ricerca. Fedos’ja, seduta in un angolo, immobile e con il viso triste, guardò con terrore la padrona e, d’un tratto, scoppiò a piangere e lanciò un grido: «Lelečka si nascondeva, si nascondeva, quel piccolo angelo!».

Serafima Aleksandrovna trasalì, si fermò, guardò Fedos’ja con sconcerto, iniziò a piangere e uscì in silenzio dalla stanza.

VIII

Sergej Modestovič affrettò il funerale. Era preoccupato per le condizioni della moglie. Capì che Serafima Aleksandrovna era fin troppo scossa da quel dolore improvviso e, temendo per la sua sanità mentale, pensò che anticipare il funerale di Lelečka le avrebbe permesso di distrarsi e consolarsi.

Quella mattina, Serafima Aleksandrovna si vestì con particolare cura, per Lelečka. Quando entrò nel salone, c’erano molte persone a separare lei e Lelečka. Arrivarono il sacerdote e il diacono, nella stanza aleggiava un fumo azzurro e c’era odore di incenso. Un pesante fardello gravava sul capo di Serafima Aleksandrovna mentre si avvicinava a Lelečka. La bambina era calma e pallida, con un sorriso pietoso. Serafima Aleksandrovna appoggiò la guancia al bordo della bara e bisbigliò: «Cucù, bambina mia!».

La bimba non rispose. Intorno a Serafima Aleksandrovna ci fu movimento, trambusto: volti estranei e inutili le si avvicinarono, qualcuno la sorresse e Lelečka fu portata altrove.

Serafima Aleksandrovna si raddrizzò, sospirò confusa, sorrise e chiamò ad alta voce: «Lelečka!».

Lelečka fu portata via, la madre si avventò sulla bara con grida disperate; la trattennero. Si lanciò verso la porta oltre la quale era stata portata via Lelečka, si sedette lì, sul pavimento, e sbirciando da una fessura gridò: «Lelečka, cucù!».

Poi sporse la testa oltre la porta e cominciò a ridere.

Lelečka fu portata via dalla madre in tutta fretta e sembrò che il corteo che la scortava avesse iniziato a correre invece di camminare.

 

Traduzione di Sara Corsiglia

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