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Vita e morte delle aragoste (Voland), seconda prova di Nicola H. Cosentino, è un romanzo breve sull’identità, sull’ambizione e sullo scarto che, inevitabilmente, il destino impone tra l’adolescenza e l’età adulta. Ed è un romanzo d’amicizia e nondimeno d’amore, in molti sensi.

A confermare quanto sia centrale il tema dell’identità, nella scena iniziale avviene il battesimo: è notte alta a Shoreditch, qualcuno lancia una teiera contro la portiera di un taxi, i cocci rimbalzano contro i passanti, senza ferire nessuno, Vincenzo raccoglie uno dei frammenti di porcellana, un fiore stilizzato, e lo conserva. Da quel momento Vincenzo Teapot sarà il suo pseudonimo e il nome che comparirà poi sulla copertina del suo primo libro.

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Affamato di vita, volitivo, sempre innamorato, futuro scrittore di romanzi e racconti, questo è Teapot: il protagonista perfetto. Ma c’è un grande ma: a raccontarne la storia è Antonio. Un osservatore partecipe, un amico, compagno di sbronze prima e confidente fidato poi, che non ha la stessa stoffa, che non sembra altrettanto tagliato per il successo. È una spalla, Antonio, o almeno così si sente. Non è a lui che accadono gli eventi, non è lui a essere travolto dalla passione, non è lui ad avere la risposta pronta e la seduzione facile o semplicemente l’azione impulsiva e vincente. Vincenzo gli ruba la scena naturalmente, senza sforzo, quasi per predestinazione. Persino davanti alle donne di cui Vincenzo si innamora Antonio si sente spettatore, forse anche un po’ invidioso. Come con Ariane, la sensuale, bellissima, senza pudore Ariane, che esibisce il suo corpo per mestiere e per scelta. Bellezza inarrivabile, ha scelto Vincenzo.

La storia si snoda tra gli episodi del rapporto e della convivenza tra i due amici, un viaggio fondamentale a Siviglia, passato e presente che si intrecciano, in una ben dosata alternanza di flashback. Non ci sono eventi clamorosi, non ci sono esplosioni e conflitti epocali: se questa è la debolezza è anche la forza del romanzo. Lo è per la sua capacità di raccontare una medietà o mediocrità, quella che nella letteratura di consumo si appiattisce nella normalità in cui ci si può riconoscere tutti. Perché se, con le parole di Antonio, «La vita dell’uomo comune vale solo una narrazione privata», a rivalutarla interviene la tessitura e l’abilità del narratore. In quindici quadri, discontinui e legati da un filo rosso e da continui rimandi interni, Cosentino dà prima forma a una mitologia in chiaroscuro dell’adolescenza (un’età di scoperta, di vette ambiziose da esplorare, di possibili abissi da sondare, di imprese minime che sembrano epocali, di una fame di futuro priva di ansie) e poi ne demolisce l’esito. Anche qui, si badi, senza tragedie.

Del resto, il narratore ha la saggezza mite di chi non è nato per il romanzesco e può aspirare a una medietà, di chi non ha un afflato vitale dirompente e votato alla catastrofe ma al contrario ha un desiderio di composizione, di compostezza. È un’affermazione di sé che si contenta della resa, forse. Non c’è battaglia in cui dar prova di eroismo, e nessuno si salva dalla disfatta che è l’età adulta, sembra dire Cosentino. Il sotterfugio, l’emozione della rivalsa e la conquista, neanche quelli bastano a rivoluzionare il senso di una vita. È, alla fine, una parabola intima e pessimistica.

Il disincanto, che ho fin qui descritto, è stemperato, va detto, dal felice equilibrio della lingua, e dal ritmo del racconto, costruito con un sincero piacere della rievocazione, il dolce della nostalgia che prevale sull’amarezza dei ricordi. Adolescenza, amicizia, ambizione, tradimento: ce n’è abbastanza per un dramma a tinte forti. E invece a questa tentazione lei, Cosentino, ha voluto sfuggire, scegliendo una visione moderata, quasi in tono minore, più realista, forse. C’è stato un modello letterario a cui si è ispirato nel progettare e realizzare il romanzo? Un maestro a cui le è capitato di rifarsi? Oppure, al contrario, un modello da cui ha pensato con convinzione di doversi tenersi distante?

