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Il punto nella vita è mettersi al servizio di qualcosa. Puoi scegliere la fica, o la famiglia, o i soldi, o la droga, o Dio. Io ho scelto questo posto.

In copertina un uomo piegato a terra si tiene la testa tra le mani, lasciandosi schiacciare da una forza che gli cresce dentro. Dei rovi altissimi gli si innestano sulla spina dorsale e svettano in direzione del cielo, un soffitto opprimente e bluastro che contrasta con il suolo sanguinolento, percorso da venature sinistre. Siamo all’interno o all’esterno? È la bestia dentro, è la rappresentazione plastica che Massimo Carnevale – illustratore e fumettista, tra le altre cose – dà del nuovo romanzo di Peppe Fiore, Dimenticare, uscito per Einaudi Supercoralli questo autunno.

Dopo Nessuno è indispensabile (Einaudi 2012) e le precedenti raccolte di racconti, Peppe Fiore torna con un romanzo sull’omissione – di colpa e di parola – e sul silenzio, un’opera a tinte noir che lascia il lettore continuamente insoddisfatto (per tutto ciò che non spiega), e che perciò funziona. Fiore ha una storia da raccontare e sceglie di farlo dicendo poco (ma sottintendendo molto), confinando le rivelazioni nell’epilogo, tutte contratte in poche righe e in una figura animalesca che lega finalmente il recondito dei personaggi al fuori del mondo – sia il bosco, il lido balneare o qualsiasi luogo altro da sé e dai propri mostri –, figura che è anche corpo fisico, non solo metafora finale.

Daniele, dopo aver abitato per anni a Fiumicino, si trasferisce a Tre Case, un piccolo paese di montagna in alto Lazio, per gettarsi il passato alle spalle – e cioè il nipote Cristiano, il fratello Franco e il loro segreto; Franco perde a poker e comincia a bere e finisce a fare il dipendente nello stesso lido che anni prima era di sua proprietà; Cristiano si imbarca come marinaio direzione America centrale e Caraibi, torna con una donna bellissima e una certezza. «“Perché sei tornato?” Cristiano puntò una zona dello scafo, aguzzò gli occhi, tirò fuori dalla tasca il suo mazzo di chiavi. “A un certo punto devi tornare”disse grattando sulla chiglia».

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La desolazione di Fiumicino e dei traffici loschi del fratello Franco viene sostituita dal silenzio abitato da presenze invisibili della faggeta di Tre Case, dove si incontrano degli outsider che sembrano usciti da una raccolta di racconti: due camperisti di sessant’anni che da anni vivono ai piedi dell’impianto sciistico abbandonato, un bambino che non parla ma disegna fiori, guardie forestali a cavallo, un cane giallo inspiegabilmente fedele, una giovane maestra ex eroinomane e così via, in un carosello di emarginati con storie bizzarre da raccontare (leggi custodire). Ciascuno è scappato lontano – per finta o per davvero, in Messico, a Santo Domingo, in alto Lazio: per dimenticare, appunto.

Peppe Fiore fa poi una cosa preziosa che rende il romanzo più di un noir (la narrativa buona per fortuna sa ancora trascendere le categorie): dà i nomi. Daniele è un esperto di botanica e astronomia, e legge a Cristiano L’enciclopedia delle Scienze De Agostini con le costellazioni, i pianeti, i fiori; bene, allora anche la voce narrante insegnerà al lettore qualcosa, sempre sottovoce. Quando, nel primo capitolo, Daniele e Franco sono costretti a regolare i conti con l’uomo «dalla testa d’uovo» e con l’uomo «del dopobarba» la narrazione si interrompe, giusto il tempo di una parentesi, per precisare che l’oleandro del campetto abbandonato è il Nerium oleander; quando nel parcheggio del supermercato di periferia viene trovata una lince morta, e la lince diventa Lynx lynx, acquisendo uno statuto sacrale, come il bosco. Le presenze che lo abitano hanno infatti una loro dignità indiscutibile (non sono Daniele e Franco per primi ad avere una bestia dentro con cui convivere?). La natura è viva, il bosco respira – «Daniele sentì il bosco che si contraeva in uno spasmo», scrive l’autore durante la seconda battuta di caccia all’orso per ritrovare Mattia, il bambino scomparso – e respira più forte ogni volta che le persone scompaiono nel suo ventre.

C’è questa delicatezza nel romanzo di Peppe Fiore e nei personaggi che crea e, al di là di ogni «silenzio minerale», c’è un bisogno di consolazione e di perdono ingenuamente umano e universale. «La misericordia significa una cosa molto semplice e insieme difficilissima. Prendere come misura del mondo gli altri invece che se stessi. […] Misericordia è una parola rivoluzionaria. Sovverte l’ordine di tutta la vita che viviamo ogni giorno»: molto cristiano quando la bestia dentro trova un attimo di pace. I personaggi di Dimenticare vogliono «silenziare» i propri segreti e chiudere gli occhi, prima dell’alba in una squallida camera d’albergo fuori Fiumicino, in un capannone con le barche in costruzione o sui lettini di un lido che è diventato un affermato ristorante di pesce, per cercare finalmente di dirsi che anche così va bene, che le colpe possono essere perdonate se non proprio dimenticate.

La fuga di Daniele a Tre Case mette una distanza tra lui e il passato, una distanza fatta di neve e di alberi, ma non è sufficiente a cancellare la vita precedente, perché il non detto messo a tacere ritorna, come l’orso della faggeta, e lui ne è perfettamente consapevole. Di qui un senso di immobilità e di attesa che riempie i luoghi o, per meglio dire, un fermento come di fiume carsico che aspetta di tornare alla luce dopo decine di anni, al disgelo della neve che permette di guardare in fondo al crepaccio. Ci sono segreti che non si vogliono davvero rivelare, sembra ripetere Peppe Fiore per tutto il romanzo, parole che una volta dette diventano involucri vuoti e belve che ci abitano a cui non si deve concedere lo spazio per venire fuori; dice Daniele del fratello: «Ogni tanto sente ancora la bestia dentro, che dorme con un occhio chiuso e uno aperto. Riesce a tenerla a bada solo perché pensa a suo figlio. Non vuole che suo figlio si vergogni di lui, così mi ha detto, perché nella sua vita si è vergognato abbastanza da solo. Per quello tiene a bada la bestia».

C’è un’altra cosa piccolissima in Peppe Fiore, una seconda chiave di interpretazione del romanzo – se non si può fare a meno di cercare un «messaggio» all’interno di una narrazione che sottende piuttosto che risolvere – è un episodio insolito, inscenato in un capannone a vetri nei campi di fianco all’autostrada. Sono esposti dei pregiati tavoli da biliardo. Daniele porta Eleonora in questo posto in cui celebrava una sorta di rituale infantile con Franco, e le dice questa cosa, che alla fine il biliardo è adatto a una mente matematica perché si basa su leggi razionali, che le palle colorate non sono altro che legno e alluminio, e che «se gli esseri umani, così gli aveva detto suo fratello, si fossero comportati con un decimo del raziocinio delle palle da biliardo, lui non avrebbe avuto tutti i casini che aveva».

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