Skip to main content

«L’uomo che saliva sul treno doveva essere qualcuno di terribilmente malato.»

Nonostante l’assurdo riesca già a trovare uno spazio in cui insinuarsi, I vagoni rossi, racconto di Stig Dagerman (Via del Vento 2011, traduzione e cura di Marco Alessandrini) inizia in un contesto abituale, all’interno di una stazione ferroviaria.

Il controllore dà un calcio a un pezzo di ghiaccio, provocando un crepito stridente, e subito il «presunto malato» ha un forte sussulto, per così poco perde totalmente il dominio di sé, facendo cadere un portamonete, un mazzo di chiavi e un biglietto: tutti segnali evidenti di malattia, una terribile malattia.

L’io narrante è forse un passeggero ordinario, certamente munito di biglietto; possiamo immaginare che il finestrino del vagone sia abbassato, si può sentire il blocco di ghiaccio che si frange contro le rotaie, si può vedere la fibbia della ragazza a bordo del treno e udire la sua piacevole risata. Godiamo di una prospettiva privilegiata.

ivagonirossi

«Un volto di un pallore malsano, labbra tese come corde, spalle penosamente schiacciate, uno sguardo risucchiato al fondo delle orbite da magnetici segreti, mani sottili e bianche che con pena si aggrappavano allo sportello.»

L’uomo malato provoca negli altri più una curiosità divertita che una reale indulgenza e, a chi tenta di aiutarlo, risponde con reazioni violente e ingiustificate. Solo il controllore prova tenerezza per lui: vorrebbe sollevargli le spalle, riuscire a proteggerlo dal suo segreto. Una compassione destinata a finire nel momento in cui anche lui — uomo perbene e ligio al dovere — si rende conto di dover difendere la propria reputazione, di dover ottemperare ai propri obblighi, di dover dimostrare che la fiducia che i passeggeri hanno nei suoi confronti è ben riposta. Mostrarsi debole e comprensivo potrebbe rivelarsi pericoloso.

In poche battute, Stig Dagerman è in grado di rappresentare il mondo intero: al centro del racconto ci sono persone ordinarie — nessun essere abietto tra i presenti — che fanno cose del tutto normali, ma che vanno a collidere con il senso di umanità. È come se la società fosse congegnata in modo tale che fare il proprio dovere sociale e civico vada in direzione contraria alla naturale solidarietà tra uomini: salvaguardare le etichette e costruire la propria posizione sociale impedisce di vedere al di là del proprio interesse.

Certo l’uomo malato non è un tipo che si lascia avvicinare con facilità, irascibile com’è. La sua condizione è sotto gli occhi di tutti, eppure la ragazza sembra addirittura beffarsi del fatto che lui abbia perso i documenti. Tutti si guardano tra loro, tutti sanno, qualcuno è più sensibile di altri, ma nessuno ha il coraggio (la forza, la volontà?) di agire.

Ed ecco che si torna subito alla normalità, alla formalità.

Qualcuno lo strattona, in «una presa dolcemente persuasiva, amabile, ma con una sfumatura d’impazienza», è solo questione di sfumature: sfumature sono quelle che distinguono un atto di gentilezza da uno scorbutico, così come sfumature sono quelle che distinguono un uomo buono da uno spregevole.

L’uomo malato si flette nel suo corpo schiacciato dal dolore e chiede ragioni di quello che gli è sembrato un terribile e assurdo sfogo di rabbia: «“Mi dica” domandò al controllore “perché d’un tratto ha sferrato un calcio contro quel pezzo di ghiaccio?”».

Si tratta di una domanda semplice, lineare, espressa con un linguaggio limpido, ma il controllore è colto totalmente alla sprovvista, non sa dare giustificazione di un atto che egli stesso ha commesso poco prima.

Perché aveva sferrato il calcio? Che assurdità di domanda. Chiedendosi la ragione della propria azione, il controllore acquista una nuova consapevolezza di ciò che lo circonda, guarda gli elementi del paesaggio che ha visto milioni di volte sotto una luce diversa, come se la colpa di un atto inconsulto fosse da attribuire al non aver visto prima, al non aver considerato, al non aver saputo guardare veramente.

La disattenzione al panorama circostante si specchia nella mancanza di attenzione nei confronti del prossimo. Di fronte a questa nuova verità, i muscoli della dignità si tendono fino all’estremo «davanti a quell’uomo che certamente era malato, poi gli voltò le spalle ed entrò nel compartimento per forare i biglietti. Forare. Forare. Forare».