Qualche anno fa, parlando proprio di questo, Javier Cercas ha citato una battuta di Uccellacci e uccellini di Pasolini: «I maestri si mangiano in salsa piccante». Rispondeva a una domanda che mi sono posto anche io, e cioè come si possa fare letteratura dopo aver letto Gabriel García Márquez. Lui non si può né imitare (i sottoprodotti di Macondo sono tutti un po’ imbarazzanti) né dimenticare, quindi si deve sminuzzare, condire, ingerire, digerire, ricordare, assimilare. Intanto leggi altro, e decidi con chi essere cannibale e con chi no. Vita e morte delle aragoste ha risentito consapevolmente della lettura di Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout, e di fari occidentali del racconto come Raymond Carver. Mentre scrivevo, poi, rileggevo Hemingway, soprattutto Nick Adams e un paio di volte Festa Mobile, e Fitzgerald. Alcune cose volevo chiaramente emularle, o forse impararle – la scrittura secca, funzionale, non sentimentale, mi veniva difficile – altre, le migliori, saranno rimaste fuori. Poi Vincenzo e Antonio devono tanto, ma in un modo che io stesso non saprei spiegare, a Ferito a morte, il capolavoro di Raffaele La Capria. Anche lui inimitabile, ma cannibalizzabile. Poi, chi tra loro sia stato maestro e chi modello non lo so. Come tutti tendo a confonderli, ma maestro e modello non sono quasi la stessa persona: compaiono in fasi lontane fra loro, a seconda dei casi sono troppi o troppo pochi, e se i primi ti tormentano per tua scelta, i secondi possono essere fantasmi involontari: io, per esempio, credo che non riuscirò mai a liberarmi del Cassola di Fausto e Anna. Che infatti mi viene sempre in mente alla fine.

La vita, dice a un certo punto Antonio, «è sempre come te la vuoi raccontare». Questa frase mi sembra cogliere un punto molto importante per la sua narrativa. Non è in questione tanto ciò che dell’iceberg è nascosto sotto la superficie del racconto, per citare Hemingway. Sembra piuttosto che la dinamica di nascondimento/rivelazione sia una delle anime della sua scrittura (considerando entrambi i romanzi e il peso che questa aveva nella dinamica da giallo del primo romanzo, e non solo). Da una parte questo significa che l’esperienza della vita (romanzesca e no) è improntata a un tentativo di scoperta irrefrenabile e istintivo. D’altra parte, tuttavia, sembra che questo tentativo sia strutturalmente destinato alla frustrazione o all’inciampo del dubbio: non si dà verità al di fuori della narrazione, parziale e soggettiva, contaminata dall’invenzione e venata di omissioni. Tenuto conto di questo, e del punto di vista obliquo di Antonio (che rivendica persino di aver omesso alcune verità proprio a Vincenzo, il suo amico-protagonista), mi porta a chiederle: qual è stato il punto di partenza del romanzo, il nucleo da cui la storia ha preso l’avvio?

Il nucleo è stato il personaggio di Vincenzo, visto attraverso gli occhi ammirati di Antonio. Proprio il personaggio: la sua voglia di scrivere romanzi, il codino con l’elastico rosa, le fidanzate, il modo di vestire, di parlare, le opinioni e le pose. Poi è venuto tutto il resto. Sono arrivate le sue giornate, la geografia delle case, e la necessità di raccontare la sua vita: la vita di un uomo comune, che secondo Antonio vale solo una narrazione privata. Però, mi dico, quasi tutti i romanzi si travestono da narrazione privata, da segreto, da lettera, da confessione. Non è un caso che, per la stampa e la diffusione di una storia scritta, si parli di pubblicazione. Ecco allora che torna il discorso sul nascondimento e la rivelazione. Per me è un argomento sempre più eccitante, non so se e quando smetterò di affrontarlo. Da Richler a Martel a McEwan, i romanzi in cui ci sono delle versioni parziali della verità, o meglio i romanzi in cui la verità viene tradita perché ritenuta meno importante del fine ultimo del racconto (riscattare i ricordi, o preservarli, il più delle volte), ecco, quei romanzi sono la mia passione. Ti restituiscono il senso ultimo della letteratura, e il motivo per cui esistono i libri: la possibilità di operare una scelta e di dare equilibrio all’esistenza che si racconta.

