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«Pensai che tutte le generazioni erano perdute per una cosa o per l’altra.»
Ernest Hemingway, Festa Mobile

«Così nascono, preziosa e fugace schiuma di felicità sopra il mare della sofferenza, tutte le opere d’arte nelle quali un uomo che soffre si innalza per un momento tanto al di sopra del proprio destino che la sua felicità brilla come un astro e appare a chi la vede come una cosa eterna, come il suo proprio sogno di felicità.»
Herman Hesse, Il lupo della steppa

«Chi vuole battersi?» credo sia la battuta con cui Woody Allen riassume meglio quel particolare machismo letterario di cui (forse più a ragione che a torto) viene costantemente accusato Ernest Hemingway da una parte della critica e del pubblico: Midnight in Paris (2011) gioca infatti proprio con la superficie e il superficiale, cioè con questa particolare stereotipizzazione che ha immobilizzato la generazione di artisti degli anni Venti nell’immaginario comune. E così Gil Pender (Owen Wilson) nel suo viaggio a ritroso nel tempo si imbatte dapprima con i coniugi Fitzgerald, tanto ubriachi quanto mondani, per poi ascoltare le divagazioni di Dalì sulla possibilità di rendere i rinoceronti esclusivo soggetto pittorico e infine, ogni qual volta sembra avere una preoccupazione morale, in Hemingway: o meglio nel citazionismo in cui viene volutamente ridotto dalla pellicola.

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Anche in Genius (2016) Michael Grandage sceglie di rappresentare Hemingway attraverso una macchietta: sebbene compaia in una singola scena e benché non ci troviamo di fronte al macho di Allen, tuttavia il personaggio viene liquidato brevemente come qualcuno che non abbia nemmeno il tempo di rivedere assieme al proprio editor le bozze del suo romanzo, perché costantemente in viaggio; nemmeno arriva a New York cioè, che già deve ripartire, così che Maxwell Perkins è costretto a incontrarlo lungo il molo. E assieme, Hemingway ci viene mostrato come colui che non prende troppo sul serio la critica americana, tanto da suggerire a Perkins che il motivo principale per cui Fitzgerald non riesce più a scrivere è quello di avere creduto a quanto veniva scritto su di lui di volta in volta sulle riviste di settore.

Alla costruzione di una simile immagine di sé sembra avere contribuito Hemingway stesso in più di uno dei suoi romanzi o racconti e attraverso la sua immagine pubblica: basti pensare per esempio al fatto che decise di farsi chiamare Papa quando divenne uno scrittore famoso. Eppure tutto quello che abbiamo detto fino a ora non regge il confronto con la vita privata. Prendiamo allora Festa Mobile, il diario in cui lo scrittore racconta con sincerità (e forse per questo il libro non venne mai dato alle stampe finché era in vita) della vita squattrinata e felice con la prima moglie Hadley nella Parigi degli anni Venti: eccoci davanti a una persona completamente diversa.

Scopriamo anzitutto che Hemingway conosce bene il duro lavoro: ogni mattina si alza alle otto e scrive fino all’ora di pranzo – rilegge, corregge. Compone con velocità e sciatteria solo gli articoli di giornale, che gli servivano per guadagnare qualcosa non avendo ancora pubblicato niente. Persino il diario riporta più stesure di uno stesso capitolo. E proprio l’impegno nello scrivere, il farne una professione, ribalta la definizione che accomuna tutti (o quasi) gli artisti degli anni Venti: quella che li definisce come una Generazione Perduta. In Festa Mobile Hemingway ci fa sapere che in realtà era stato il capo-meccanico di una officina a definire in quel modo uno dei suoi operai che non era riuscito a riparare per tempo la macchina di Gertrude Stein e che poi la donna aveva associato quella particolare mancanza di serietà a una condizione esistenziale comune a tutta la generazione di cui lo scrittore faceva parte. Leggiamo infatti da Une Génération Perdue:

«Il patron gli aveva detto: “Siete tutti una génération perdue”. 
“Ecco che cosa siete. Ecco che cosa siete tutti quanti” disse Miss Stein. “Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta.”
“Davvero?” dissi io.
“Sì” insistette lei. “Non avete rispetto per niente. Vi uccidete a forza di bere…”
“Quel giovane meccanico era ubriaco?” chiesi.
“Certo che no.”
“E me mi hai mai visto ubriaco?”
“No. Ma i suoi amici si ubriacano.”
“Anch’io mi sono ubriacato” dissi io. “Ma non vengo qui ubriaco.”
[…] Pensavo a Miss Stein e a Sherwood Anderson e all’egotismo e alla pigrizia mentale contrapposti alla disciplina e pensavo chi è che chiama chi una generazione perduta?»

Forse Hemingway perduto lo era davvero, ma in modo diverso. Resta il fatto che Fitzgerald riconobbe nel lavoro di quest’uomo qualcosa di molto simile alla propria disciplina nella scrittura: riconobbe cioè in lui professionalità, accuratezza nel dettaglio, capacità di tagliare il superfluo. E grazie alla mediazione di Fitzgerald con Maxwell Perkins, Hemingway riuscì finalmente a pubblicare per la prima volta una raccolta di racconti con la Scribner’s Son: The Torrents of Springs. Entrambi (eccetto piccole occasioni) rimarranno poi fedeli per tutta la vita alla casa editrice.

