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Credo che il giorno in cui conobbi Iuri Lombardi coincidesse pressappoco con il momento in cui la sua poetica stava per prendere quella strada da cui poi non sarebbe più tornata indietro: avevo bisogno di un accendino, lui sembrava una di quelle persone che hanno sempre con loro un accendino. La prima frase che mi disse era una domanda chiara e tonda: conoscevo Giovanna d’Arco? Gli risposi che la conoscevo, a grandi linee. Bene, la sua Giovanna d’Arco era diversa: faceva cioè una fine diversa. Ok… be’, non volevo sapere che fine faceva? Sentiamo. Veniva sodomizzato da un prete. Diamine, perché? Perché è Giovanni, ecco perché: una trasposizione in chiave moderna e astratta dove il vero viene confuso con l’assurdo, e viceversa. Non capivo proprio che cosa stesse dicendo: non stavamo parlando di Giovanna d’Arco? No, aveva cambiato argomento: erano entrambi dei testi teatrali che aveva scritto lui, ma questo in particolare si intitolava La spogliazione e aveva come protagonista (non proprio come protagonista, ma era per capirci meglio) tale Giovanni. Cambiò rapidamente argomento altre volte: nel tempo di una sigaretta, mi parlò prima di Lacan, poi di Carmelo Bene e non so chi altro.

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C’era parecchia confusione, lo ammetto: ma si trattava di quelle confusioni che sembrano naturali dove entrambe le persone sanno di che cosa si stia parlando, o forse credono di saperlo. A ogni modo, dove entrambe le persone si trovano d’accordo sul modo di connettere una cosa all’altra e così il discorso comincia a muoversi come una sinfonia stramba, ma comprensibile (perlomeno a chi la suona). Ora Iuri Lombardi gestisce la sezione Critica Letteraria di YAWP: giornale di letterature e filosofie: quando fondai assieme a Michelangelo Franchini questo spazio, non potevo fare a meno di affidare a lui la gestione della sezione critica. La nostra chiacchierata continua tutt’oggi: ci sono state altre stramberie, ma non occorre citarle. Persino il ritratto con cui ho aperto questo articolo potrebbe essere fuorviante: il fatto è che allora, Iuri Lombardi si lasciava alle spalle un lungo periodo di provocazioni letterarie. Aveva scritto tantissimo, tra cui una raccolta di saggi, L’apostolo dell’eresia, e alcuni romanzi come Iuri dei miracoli e Il Cristo disubbidiente: credo che i titoli rendano l’idea. Ma è della poesia che stavamo parlando: quando conobbi Iuri Lombardi, poco dopo venne alla luce la raccolta poetica Il condominio impossibile (PoetiKanten, 2016). Ecco come si apriva:

Tutto il giorno sono stato in attesa che
il temporale diradasse; mi tenevo alle funi
provando le mie ossa (solo un fuoco tenue
daranno in un futuro prossimo):
di fatto ho allestito una nuova vita
nella feroce nota, nella luce crepuscolare:
niente era niente […]

per finire all’ultima pagina con i versi: «Non si può più vivere nel condominio impossibile […] Ma se esco riconosco le strade, i cartelli delle insegne: / il fondo di due pupille assai chiare». Allora non avevo mai letto la raccolta che precedeva questa: Black Out (PoetiKanten, 2015), eppure mi sembrava di trovarmi di fronte alla continuazione di qualcosa che doveva essere già iniziata, ma che si proponesse come una cesura netta verso il proprio passato. E così era: se con Black Out l’io lirico andava in cortocircuito per il solo fatto di (o tentare di) esistere, di scoprirsi cioè come una individualità prepotente e ingombrante che direzionasse l’agire del singolo verso la sottomissione o la ricerca di una approvazione dell’altro, nel momento in cui questo processo si collettivizza, il sistema diventa apocalittico. Ecco che cos’era Il condominio impossibile: il primo tentativo (fallimentare) di trasformare l’io lirico in un noi.

Da quel momento, la poetica di Lombardi è stata interamente tesa alla scoperta dell’altro: e prima ancora, di una generazione. Ci doveva essere cioè un passaggio generazionale, una qualche somiglianza, una generale similitudine. E quello che accadde, fu una conferma diretta di questo riconoscimento. Quando due anni fa cominciai a raccogliere i testi che poi avrebbero formato la raccolta L’urlo barbarico (Le Mezzelane, 2017), il volume che riuniva alcuni dei giovani poeti che erano transitati per l’esperienza di Yawp nel biennio 2015-2016, avevo in mente una metafora precisa: Lombardi avrebbe dovuto aprire la raccolta con la propria breve silloge Capodanno Metropolitano, perché in questo modo avremmo rappresentato un passaggio di testimone. Non si trattava di cedere il posto alla generazione successiva (i poeti che seguivano erano infatti tutti degli anni ’90), ma di accompagnarla, di mettere in dialogo due generazioni. E così sembrava: Lucien Rubempré, la poesia che apre L’urlo barbarico, è una summa di esperienze intime e personali e al tempo stesso un avvertimento che potrebbe essere riassunto come «ciò che è accaduto a me, accadrà anche a te». Canale, che allora non aveva letto la silloge di Lombardi, conclude invece la raccolta con una poesia: T’accorgi, una presa di coscienza che era del tutto simile a quella della prima poesia. Era incredibile: le esperienze, che procedevano per entrambi i testi in maniera didascalica, erano state davvero le stesse.

E qui arriviamo all’ultimo capitolo di questa storia: dalla dissacrazione dell’io delle prime opere, Lombardi con la nuova raccolta Il Sarto di San Valentino (Ensemble, 2018) cerca di sistematizzare una conclusione. Potremmo intitolarlo come: la decostruzione dell’io. Questa raccolta è cioè tutta tesa a preparare il lettore alla conclusione finale: il lungo poemetto da cui prende il titolo. C’è una poesia che conviene citare qui per intero, perché può essere considerata la dichiarazione di poetica ultima:

Come è importante avere un pensiero,
rimanere sobri convinti di sé:
importante è altrettanto smontare
quel pensiero, essere altro da un istante
prima: spesso è un crimine rimanere
immortalati sulle nostre posizioni.
Il gatto prima di avventarsi sul topo
deve disegnarlo. Sulle maggesi, fasciata
dalle nubi basse, ferito sono una gazza.
Ognuno deve porre fine al suo io,
apparecchiare il lume dell’umano,
inondare di luce, se pur timida,
la stanza del suo essere nel mondo.

E difatti l’io lirico è da questa raccolta completamente assente: il poeta, se esiste ancora come personaggio, non è altro che un osservatore. Ogni poesia infatti si apre sull’altro, che diventa il soggetto della singola lirica: sembra quasi uno Spoon River, ambientato però a Firenze e nel tempo della vita. Anche la poesia viene privata del proprio “io”, in quella sezione che è Il cruciverba della croce, in cui la lirica viene ridotta a puro gioco verbale:

IL PRINCIPIO DEL GIORNO – alba
NON HA VOCE – silenzio
SENZA FISSA DIMORA – senza tetto (io) […]

La stagione dell’io trova in verità un proprio posto, in una serie di liriche in cui il soggetto poetico non è altro che il Lombardi bambino visto dal Lombardi adulto privato di sé: pare quasi uno studio della propria biografia, la ricerca ossequiosa del principio di qualcosa che ormai è stata abbandonata per sempre (l’io appunto), ma che, tuttavia, va registrata per tracciare da capo a fine il percorso di un uomo: lo Iuri dei miracoli. E allora ciò che Il Sarto di San Valentino dovrà (ri)cucire, sarà evidente a tutti.