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È il primo boccone per l’assaggiatrice Rosa Sauer. Come per tutti i tedeschi, fame e paura hanno segnato gli ultimi anni per lei, giovane moglie, segretaria berlinese con il marito al fronte, la madre morta sotto la pioggia di bombe degli Alleati su Berlino, è il 1943, lei ha pensato di trovare riparo presso i suoceri in campagna, è giunta da poco a Gross-Partsch, nella Prussia orientale. Quando porta la forchetta alla bocca, Rosa non obbedisce soltanto all’ordine dell’SS: «Mangiate!»; obbedisce al vuoto che nello stomaco l’incertezza e le privazioni della guerra hanno scavato.

Fame e paura, prima; nutrimento e paura, poi: perché Rosa Sauer è, insieme a nove altre giovani donne, destinata a cibarsi del cibo di Hitler, cavia di veleni, scampata alle bombe soltanto per finire nella Tana del Lupo, letteralmente, la Wolfsschanze. E tuttavia già nel primo boccone sente il sangue fluire sino alla radice dei capelli, sino alle dita dei piedi, il battito del cuore che rallenta. È una fortuna, in tempo di guerra, prendere tre pasti al giorno, godere di piatti elaborati e persino dei dolci. Quindi viene la digestione: un’ora sotto chiave, in attesa della morte possibile, a pancia piena. Nella caserma di Krausendorf si rischia di morire ogni giorno ma forse, considera Rosa, in fin dei conti non più di quanto rischi chiunque sia vivo.

Postorino

La minaccia incombente della morte per avvelenamento, dunque. La tossina che penetra i tessuti e si diffonde dal tubo digerente a ogni cellula terminazione nervosa muscolo, stravolgendolo di crampi, lo stesso tubo digerente che si ribella per espellerla con il vomito, con l’urina, con la diarrea. È squallido, il corpo. È però il minimo comun denominatore, la particella non trascurabile di umanità residua che affratella dominato e dominatore, dittatore e suddito. Così ha coerentemente posto l’evocazione (non è mai in scena, anch’egli minaccia incombente) un Hitler patetico – ma non per eccesso di caratterizzazione, al contrario: per evidenziazione delle sue debolezze fisiche, il rifiuto della carne, i baffetti coltivati perché il volto appaia meno femmineo, la predilezione per i dolci, la rievocazione delle sue marachelle infantili.

Non è un lavoro come un altro, questo, che mette insieme il privilegio della sazietà e l’angoscia dell’avvelenamento, e non è un luogo come un altro, quella caserma nascosta da cui l’uomo che incarna il Male assoluto manda i suoi ordini ringhiosi. Ma tutto lo spazio (così come il tempo) è claustrofobico, in Le assaggiatrici (Feltrinelli) di Rosella Postorino. Nella caserma vengono dapprima condotte tre volte al giorno (per colazione, pranzo e cena) e poi trasferite, dopo l’attentato fallito di Stauffenberg, quasi prigioniere, Rosa, Elfriede, Leni e le altre. Si sforzano di adattarsi, modellando la normalità delle relazioni a quell’esistenza coatta e di continuo sollecitata. È partendo da qui che, come racconta in alcune interviste, l’autrice ha ragionato e costruito il romanzo: come si sarebbe comportata una donna in trappola, costretta a colludere controvoglia con il male e ad abbracciare per la propria salvezza una colpa più grande di lei e accidentale?

La vicenda discende dalla storia di Margot Wölk (qui e qui due articoli del 2013 che ne davano notizia), materia nuda e già ricca di elementi per un romanzo storico: la guerra, il nazismo, il marito soldato disperso, le SS, la Wolfsschanze, l’operazione Valchiria, lo stupro, la fuga. L’invenzione autoriale di Postorino è un gesto di libertà che sottrae il libro al genere. L’esattezza della ricostruzione è mantenuta; l’attenzione ai dettagli emerge con estrema naturalezza; aneddoti sul Führer, strofe di canzoni tedesche, ninne nanne lasciano intravedere la profondità e la cura della ricerca, ma non risolvono da soli l’opera d’arte. Che è, né più né meno, uno studio sull’essere umano, e la sua capacità di sopravvivenza, sull’umanità, la sua negazione e il suo contrario.

