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Questa intervista del 1982 di Bradford Morrow a James Purdy è uscita su Conjunctions ed è stata tradotta da Leonardo Neri per Altri Animali. Ringraziamo la rivista e l’intervistatore per la gentile concessione.

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La seguente intervista col romanziere e drammaturgo James Purdy è stata condotta in due momenti, il primo nel cuore della notte sorseggiando cappuccino in una piccola caffetteria della Seventh Avenue, il secondo in pieno giorno mangiando sogliola e okra fritta in un ristorante all’ombra del ponte di Brooklyn.

BRADFORD MORROW: Quando hai cominciato a scrivere quali autori leggevi e chi ti ha influenzato?

JAMES PURDY: Unamuno ha avuto una certa influenza per la capacità di includere soltanto gli elementi essenziali. Anche Hemingway, quantomeno tecnicamente, sempre per la capacità di escludere così tanto. Sherwood Anderson. Ho sempre sentito una stretta affinità con Whitman e Melville, anche se tutti mi dicono che è impossibile. Soprattutto in Melville, le tensioni tra uomini in isolamento e la megalomania, per esempio la megalomania in Pierre, Moby Dick, in Billy Budd e L’uomo di fiducia mi è subito parsa significativa. E poi anche James Fenimore Cooper. Sapevo che era il mondo a cui appartenevo.

BRADFORD MORROW: Qual è stata l’influenza di Sherwood Anderson?

PURDY: L’isolamento nel suo lavoro, il vernacolo da cittadina. Quando Marianne Moore ha detto che ero un maestro del vernacolo americano è stato molto bello perché anche allora brancolavo nel buio e non sapevo chi ero. Anderson ha scritto un racconto magnifico, L’uomo che diventò donna, una delle storie più incredibili mai scritte. Non so se lui stesso si rendesse conto di quanto è stupefacente. Parla di un giovane che fa lo stalliere e quindi si prende cura dei cavalli. Il racconto è la storia della messa in crisi di un’identità sessuale, per usare una pretenziosa espressione psicologica. Così, lavorando tra questi uomini tremendi e rozzi ed essendo solo un ragazzo che ama prendersi cura dei cavalli, all’improvviso, una notte, vagando in un saloon si guarda nello specchio e invece di riconoscersi vede una giovane donna. Sconvolto, corre alle stalle. Lì questi lavoratori neri tentano di stuprarlo ma lui scappa via. Poi torna di nuovo uomo, ma non c’è un vero finale: in questo racconto Anderson mostra di avere una visione davvero profonda del terrore dell’adolescenza.

BRADFORD MORROW: Assomiglia a un racconto di James Purdy.

JAMES PURDY: Già! È l’unico racconto di Anderson in cui credo sia riuscito davvero a sondare i recessi.

BRADFORD MORROW: Lo hai letto da ragazzo, o più tardi?

PURDY: Be’, quando l’ho letto non l’ho capito, ma ho intuito subito quanto fosse grandioso.

BRADFORD MORROW: Quando hai cominciato a leggere narrativa?

JAMES PURDY: Avevo più o meno dieci anni. Un altro libro che mi ha influenzato da giovane è Le anime morte di Gogol’, un libro eccezionale. Credo che Gogol’ sia più grande anche di Tolstoj o Dostoevskij. Anche Novelle esemplari di Cervantes contiene storie di emarginati e giovani derelitti. Rinconete e Cortadillo è uno dei migliori racconti mai scritti. Il dialogo dei cani, un’altra storia fantastica, anche meglio di Don Chisciotte che pure non è male. Queste storie sono il distillato del suo genio.

BRADFORD MORROW: Già da bambino gravitavi attorno alla figura dell’emarginato? Sei figlio unico?

JAMES PURDY: No ho due fratelli, io sono quello di mezzo. Ma anche molti zii, cugini, zie, direi un intero clan.

