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Questo pezzo di Giovanni Bitetto è stato originariamente pubblicato su 404: file not found.

Le notti blu, il nuovo romanzo di Chiara Marchelli edito da Giulio Perrone e candidato al Premio Strega 2017, si inabissa nel dolore di una famiglia normale e prende le mosse dalla scomparsa per radiografare i vettori, spesso imprevedibili, che si originano dall’elaborazione del lutto.

La storia è imperniata sul suicidio di Mirko, studioso di geografia e figlio di Larissa e Michele – solida coppia che vive a New York. L’evento improvviso scuote le loro vite e quella di Caterina, moglie di Mirko che deve affrontare anche un altro evento imprevedibile. Infatti, come a rimarcare una sorta di strano scherzo del destino, al momento della morte si avvicenda il momento della vita: Larissa, Michele e Caterina scoprono che Mirko ha avuto una relazione con un’altra donna, rapporto da cui è nato un figlio.

Fra i due poli antitetici si apre lo spazio narrativo disegnato da Chiara Marchelli, e si tracciano le coordinate di personaggi in conflitto fra loro, ingabbiati in rapporti ambivalenti e che nascosti dietro la complessità di una quotidianità borghese. Il primo rapporto sul punto di implodere è quello matrimoniale fra Larissa e Michele: le differenti reazioni al lutto li portano sull’orlo della crisi. Da una parte c’è Michele, chiuso nel perenne ricordo del figlio (il titolo Le notti blu deriva infatti dalle notti insonni che Mirko gli «lascia in eredità» dopo la morte); Michele rimugina sul lutto e sente che niente può dirsi più familiare:
Non avrebbe mai pensato d’altronde di perdere Mirko. Non è nell’ordine logico delle cose. Non si muore dopo i propri figli. Non si va a recuperare il loro cadavere da un letto, sfigurato da un incidente, devastato da una malattia. È per questo che tanti titubano, all’idea di mettere al mondo un figlio? Sapersi incapaci di reggere quell’eventuale inammissibile dolore? Perché è vero, è un dolore che non si può reggere. E se non se ne muore si procederà per sempre dentro i contorni di una cosa diversa, in cui sarà impossibile trovare una qualsiasi forma di pace.

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Al desiderio di regressione di Michele si oppone l’implacabilità della moglie Larissa, la reazione della donna è di rabbia: la ricorsività dei gesti quotidiani diventa la corazza dietro cui difendersi; il mutismo, la performatività, l’aggressività, sono le armi con cui recidere il ricordo e rimuovere il lutto. Allo stesso modo la reazione alla scoperta di essere nonni è profondamente diversa: Michele vuole conoscere il bambino, rivedere nel suo sguardo il volto del figlio. Invece Larissa non crede alle parole della madre, tenta in tutti i modi di mettere in discussione la verità. Nella cellula del rapporto coniugale esplode il conflitto, la perdita si struttura come un orizzonte temporale perenne in cui il matrimonio viene meno nella sua natura di legame.

Ma non è solo la storia di un baratro coniugale, perché l’estraneità si insinua anche fra Larissa, Michele e Caterina. I genitori di Mirko si rendono conto di non conoscere la moglie del proprio figlio, il silenzio che si allarga nelle loro conversazioni è il medesimo dell’incontro con l’amante di Mirko. La vita del figlio è a loro estranea, per quanto abbiamo cercato di formarlo e seguirlo – per quanto la loro vita sia costellata di ricordi insieme – l’essere genitori rimane un mistero. Reciso il legame con Mirko, Caterina ritorna a essere una sconosciuta, a sopravvivere è l’incomunicabilità fra nuora e suoceri.

E il mistero della vita di Mirko è anche l’ignoto della sua morte, perché Mirko ha compiuto il gesto del suicidio. Se Larissa e Michele si interrogano incessantemente sull’azione estrema, non posso fare altro che approdare alla medesima conclusione: l’inconoscibilità.

Un ignoto che la scrittura di Chiara Marchelli tratta in modo antiretorico, affidando alla resa psicologica dei protagonisti considerazioni e ipotesi. La grande forza della prosa dell’autrice risiede nella natura di appunto, la facilità della frase che sembra strutturarsi come pensiero istantaneo, sulla pagina la realtà si disvela passo dopo passo, nella memoria di Michele i ricordi sono generati da minimi dettagli. Le domande sul dolore e sul lutto rimangono senza risposta, perché la realtà non può darsi come meccanica precisa, eppure avere la forza di porsele è l’unico modo per andare avanti.

Non c’è solo la famiglia nel romanzo della Marchelli: c’è anche l’intersezione fra generale e particolare. Il particolare è una famiglia alla deriva, il generale è composto dai luoghi che abita, dal brodo di coltura che l’ha generata. Allora alla narrazione sincronica del dolore si sovrappone il piano diacronico dei luoghi abitati da Michele e Larissa: l’Italia in cui Mirko è voluto tornare, la New York della gioventù che si trasfigurata nel città caotica della contemporaneità, la cafonaggine delle cime turistiche di Courmayeur in cui si consuma l’incontro fra la famiglia di Mirko e la sua amante segreta. E ancora i saperi che Michele ha cercato di trasmettere al figlio, le teorie che nella loro complessità non riescono a spiegare le emozioni umane. Si parla tanto in questo libro: storia, teoria dei giochi, nozioni di geografia. La cultura diviene uno scudo in cui annullarsi, una monade da cui sfugge sempre l’elemento irrazionale dell’umano.

Chiara Marchelli costruisce una storia sul vuoto, un vuoto che non ha risposta ma che genera una miriade di frattali: sono i lacerti della vita quotidiana che dobbiamo affrontare, i lutti che irrimediabilmente ci troviamo a incontrare nel nostro percorso. Dunque è meglio prepararsi, senza scendere nel patetismo e senza però dimenticarsi del gradiente emotivo delle nostre biografie, una componente di quieto sentimento che Marchelli non manca di rendere sulla pagine, e che rivela il nucleo ultimo di questa preziosa narrazione.

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