Il presunto malato, Helge Samson, non era quel che si dice propriamente un uomo malato. Lavorava in un seminterrato in mezzo a partite di tessuti — così si poteva giustificare il colorito pallido; le spalle strette, invece, erano una caratteristica che poteva addirittura tornare utile nel lavoro in un piccolo magazzino. Fino alla manifestazione del morbo, la sua condotta sul luogo di lavoro era stata esemplare, nessuno aveva notato comportamenti anomali. La malattia che lo aveva afflitto era la scoperta della dimensione del male, come l’aveva battezzata: a partire da una singola visione avuta nel mezzo della notte, aveva iniziato a scorgere ovunque le manifestazioni del male e a vivere in uno stato di tensione e di angoscia permanenti.

Era la rivelazione del male che aveva scovato Helge, non viceversa: un treno merci diretto a sud, destinato al trasporto di legna, lo risvegliava nel cuore di ogni notte risalendo il pendio su cui la sua stanza si affacciava. Per più di mezz’ora, il soffio della locomotiva penetrava nella camera fino a riempire il suo corpo.

Sembrava un treno disabitato, con gli sportelli serrati e le carrozze sfavillanti nel buio. Prima di quella notte la sua corsa era solo un fastidio che gli interrompeva il sonno. Puntando un binocolo verso il treno, però, aveva notato alcuni dettagli della locomotiva che prima non aveva visto: sulle fiancate di ciascun vagone, qualcuno aveva disegnato, con una pittura rosso scuro, delle linee insensate, che parevano ora onde, ora cerchi, ora reticoli… disegni apparentemente assurdi, che forse proprio per questa insensatezza avevano turbato la vita di Helge.

«Era come se al posto della vista, dell’udito e del tatto avesse ricevuto un canale sensoriale capace di scovare tutte le espressioni dell’esistenza del male, svelandole in maniera infallibile. Ovunque, poteva leggere la conferma di ciò che aveva scoperto durante la notte»: un ratto sventrato, un passero morto appeso dalle zampe, un cucchiaino di zucchero scomparso sono solo alcuni segni di questa orribile certezza.

Nemmeno cambiare stanza riesce a cambiare le cose, l’angoscia cresce imperturbabile con i battiti del cuore e lo sferragliare della locomotiva sui binari. La dimensione del male lo insegue anche sul luogo di lavoro e lo spinge a comportamenti bizzarri, finché viene messo alla porta per tre volte: dal direttore, dal contabile e dalla signorina Lager.

Non esiste più alcuna «possibilità di riabilitarsi davanti all’irrealtà dell’irreale»: Helge avverte l’intensità della vita circostante come un coltello che affonda nel suo cranio. Alla vista dei vagoni rossi anche il sentore di primavera, i suoni, i colori, i profumi gli creano terrore e un senso di estraneità tra la gente incosciente di tutto ciò che lo attanaglia.

«Occorre che vittime dei loro desideri da esaudire siano sempre coloro che non hanno bastone da passeggio, i solitari dalla pelle fragile, dalle spalle schiacciate e che si mangiano le unghie, persone sopravviventi, loro malgrado, a cui mai verrebbe in mente di reclamare qualche cosa. I grand’uomini ritti nelle loro poltrone, intenti a sorseggiare acquavite sopraffina, si lamentano del fatto che i segni sono troppo tenui perché loro possano vederli, ma in realtà non riescono mai a diventare abbastanza veggenti, e quando poi questi segni s’impongono, al punto che anche i più egocentrici lo notano, è sempre troppo tardi, da molto tempo.»

Helge è un uomo solo, sempre confinato in un angolo, sempre costretto ad abbassare la testa. È un esponente della società degli invisibili, che solo nella sua scoperta vede l’unica possibilità di rialzarsi; è un lampo improvviso, un colpo di genio che gli suggerisce l’unica via d’uscita.

I vagoni rossi è una breve e perfetta esemplificazione dell’ingiustizia sociale. Le persone che bevono acquavite, comode nelle loro poltrone, sono le stesse che non possono tollerare il ritardo di un treno, che sbuffano nell’attesa non prevista nella sala d’attesa di un medico o di una coda snervante alle poste. Sono persone assolutamente normali — siamo noi —, ma «non possono assolutamente attendere», convinte che il loro tempo, la loro stanchezza e i loro impegni valgano più di quelli degli altri, dove gli altri sono percepiti come un blocco unico, una massa indefinita che si oppone a loro, e non come un insieme di singoli con tempo, stanchezza e impegni proprio uguali ai loro. Le costrizioni avvertite dall’animo sensibile di Helge, così come da quello di Stig, sembrano risiedere all’esterno ma provengono in realtà dall’interno, dalla stessa natura umana. La parola e la scrittura sono le uniche forze in grado di combattere la cecità emotiva che ha origine nel momento della fondazione di una società.

In Il nostro bisogno di consolazione, Dagerman scriveva: «L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo». Facciamogli questo piacere postumo: troviamo un’ora nelle nostre vite impegnatissime, leggiamo queste trenta paginette e cerchiamo, finalmente, di capire il messaggio che ha voluto donare al mondo.

13 Comments

Leave a Reply