Il fondamento dell’umano è il corpo, sembra dire Postorino. Nella nobiltà delle sensazioni come nella quotidiana funzione e nella bassezza delle deiezioni. La merda, dice Gregor, la merda, ripete Rosa, è la prova che dio non esiste. Non la guerra, non le morti brutali, non le privazioni a cui un uomo può costringere un altro, né le menomazioni che un popolo infligge a un altro. La merda. Che è come inscrivere nell’umano la negazione del divino, riportare il male – sì, persino il male assoluto – al grado zero dell’umano, consustanziarlo all’umanità. Allora ha senso che le dinamiche tra le assaggiatrici sembrino declinate secondo le naturali cattiverie, le naturali predilezioni, gli screzi di un mondo e di una situazione normali. Questo è l’uomo, ridicolo, sporco, digerente, nobile, meschino. Sono i minimi termini dell’umano, attraverso i quali la scrittura di Postorino dà vita a un romanzo sensuoso, corporale. Esemplare in tal senso il primo flashback di Rosa, che rievoca la prima notte d’amore con il suo Gregor: «Mi aveva accarezzato piano le labbra, ne aveva disegnato il perimetro, poi aveva premuto il polpastrello sempre più forte, fino a scoprire i denti, aprirmi la bocca, ficcarci dentro due dita. Le avevo sentite asciutte sulla lingua. Avrei potuto serrare la mandibola, morderlo». Per poi concludere: «Questo era l’amore: una bocca che non morde». Altro tenore, tutt’altra esperienza dell’amore farà Rosa con Albert Ziegler, comandante della Tana del Lupo: un desiderio che passa per l’insistenza muta degli sguardi e la rabbia degli amplessi e che tuttavia cova una tenerezza di sussurri e coccole.

Nella costruzione del personaggio si vede un passato ricco di particolari, non tanto e non solo negli eventi, la cui tessitura quasi quotidiana si intuisce, quanto nelle emozioni, che sono la struttura del ricordo e dunque dell’identità. Nei suoi libri precedenti (penso a Il corpo docile ma anche a L’estate che perdemmo dio), la terza persona del narrato era interrotta da inserti in prima persona che squarciavano la continuità narrativa, aprendo prospettive di percezione più ampie; qui invece l’utilizzo della prima persona è costante (una prima persona che non si risparmia). Si è trattato, per la scrittura di Le assaggiatrici, del sacrificio di una cifra stilistica o invece di una scelta naturale?

Quando scoprii che Margot Wölk, la donna cui è ispirata la mia protagonista Rosa Sauer, era morta e che quindi non l’avrei mai incontrata, pensai che non avrei potuto raccontare questa storia, anche se mi aveva prepotentemente chiamata a sé nell’esatto istante in cui l’avevo per caso incrociata. Io non ero tedesca, non avevo vissuto la guerra, e non avevo nemmeno potuto parlare con lei, per sapere tutto: di ciò che concretamente accadeva, di come lei si sentiva, di come quell’esperienza l’aveva segnata. C’era una questione tecnica, diciamo così, ma soprattutto c’era una questione etica. Avevo il diritto io di raccontare la sua storia? Il punto era che quella storia non mi aveva soltanto chiamata a sé, mi aveva proprio chiamata in causa. Cosa avrei fatto io al suo posto? Chi avrebbe potuto garantirmi che non sarei diventata colpevole a mia volta senza nemmeno sceglierlo? Che non mi sarei giustificata dicendo che in fondo stavo solo mangiando, un gesto innocuo?

A lungo mi sono interrogata su cosa avrei dovuto fare del mio incontro – mancato, ma pur sempre un incontro – con Margot Wölk. Avrei potuto raccontare questo fallimento, e indagare i motivi della mia ossessione per la sua vicenda, mettere in scena un corpo a corpo fra me e lei, fra una scrittrice e una persona reale che, morendo, togliendosi di scena, non si lasciava trasformare in personaggio e tuttavia (forse anche e proprio per questo) nella mia testa lo era già diventato.

Poi ho pensato che si trattava di paura. E che, se davvero volevo scoprire perché quella storia mi riguardasse, avrei dovuto raccontarla con l’unico mezzo a mia disposizione, e cioè la narrativa, l’invenzione romanzesca. E che avrei dovuto farlo senza risparmiarmi, con una certa nudità. Ecco perché ho deciso che l’avrei raccontata in prima persona.