BRADFORD MORROW: Dov’è che mettevi le mani sui libri da bambino?

JAMES PURDY: Mio padre mi ha lasciato una vasta biblioteca. Lui leggeva.

BRADFORD MORROW: Qualche scrittore nella stirpe Purdy?

JAMES PURDY: Sono tutti contadini!

BRADFORD MORROW: La domanda a cui giro intorno è: come e quando hai capito di voler diventare uno scrittore, un romanziere?

JAMES PURDY: Ho cominciato scrivendo anonime e anomale lettere a otto-nove anni. Queste anonime e anomale lettere – così le chiamo –, le scrivo ancora oggi e sono presumibilmente lettere non firmate che diffamano il destinatario mostrandogli la verità su di lui. Si sa, la verità non si può mai dire pubblicamente. A ogni modo, mi ricordo questa terribile padrona di casa dove stavamo in affitto che tormentava mia madre per ogni sciocchezza, fai questo fai quello, in giro per il cortile. Così le scrissi questa lettera… Scrissi qualcosa su di lei, non gliel’ho spedita. Mia madre ne rimase turbata, per la rabbia che conteneva.

BRADFORD MORROW: Perché le anonime e anomale lettere? È una specie di gioco?

JAMES PURDY: È uno sfogo. Ma volendo i romanzi escono da lì, perlomeno credo.

BRADFORD MORROW: Quando scrivi una lettera anonima e anomala pare proprio che sia tu la figura dell’emarginato più che qualsiasi altro personaggio.

JAMES PURDY: Sì, ritengo di sì. Perché c’è molta rabbia lì dentro.

BRADFORD MORROW: Magari scrivi queste lettere, in cui tu stesso sei la figura dell’emarginato, e poi lavori per decentrare questa figura creandogli attorno una bolla romanzata?

JAMES PURDY: Sì, suppongo di sì. Ho conosciuto molti emarginati. E così ho avuto voglia di scrivere queste lettere e mio fratello più grande le adorava, lui sì che era perfido.

BRADFORD MORROW: Ho notato che hai lasciato fuori Henry James dalla lista delle prime influenze.

JAMES PURDY: Un tempo ero abbastanza affascinato da lui ma ora non riesco più a leggerlo. Mi fa imbestialire come poche altre cose. Non credo sapesse qualcosa sulle persone. Mi fa pensare a quella vecchia storia dei tre uomini a cui chiedono di descrivere un elefante e ognuno dei tre fornisce una descrizione completamente diversa ed errata – uno pensa assomigli a un serpente, gli altri a qualcos’altro ancora. Credo che la ragione per cui resta così affascinante è che era molto confuso dalla vita. È l’unico fra i «grandi» che sembra non avere alcuna esperienza diretta di vita reale. È tutto un sentito dire. È incredibile l’energia, e il numero di libri che ha scritto, un corpus incredibile. Eppure quasi sempre mi allontano dal suo lavoro amaramente deluso. È una questione di temperamento: non mi importa della sua gente e di conseguenza non mi interessa lui.

BRADFORD MORROW: Una differenza ovvia tra il tuo lavoro e quello di Henry James è che nei suoi dialoghi, specialmente negli ultimi romanzi, tutti i personaggi sembrano parlare con la sua voce, mentre non ho mai sentito la tua voce nella bocca dei tuoi personaggi.

JAMES PURDY: Be’ questo è interessante. Proust è un po’ così, come James, tutto è la voce di Proust.

BRADFORD MORROW: Invece Thomas Hardy?

JAMES PURDY: Lo amo. Adoro la sua poesia, è un gran poeta. Molto meglio di gente come T.S. Eliot: lui non lo sopporto.

BRADFORD MORROW: Credo di veder emergere uno schema qui: non ti piacciono gli americani esiliati che diventano campioni di anglofilia.

JAMES PURDY: Non li reggo. Una cosa che non mi attrae in Hemingway, è proprio il fatto che fosse espatriato. Non credo fosse abbastanza preso dall’America.