«La bellezza delle donne cancella il peso delle cose, inverte le posizioni, sfila la tovaglia sotto il servizio buono e spesso lo distrugge.» Questo scrive il protagonista quando rivede in aeroporto Ariane e si accorge, per la prima volta di desiderarla. È il momento in cui questo desiderio fa scaturire un secondo pensiero, più subdolo: Antonio si ritrova a pensare che forse, improvvisamente, lui potrebbe piacere a lei, e persino più di Vincenzo. È una visione salvifica della bellezza femminile (che è uno dei motori delle vicende nel romanzo), o quantomeno feconda, attivante, positiva. Anche nel suo romanzo d’esordio, e sin dal titolo Cristina d’ingiusta bellezza (Rubettino, 2016), era centrale la bellezza femminile. Lì però si raccontava di un intero paese soggiogato dal fascino strabiliante di Cristina Petraglia, e la perfezione delle sue forme stonava con il paesaggio umano circostante, lasciando i più impreparati. L’epifania di Cristina, ammantata di un conturbante mistero, portava a un delitto: la bellezza assumeva i connotati di una colpa o quantomeno di qualcosa di incommensurabile e perciò pericoloso (per sé stessi e per gli altri). È, la bellezza, dunque, dannazione o salvezza? Ha avuto in mente questa differenza, scrivendo Vita e morte delle aragoste?

In Cristina c’è una bellezza che in qualche modo genera l’orrendo, perché non viene accettata né compresa: gli uomini rifiutano il desiderio, le donne l’apparente squilibrio tra lei e loro. In entrambi i casi è centrale la negazione, sia della bellezza che – soprattutto – della libertà. Non riuscire a patteggiare coi propri desideri e anzi oscurarli, magari per ragioni di pressione sociale, genera un’insoddisfazione mostruosa, che a sua volta sfocia nell’intolleranza, nell’odio: un rimpicciolimento etico che non ha fine. Se non si accetta il sé non si accetta l’altro, se non si accetta l’altro si è infelici in qualsiasi contesto. Si implode. E la bellezza c’entra sempre, perché ha a che fare con tutti gli aspetti che più ci emozionano, e quindi ci turbano, dell’esistenza: il sesso, l’amore, il riconoscimento sociale, la realizzazione; tutte le voglie passano dalla bellezza, e se si è pieni di limiti questo diventa insostenibile. Idealmente, tutto ciò che ho scritto è preceduto, in epigrafe, da una citazione di Nabokov: «The moral sense in mortal is the duty/we have to pay on mortal sense of beauty». Riassume molto di quello che cerco di dire: quando la bellezza, quando la libertà è troppa, interviene il senso morale, come prezzo da pagare.

Ecco, col personaggio di Ariane, in Vita e morte delle aragoste, cerco di sfidarlo ancora di più, questo senso morale: lei non sarà bella quanto Cristina Petraglia ma è una cam-girl senza famiglia, autosufficiente, libera e convinta delle sue scelte: una donna terrificante, per il moral sense, un nemico giurato delle convenzioni, che complica le cose a chi se ne innamora. Vincenzo e Antonio sono così distratti dallo spirito di conquista, però, che vanno oltre. Ci pensano, ma dimenticano di ritenerla una cosa importante. Quindi, per rispondere, la bellezza è dannazione per chi la rifiuta, per chi ritiene di meritarla ma non ha il coraggio di prendersela, per chiunque ponga dei limiti alla propria, e altrui, libertà. Ma è opportuno notare che è anche la più potente arma per abbatterli, questi limiti. Se non con vero e proprio coraggio, con un po’ di incoscienza. O di romanticismo.

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