Io trovo più facile scrivere in terza, e in genere i miei romanzi (a parte La stanza di sopra, in cui il cambio di persona è più vorticoso) sono in terza con un punto di vista interno, e con alcune incursioni della prima persona come una sorta di zoom. La prima persona è un’apertura, uno scarto, una discesa verticale, una voragine dentro la terza.

In questo caso invece io avrei dovuto parlare con la voce di una donna tedesca che lavorava alle dipendenze del Führer, che salvaguardava la sua vita. Dovevo diventare quella donna, calarmi nella sua testa, nel suo corpo, nella sua quotidianità, senza mediazioni di sorta. La mia voce doveva essere la sua. Dovevo diventare Margot Wölk, anzi Margot Wölk doveva entrare in me, diventando un personaggio d’invenzione che avrei potuto essere io se fossi vissuta nel Terzo Reich, con un marito al fronte, una casa bombardata, e a pochi chilometri dalla Tana del Lupo. Questo personaggio doveva dire io, e chiamarsi Rosa, come me.

Lei è una scrittrice sensibile al tema della coercizione, alla connessione, piuttosto fluida che cristallizzata, che si instaura tra i desideri di libertà e le pulsioni di sottomissione. In questo romanzo è possibile ascrivere più di una relazione a questo tipo di tensione (penso ovviamente a Rosa e Ziegler ma anche a Rosa e Elfriede). Mi sembra tuttavia che si possa parlare proprio di una coincidenza tra corpo e carcere, laddove il corpo è il limite, il confine che ci definisce. Che peso ha, nel laboratorio della sua scrittura, questa interpretazione della corporalità?

Non so se si possa parlare di «pulsioni di sottomissione», se non in un senso lato, metaforico. A un certo punto Rosa dice: «Sembravamo tutti consenzienti, in Germania». E Augustine, una delle assaggiatrici, criticando l’atteggiamento secondo lei prono al potere (maschile) di una compagna, cita il Führer quando sostiene che la massa sia come le donne: ha bisogno di un dominatore. Dal suo canto, Rosa arriva a dire che «sottomettersi è più facile che soggiogare. Non è la massa a essere come le donne, ma il contrario».

Così, nel momento in cui Rosa risponde al desiderio di Ziegler, sembra farlo come a una convocazione: analoga a quella che una mattina l’aveva trasformata in un’assaggiatrice di Hitler, semplicemente perché questo le SS avevano stabilito. Ma, almeno in principio, non c’è piacere nella risposta al desiderio di Ziegler, l’uomo che dirige la caserma in cui lei e altre nove donne sono ridotte a cavie, un uomo che ha quindi un potere conclamato su di lei: c’è resa. Rosa ha la sensazione che, da quando è arrivata in Prussia orientale, tutti riescano a farle fare ciò che vogliono, contando sulla sua assenza di ribellione. Fa di tutto per sopravvivere, come se non potesse evitarlo, ma contemporaneamente si domanda perché, e per chi, dove stia il senso di tanta umana ostinazione, se siamo tutti programmati per morire. Quando le sembra di non avere più nulla da aspettare, da progettare, quando la vita è ridotta al presente forzato della sopravvivenza, al meccanismo fisiologico di mangiare digerire espellere le scorie del pasto, quando la vita si ferma, insomma, quel che Rosa prova è più una pulsione di morte, che di sottomissione.

Un’inclinazione alla morte che consegnarsi al volere di Ziegler potrebbe assecondare. Invece, proprio dentro quello sguardo che la vede, addirittura la fissa, lei ricomincia a esistere. È un evento. Una curva che increspa la linea retta cui è ridotta la sua esistenza. Nel contatto con il corpo di Ziegler, il corpo di Rosa smette di essere «autarchico» e ricomincia a significare. Ma quella relazione, per quanto inscindibile dai ruoli di ciascuno dei due, dove Ziegler ha potere su di lei, sua sottoposta, in realtà ha la forza di una rivolta, per entrambi. Una rivolta privata, clandestina, persino incosciente, una rivolta in sordina, tutt’altro che eroica. Una forma di resistenza agli schemi in cui entrambi – non solo Rosa, ma anche il tenente delle SS – sono intrappolati. Una volta nudi, spogliati del ruolo, i due intessono una relazione in cui il rapporto di potere, almeno quello sociale, a tratti sparisce; in cui la dipendenza è reciproca; in cui Rosa non sente forme di soggezione, tranne quando il ruolo di entrambi torna a irrompere. Una relazione in cui è addirittura lei a negarsi quando lui vorrebbe essere ascoltato, confessarle l’inconfessabile.