BRADFORD MORROW: E con I racconti di Nick Adams come la mettiamo?

JAMES PURDY: Gli uccisori è un gran racconto. Ma non credo ci sia molto oltre.

BRADFORD MORROW: C’è un modello che stai cercando di sviluppare, romanzo per romanzo, nel tuo corpus di opere?

JAMES PURDY: No. Credo che il mio stile stia cambiando ma non ci faccio molto caso. So che è diverso ma sono troppo occupato a scrivere il prossimo libro. Non sto tentando consciamente di sviluppare un corpus: sarei già fortunato se riuscissi a scrivere un altro libro, a farcela insomma. Perché è difficile. Non importa quante volte ti sei buttato da 25 metri di altezza, sarai sempre impaurito.

BRADFORD MORROW: Hai paura quando parti con un libro?

JAMES PURDY: Ho paura tutte le volte. Questo libro, On Glory’s Course, ho pensato che non l’avrei mai finito. È lungo quasi quanto Mourners Below. È come dover cavalcare ogni volta un animale diverso. Parte della difficoltà è che tutto è dettato dai personaggi: sembrano apparire, venirti in visita e dire «Eccomi».

BRADFORD MORROW: Ritieni il tuo lavoro comico o tragico?

JAMES PURDY: Nel mezzo.

BRADFORD MORROW: Ti càpita di sognare i tuoi personaggi?

JAMES PURDY: Be’, non mi vergogno di dire che non ricordo mai i sogni. Probabilmente sì, ma non me lo ricorderei. Forse perché sogno tutto il giorno.

BRADFORD MORROW: Qual è il tuo libro migliore?

JAMES PURDY: Qualche volta penso sia The House of the Solitary Maggot. In qualche modo ho scritto questa cosa che stava lì dormiente: mi è uscita tutta così, non so da dove sia arrivata. William Carlos Williams ha ammirato i racconti di Color del buio ed era già entusiasta di Il nipote, ha detto che questo era proprio il suo mondo. Ma era molto malato al tempo ed è morto poco dopo che Il nipote fosse scritto. Lui e Marianne Moore erano miei amici, lei era un po’ agitata dai miei temi ma amava quei racconti.

BRADFORD MORROW: Mi ha sempre colpito che Edith Sitwell sia riuscita a non farsi impressionare dalle tematiche e ad arrivare al contenuto.

JAMES PURDY: Assolutamente. Potrebbe sembrare un po’ da spaccone ma questa cosa dimostra la sua capacità di critica. Ha difeso l’uso di «motherfucker» al momento della stampa, ha detto che doveva esserci. E tutte queste femminucce che piangevano e facevano i capricci.

BRADFORD MORROW: Come sei entrato in contatto con Sitwell?

JAMES PURDY: Semplicemente le ho mandato una copia di Non chiamarmi col mio nome a Castello di Montegufoni e ho pensato Non le arriverà mai, e se le arriva non lo leggerà mai. In realtà è impazzita per quei racconti e quando le ho mandato Il palazzo del sogno ha detto che era proprio il caso di pubblicarlo.

BRADFORD MORROW: È stata lei a metterlo nelle mani di Victor Gollancz?

JAMES PURDY: Sì, poi lui la fece infuriare eliminando una serie di parole. Quell’edizione è uscita purgata e lei si è indignata.

BRADFORD MORROW: Come si sviluppa un romanzo di Purdy? Cominci scrivendo lettere anonime e anomale e le idee cominciano a comporsi da sé in trame più ampie, i personaggi cominciano a fare le loro apparizioni eccetera?

