Franco Arminio è un albero: «corpo radice, parola chioma», dove le parole sono carezze, specchi, mani, occhi. È un paese: «in bilico, col buco in mezzo». È soprattutto un paesologo.
La paesologia è una scienza che unisce etnologia, poesia e geografia: è la scienza che si è inventato Arminio per studiare i paesi della sua Irpinia e non solo. È una scienza a tempo, perché i paesi sono oggetti in fuga dalla loro forma, oggetti in via di sparizione. Assistiamo al loro crepuscolo senza conoscerne il destino.
La crepa, reale e metaforica, che accelera il mutamento dei paesi, la si può individuare nel terremoto che il 23 novembre 1980 fa tremare l’Appennino meridionale. Inizia così la ricostruzione, la rincorsa al contributo, la modernità. La vita dei paesi si trasforma in un surrogato di esistenza importato da fuori, a cui aggiungere una certa attitudine al lamento e alla maldicenza. I paesi si spopolano, i vecchi muoiono, i figli emigrano. La paesologia si occupa di chi resta.
«Venticinque anni dopo il terremoto,
dei morti sarà rimasto poco,
dei vivi ancora meno.»
Brevi e doverose avvertenze su cosa non è la paesologia. Non è idolatria della cultura locale. E non è nostalgia del passato, quell’atteggiamento del come si stava bene una volta. La paesologia, si capisce, è anche politica. Ma è soprattutto una scienza, imprecisa e umorale, e pertanto non dotata di un vero e proprio metodo.
Il paesologo va a visitare paesi in cui non va nessuno. Va nelle piazze, nei cimiteri, nei bar. Siede sulle panchine, legge i necrologi. Ascolta le storie della gente, guarda le insegne dei negozi e le auto parcheggiate. Prende appunti, fotografa, filma. Si tratta di una forma di attenzione, un «andare verso il minimo e il minore». Va nel vuoto dei paesi e trova qualcosa, a volte trova la calma, la bellezza, la poesia.
La poesia è la «scienza del dettaglio». La poesia è nel poeta, nel suo sguardo clemente. La poesia è una fabbrica di immagini, per tornare all’Arminio-albero: «sono appeso alle immagini, il mio corpo è una fabbrica di immagini, le parole per me non sono parole, sono carezza, specchi, mani, occhi, sono rami di un albero che mi cresce dentro prendendo linfa dalle radici del mio corpo: corpo radice, parola chioma». E ancora: «Tutto il mio tormento sta nel cercare […] di arrivare insieme a qualcuno in un luogo in cui gli uomini sono uomini e altro, gli alberi sono alberi e altro».
La poesia di Arminio è questo: talvolta è un esercizio di empatia, sentirsi come un vecchio, come un albero, come un imbuto; talvolta è guardarsi allo specchio, che è un altro modo per dire guardarsi dentro. La sua poesia nasce dall’inquietudine, dall’ipocondria che lo mette di continuo davanti al pensiero della morte; per tornare all’Arminio-paese:
«Senza l’assillo della morte mi sento una cosa inerte. Ho bisogno dello spavento. Lo spavento falcia la mia vita e la trasforma in scrittura, un po’ come fa la mietitrebbia col grano.
Parlo dei paesi perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico, col buco in mezzo. Mi piace arrivare nei paesi per sentire questa cosa nuova che è la desolazione, questa cosa che ha preso il posto della miseria».
Le sue poesie, le ha raccolte in trenta sacchi neri per l’immondizia. La forma della vita. La prosa è arrivata dopo, per raccontare il suo paese, Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente, e quelli vicini. Ma la poesia è anche nella prosa della paesologia. La poesia, come la paesologia, è fatta di terra e di carne. La poesia è nella luce, nel vento. La poesia è intensità. La poesia è anche ritmo. Quello di Arminio è un movimento che va continuamente da dentro a fuori: dentro il suo corpo e fuori, andare nei paesi e poi ritornare a Bisaccia. La paesologia è «la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo». Arminio traduce l’aria e l’ansia in parole.
La paesologia è una scienza invernale e mattutina, e ha bisogno di una luce che permette di vedere lontano. La paesologia è delle alture dell’Irpinia. Eppure, è come se il piccolo contenesse il grande. La morte dei paesi rispecchia la morte del mondo. In città è più facile da nascondere, tra la folla e la frenesia, il paese invece non mente. La si può esportare, la paesologia? Sperimentarla nei supermercati, nei quartieri di una capitale? Forse no, il paesaggio principale sarebbe la gente che insegue il tempo o chissà cosa, sarebbe complicato. O forse sì, perché la paesologia è anche un modo di guardare il mondo, stando a metà tra se stessi e le cose, e capire che non c’è una meta da raggiungere.
Mi viene in mente una poesia di Primo Levi che si intitola Crescenzago. Mi pare un ottimo esercizio di paesologia, quando ancora non esisteva. C’era il vento, anche a Crescenzago, ma il silenzio era disturbato dal continuo sibilare del tranvai. E non c’erano colline, ma una ragazza che rammendava alla finestra e operai in bicicletta. Era il 1943. Allora il sud era ancora quello di Rocco Scotellaro, dei contadini, degli asini, del grano, un mondo in cui si era meno soli.
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