Accade così che il progressivo mischiarsi di Rosa con il male passi per il corpo non soltanto perché il suo corpo è attraversato dal cibo di Hitler, ma anche perché desidera, tocca e si fa toccare dal corpo di un nazista.

Nei miei romanzi il corpo è confine invalicabile, cesura, separazione dall’altro. In questo senso, sì, è gabbia dalla quale non è possibile uscire, che rende ogni comunione illusoria. Solo il corpo dentro il corpo, cioè la gravidanza, realizza l’idealistica tensione fusionale dell’amore. D’altra parte il corpo è anche lo spazio del contatto, è dunque suscettibile di violenza ma anche di conforto. Proprio perché ogni gesto compiuto sul corpo può potenzialmente violare o lenire, ogni contatto, ogni relazione, richiede una fiducia nell’altro che nei miei personaggi non è mai definitiva. Come a dire che portare in dote un corpo è sempre un rischio. D’altronde, inevitabile. Il desiderio, rottura dell’equilibrio per eccellenza, scacco di ogni comunità, diceva Blanchot, è sorprendente proprio perché in esso si arriva a idolatrare qualcosa che è destinato a marcire, cioè il corpo dell’altro.

Dal momento che ragiona attorno al corpo, la mia scrittura tende a renderne conto il più possibile, tentando di captarne odori, fastidi, debolezze, miserie, variazioni anche minime di stato. È nelle reazioni del corpo che si traduce la psicologia dei miei personaggi.

«Non merito nulla a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono.» Così dice, a un certo punto, Rosa Sauer. La colpa (e l’inevitabile castigo) è uno dei temi del romanzo. Nella situazione fuori dall’ordinario che la protagonista si trova a vivere sembra che tutto sia contaminato dal male e che ribellione e accettazione non siano mai definitive né realmente liberatorie. È forse possibile, ancora più raggelante, che non si diano esistenza, relazioni, sentimenti puri e innocenti, liberi da colpa? Che l’amore sia, per natura, contraddittorio e macchiato?

Il male non è un’ingiunzione che arriva dall’alto, che cade sui personaggi come la pioggia o una maledizione, e li bagna o condanna. Non ha nei miei romanzi consistenza ontologica, così come non ne ha il bene: semplicemente, si produce nelle cose. Si produce dentro i gesti, dentro la complessità insita nelle relazioni, dentro la difficoltà di scelta o dentro il non avere scelta, si produce nell’accumularsi di contingenze che determinano i singoli comportamenti e il modo in cui si intersecano con i comportamenti altrui. Esiste il male deliberato, sistematico: Hitler lo rappresenta nella Storia meglio di chiunque altro. Ed esiste il male come conseguenza di azioni non deliberatamente malvagie, ma innegabilmente colpevoli.

Ecco perché non so individuare fra le cose terrene una condizione che potrei definire purezza o innocenza. Quasi tutti i miei personaggi ereditano una colpa non loro, una specie di peccato originale. È vero che Rosa eredita Hitler dalla generazione dei suoi padri – non dal proprio padre, che era ostile al Nazismo – ma compie una colpa in prima persona, sebbene senza sceglierlo, sebbene in modo accidentale, sebbene lo faccia perché è costretta. Mangiando il cibo di Hitler diventa un ingranaggio di un sistema più grande e disumano, non importa quanto sappia o ignori di quel sistema. Il sistema la vittimizza, la deumanizza, la sacrifica, ma lei non può non considerarsene complice, a maggior ragione perché gode dei privilegi che le concede. La sua non ribellione, la sua ignavia sono colpevoli? Sì, lo sono. L’atteggiamento inerte di fronte all’ingiustizia, il sopravvivere mentre altri soccombono, è una colpa: metafisica, direbbe Jaspers. Ma mettendosi totalmente nei suoi panni, chi può essere certo che al suo posto avrebbe agito da eroe? A me non interessa il giudizio: come Primo Levi, non conosco tribunale umano cui delegare la misura di questa colpa. Mi interessa raccontare gli esseri umani in cattività, corpi traditi dal potere di una macchina totalitaria.

Quindi, per rispondere alla domanda, non è l’amore a essere macchiato, ma la vita stessa, che nasce corrotta. È la sua inevitabile, progressiva decomposizione: «Davanti al creato», dice Rosa, «Dio contempla lo sterminio».

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