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Nel 2015 va in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano la personale Ballata di uomini e cani di Marco Paolini: accompagnato dalla strumentazione originale di Lorenzo Monguzzi, Angelo Baselli e Gianluca Casadei, e con un’animazione video di Simone Massi alle spalle, l’uomo attore chiarisce subito la propria identificazione con il personaggio:

«Il mio nome è John Griffith London […] Forse voi mi ricorderete come scrittore di libri per bambini».

La provocazione si riferisce evidentemente al successo mondiale di Zanna Bianca e Il Richiamo della Foresta contrapposto invece a tutta quella produzione maggioritaria dimenticata in Italia: parliamo di circa duecento racconti, una ventina di romanzi e almeno cinquecento saggi brevi o articoli di vario genere. Ecco perché Paolini porta in scena una recitazione musicale di Macchia, Bastardo e Preparare un fuoco: ci troviamo di fronte a delle short stories che hanno tutte come protagonista (o co-protagonista) l’animale. Come a dire che nella realtà attraverso Zanna Bianca o Buck, Jack London non voleva affatto raccontare una storia della buonanotte, ma che anzi la legge della zanna e del bastone rappresenta in definitiva il movimento feroce che governa il proprio mondo poetico.

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Leggere Jack London significa anzi tutto confrontarsi con una voce originale (e originaria) della letteratura americana: e lo sapeva bene Elio Vittorini, che nella Antologia Americana presentava lo scrittore, proprio con il racconto Preparare un fuoco (con il titolo allora di Accendere una fiammata), come l’esponente principale del passaggio da una lettura esclusivamente simbolica a una assieme «leggendaria e verista». Si pensi ancora all’influenza particolare che una raccolta autobiografica come La strada (trad. Davide Sapienza, Castelvecchi, 2010) possa avere esercitato successivamente intorno alla formazione culturale della Beat Generation. Eppure la produzione editoriale italiana ha sempre ignorato tutto questo: fino a oggi.

Perché negli ultimi anni Jack London, o meglio l’intero personaggio Jack London, sembra avere letteralmente (e fortunatamente) invaso le nostre librerie: solo per portare alcuni esempi abbiamo la nuova edizione dell’Universale Economica Feltrinelli (2017) di Martin Eden, Zanna Bianca e Il Richiamo della Foresta; ancora Il Richiamo della Foresta (trad. di Gianni Celati, ET Classici Einaudi, 2016) e Zanna Bianca (trad. E. Pellini, Edizioni Clandestine, 2017); La piccola signora della grande casa (trad. A Traverso e G.Dauli, Elliot, 2017); Quando Dio ride e Jerry delle isole (entrambi trad. Gian Dàuli, Edizioni Lindau, 2017); La crociera dello Snark (trad. C. Padovani, Mattioli 1885, 2015); Il lupo di mare (Mursia); e di nuovo Il richiamo della foresta (trad. U. Dèttore e con intr. di Oriana Fallaci e illustr. di Abigail Rorer, Rizzoli, 2016).

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L’affermazione iniziale di Paolini allora sembra ormai superata dalla circostanza presente. 

Ma che cosa è successo? Nel 2014 Matteo Nucci sul Venerdì (ripreso qui da minimaetmoralia) riassumeva una particolare situazione editoriale: l’anno prima cioè Mattioli 1885 e Castelvecchi pubblicavano a sorpresa la traduzione rispettivamente di Jack London. Vita, opere e avventura a cura dello studioso americanista Daniel Dyre (curatrice italiana Franca Brea e di Jack London per la firma di Irving Stone (trad. M. Reggia). Ciascuna biografia era una avventura critica intorno alla meravigliosa esistenza dell’uomo:

«Opposti da ogni punto di vista, i due libri, confrontandosi con la vita che macinò esperienze, idee e lavoro, ci appaiono oggi, mentre vengono tradotti contemporaneamente, come due perfetti paradigmi dell’arte della biografia. Dyer, in Jack London. Vita, opere e avventura è asciutto e chirurgico: fa uso di tutto quello che nell’ultimo secolo gli studiosi dello scrittore hanno messo insieme, soppesato, codificato. Stone, in Jack London, è evocativo e torrenziale: lavora infatti sugli uomini, sui resoconti di chi conobbe, amò oppure odiò London, dai familiari agli amici fino ai semplici conoscenti (il libro risale al 1938 quando molti coetanei di London erano ancora in vita). […] Le idee circa la personalità apparentemente lineare di Jack London si snodano con naturalezza, seguendo gli eventi principali della sua breve esistenza. Nascita, dedizione al lavoro, amore, morte. Nulla di più semplice. Benché fin dalla nascita tutto sia avvolto nel mistero».

Il problema era cioè comprendere se quanto Jack London raccontava di se stesso corrispondesse a verità: in circa quarant’anni infatti, oltre a essere diventato uno degli scrittori di maggiore successo nella propria contemporaneità americana, l’uomo sembrava sempre recuperare l’oggetto delle narrazioni da una pluralità di esperienze sul campo. Siamo di fronte a una delle biografie più oscure della storia letteraria statunitense: studiare allora l’esistito di Jack London non significa semplicemente soddisfare una curiosità, ma inserire quella esperienza di scrittura all’interno della maggiore poetica americana. O meglio: bisogna considerare l’opera tutta di London come un capostipite nella topica – che vorrà poi una sovrapposizione quasi diaristica tra vita e scrittura nella letterarietà successiva del grande continente – o invece come una esperienza minore e ancora esclusivamente simbolica?