Ma torniamo alla questione del machismo: in Piaceri segreti o in L’educazione di Mr. Bumby è già evidente come Hemingway si ponga in una totale (e provocatoria) opposizione nei confronti della cultura dominante. Se però Festa Mobile rimane una scrittura privata, è con il primo romanzo che lo scrittore si scopre pubblicamente: Fiesta (Il sole sorgerà ancora), (Scribner’s, 1926) ripubblicato recentemente all’interno degli Oscar Moderni nella traduzione di E. Capriolo. Qui leggiamo apparentemente la storia di un gruppo di sbandati che tra una bevuta e l’altra si reca a Pamplona per assistere all’Encierro, cioè alla annuale corsa dei tori per le strade. Ma ancora più a fondo siamo di fronte a una critica di gender: la mancata storia d’amore tra Jake Barnes e Lady Brett Ashley.

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Jake e Lady Brett non possono stare insieme, perché il primo durante la guerra ha riportato una grave ferita all’inguine che lo ha reso impotente. L’unica possibilità per loro sarebbe una relazione privata dell’atto sessuale, a cui tuttavia Lady Brett non vuole (o non riesce) a rinunciare. Credo che la riflessione di Hemingway sia qui davvero ampia: per prima cosa viene messo in gioco il concetto errato di virilità. La rimozione del fallo, o come vogliamo chiamarla, priva Jake Barnes della possibilità di dimostrarsi uomo virile: a livello personale, questo permette al personaggio di comprendere la fallacità di una simile costruzione sociale. A Jake Barnes cioè non importa niente di non essere virile, ciò che gli importa invece è il sentimento che lo lega a Lady Brett. Hemingway rappresenta la donna come una flappers, cioè una maschietta, quel movimento spontaneo che attraverso una volontaria e sfacciata attitudine libertina cercava di liquidare una visione della donna costrittiva e precostruita e insieme di conquistare il diritto «a comportarsi come un uomo in società» – cioè a cancellare ogni subordinazione comportamentale tra uomo e donna nella vita pubblica e privata. E così anche Lady Brett porta i capelli corti, beve smoderatamente e vive liberamente la propria sessualità. Eppure Hemingway sembra volerci dire ancora qualcos’altro: benché i personaggi principali siano riusciti ad andare oltre determinate costruzioni di genere e sociali, queste continuano a vivere in modo inquietante dentro di loro. E ancora di più, l’importanza che la nostra società dà all’atto sessuale in sé (anche se svirilizzato) come elemento identitario.

Così alla fine la mancanza di virilità anziché liberazione identitaria, diventa uno stigma sociale: tutti i personaggi anzi sembrano intrappolati verso una tensione alla virilità, tanto quanto cercano di allontanarsene. Tutto il romanzo appare imperniato intorno alla lotta tra l’interiorizzazione di una determinata costrizione o imposizione identitaria da parte della società e il tentativo di ciascun personaggio di disinteriorizzarla individualmente. Robert Cohn per esempio diventa pugile per contrastare il bullismo che ha subito da bambino per il solo fatto di essere ebreo; cerca cioè di rispondere a una forma di razzismo rafforzando la propria virilità. Tuttavia, proprio il carattere timido e introverso di Robert finirà per renderlo vittima delle prepotenze psicologiche della moglie, invece che facilitare il dialogo tra i sessi. Lady Brett rimane affascinata da Pedro Romero, il giovane e virile torero che si contrappone a Jake Barnes – anche se poi tornerà da lui. E lo stesso Barnes, per qualche motivo, si pone al seguito di Michael Campbell, l’uomo virile e gradasso per eccellenza.

Ecco allora che la corsa dei tori si pone come una metafora che si apre a molteplici significati: il toro potrebbe rappresentare una illusoria virilità naturale; o ancora la corsa del toro, la capacità di una costrizione sociale di resistere a qualsiasi tentativo di rimozione da parte degli uomini; o infine, capovolgendo l’immagine, la carica fallimentare del toro contro gli uomini, il tentativo di rimuovere la costrizione sociale rappresentata dagli stessi uomini e dalla festa tradizionale. L’edizione inglese a cura di J. Cape del 1927 cambiò addirittura il titolo del romanzo da The Sun also Rises a Fiesta, quasi che volesse concentrare l’attenzione del lettore proprio su questa metafora. Certo: il suicidio di Hemingway dimostra che doveva esistere dentro di lui una rassegnazione profonda verso l’esistere, che si palesa fortemente fin da questo romanzo. A prescindere da come si voglia leggere la metafora della corsa del toro, siamo davanti a un’immagine di rassegnazione o quanto meno di disillusione verso la possibilità per la creatura umana di cambiare e di migliorarsi davvero. Eppure credo che Hemingway, con il titolo originario, volesse darci una visione diversa. Non è forse la mazza del poliziotto che avvicina Brett a Barnes alla fine del libro?

«“Oh, Jake” Brett disse. “Noi due saremmo stati così bene insieme.”
Di fronte a noi su una pedana, un poliziotto in kaki dirigeva il traffico. Alzò la sua mazza. La macchina improvvisamente rallentò, spingendo Brett contro di me.
“Già” dissi io. “Non è bello pensare così?”.»

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