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Dyer e Stone arrivarono in Italia come una eco di una diatriba più ampia: nel lontano 1988 Romano Giachetti ci informava dalla Repubblica della pubblicazione in America di The letters of Jack London (Stanford University Press, 1988, a cura di Earle Labor, Robert C. Leitz and Milo Shepard) e dell’American Dreamers di Clarice Stasz (1988) con queste parole:

«Si sarebbe detto che London preso com’era anche da altre attività: coltivatore, commerciante, imprenditore non avesse avuto tempo, specialmente negli ultimi anni, per scrivere nemmeno una lettera. Invece ne scrisse a migliaia, di lettere; e una cospicua selezione esce ora in tre volumi col titolo The Letters of Jack London. Non è un epistolario qualsiasi. È il contraltare (uomo) del personaggio (scrittore) che London aveva costruito a uso e consumo del mondo: se stesso. Come se non bastasse, l’ uomo esce ridimensionato (anche se non per questo svilito) in un altro libro che rimette in circolazione il suo nome negli Stati Uniti: American Dreamers, con cui Clarice Stasz ripercorre la singolare storia d’ amore, anzi il patto vita-morte, che legò London a Charmian Kitteridge, la sua seconda moglie».

Si apriva allora ufficialmente il caso biografico London. Marco Paolini ci fornisce una interpretazione immaginaria dell’uomo verso se stesso, a partire però dalla realtà del fatto che viene come giganteggiata, fino poi a raggiungere una propria compiutezza attraverso quella particolare storpiatura:

«Cerca le scorciatoie, vuole diventare grande. Beve il whiskey quando ha voglia di caramelle, molla il lavoro perché ha voglia di spazio. Va in mare, la Baia di San Francisco diventa il mare per lui. E la sua barchetta diventa la nave, perché della barca lui è capitano e riesce perfino ad avere un marinaio – a sedici anni. Poi non gli basta più: sente in qualche modo il richiamo dal mare della terra, dei ragazzi di strada che lo sfidano a salire il colle (come dicono loro) e cioè a prendere il treno merci che attraversa la Sierra Nevada – ovviamente prenderlo al volo, da clandestino. Ma non scende subito per tornare indietro e dire ce l’ho fatta. Non lo dirà agli altri, ma continua il viaggio. Lo allunga. E dai treni non scende se non per farsi sbattere in galera come vagabondo. Prende delle storte, torna a casa e ne prende un’altra nel momento in cui ha deciso di raddrizzarsi la vita e mettersi a studiare, ecco che arriva la tentazione di andare a cercare l’oro. Non lo troverà… però l’esperienza in mezzo ai cercatori del grande Nord gli dà la materia per farlo diventare scrittore».

La questio rimane ancora aperta, ma quanto meno ha riacceso l’interesse per la produzione intera di Jack London. Tuttavia credo, che una precisa lettera possa esserci rivelatoria: John Griffith London, all’apice della popolarità (e anche della propria vita), si trova probabilmente al Beauty Ranch, l’enorme casa di campagna che aveva acquistato nel 1910 e dove troverà una ipotetica morte per overdose da antidolorifici, quando riceve una proposta manoscritta di uno scrittore esordiente. La risposta sarà una stroncatura spietata, accompagnata però da un rimando testuale e assieme biografico che ci presenterebbe la costruzione volontaria del Jack personaggio. O la sincerità dell’unicum Martin Eden:

Avere qualcosa di interessante da dire non l’assolve dal non tentare di cercare di raccontare quel qualcosa nel miglior modo possibile. Utilizzando stili e forma che, nel suo libro, sono stati del tutto trascurati. Che cosa c’è da aspettarsi da un ventenne senza pratica, né conoscenza dell’arte dello scrivere? Santo cielo, ragazzo, ci vogliono cinque anni di apprendistato per diventare un fabbro esperto. Avete il coraggio di dirmi che avete speso, non cinque anni, ma nemmeno cinque mesi di quella incessante fatica nella ricerca e nell’insegnamento degli strumenti di quel mestiere artigiano che trasforma uno scrittore qualsiasi in un professionista che può vendere ad un alto prezzo le sue storie a riviste? […] Se avesse fatto un minimo studio su cosa viene pubblicato nelle riviste si sarebbe reso conto che la sua storia non era di quelle che interessano. Se avete intenzione di scrivere per avere successo e denaro, è necessario capire quali sono gli argomenti commerciabili, quelli presenti sul mercato. La sua storia non è vendibile. Se avesse preso una mezza dozzina di serate trascorse fuori e fosse andato in una sala di lettura a informarsi su tutte le storie pubblicate nelle riviste contemporanee, avrebbe capito in anticipo che la sua storia non era affatto vendibile. Caro ragazzo, le sto scrivendo sinceramente. Si ricordi una cosa molto importante: la noia dei vent’anni, è la noia dei venti! E ne avrete, ve l’assicuro, altre e molto più complicate prima di morire. E ve lo dico io che sono passato attraverso la monotonia dei sedici anni, dei venti, attraverso quella miseria assoluta dei venticinque e trenta. E sono ancora vivo, sto crescendo grasso, sono molto felice e rido per la gran parte del giorno. Io sono un sopravvissuto e considero quei sintomi, semplicemente, come segnali adolescenziali. […] C’è solo un modo per iniziare, ed è quello di cominciare; e bisogna farlo con pazienza e tanto duro lavoro, preparatevi per tutte le delusioni – le stesse di Martin Eden di prima di affermarsi – che erano le mie, perché ho semplicemente dato al mio personaggio immaginario, Martin Eden, le mie prime esperienze del mondo della scrittura.

(Oakland, California, 26 ottobre 1914).

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