JAMES PURDY: Non so mai dire bene qual è il momento in cui comincio un libro. Per esempio On Glory’s Course. Conoscevo bene l’eroina del libro attraverso mia madre. Me la ricordo solo perché lei ne parlava in continuazione. Pensavo sarebbe stata una storia meravigliosa ma era remota, troppo distante nella mia memoria. Però una volta partito non sono più riuscito a fermarmi: ho resistito fino in fondo, le ultime cinquanta pagine ho pensato che non ce l’avrei mai fatta. C’erano questi giovani veterani della Prima guerra mondiale orribilmente sfigurati, avevano placche nelle gambe, placche nella testa. Proprio loro appaiono nella storia.

BRADFORD MORROW: Questi veterani sfigurati li avevi già visti!

JAMES PURDY: Sì! Li vedevo nella mia città natale, li vedevo sulla strada per la scuola. Avevano appena trent’anni e sono rimasti con me.

BRADFORD MORROW: Quando ti metti a scrivere quanto produci?

JAMES PURDY: Potrebbe sembrare un po’ presuntuoso, ma i libri sono così intensi che se scrivo tre o quattro pagine è come se avessi corso per un’ora sotto al sole cocente. È che sono proprio un rottame, o faccio una passeggiata o mi appisolo. Prima o poi scriverò almeno in due momenti nello stesso giorno. Ma posso sempre trovare la forza per scrivere lettere anonime, anche quando sono esausto. Per me sono come anestetici. Di solito scrivevo lettere terribili agli editori e gliele spedivo fino a quando ho imparato la lezione: adesso le scrivo e basta, non gliele invio più! Scrivo tre o quattro pagine al giorno. A dire il vero ne ho scritte anche fino a venti in un giorno ma quell’intensità ti uccide, qualcosa ti dilania dentro. Solitamente le rivedo in un secondo momento; quando mi alzo in genere continuo quello che ho già scritto anziché mettermi a correggere. È come scalare una montagna: è meglio che andare avanti. Certe volte rileggo, altre no perché potrei guardare giù e precipitare. È chiaro che bisogna mantenere una certa velocità e devi continuare a dire quello che sai. C’è una parte di te che dice: È proprio una merda, fermo, non è buono, non gliene fregherà niente a nessuno. Ma non puoi dargli credito, devi essere fuori di testa e crederci.

BRADFORD MORROW: La mancanza di un certo tipo di appercezione è un elemento importante quando si scrive un libro?

JAMES PURDY: Sì, sei troppo tonto per saperne di più. Devi solo proseguire. Malcolm Cowley una volta mi ha scritto che sì sono un genio, ma un genio primitivo. All’inizio ero stupito che qualcuno mi chiamasse genio, qualsiasi cosa volesse dire. Poi ha aggiunto che non so nemmeno io come faccio a scrivere.

BRADFORD MORROW: Ho notato nella tua stanza a Brooklyn non hai libri di autori contemporanei nella tua libreria.

JAMES PURDY: È vero, solo i classici della Loeb. Tutti greci, greci morti! Prendo la linfa per lavorare da questi libri. Stavo leggendo Diodoro Siculo l’altro giorno e ho detto: «È difficilissimo arrivare Oltre il Vento del Nord, ma se ci riesci puoi prendere una freccia e volare indietro da dove sei partito». Tipo una strega sulla scopa. E ho pensato che non è poi così orribile tornare oltre il punto in cui soffia il vento del Nord. Questa gente sono gli Iperborei.

BRADFORD MORROW: Sembra una cosa tipo lo spazio curvo di Einstein.

JAMES PURDY: Ce l’ho avuto in testa per una settimana.

BRADFORD MORROW: Qual è l’ultimo libro di narrativa contemporanea che hai letto e ammirato?

JAMES PURDY: Le perizie di William Gaddis. Posso capire perché a Gaddis piaccia quello che scrivo, veniamo entrambi dallo stesso tipo di cittadina puritana americana. Mi piacciono anche alcune cose di Paul Bowles e i racconti di Tennessee Williams. Anche Il regno di questo mondo di Alejo Carpentier e Place Without Twilight di Peter Feibleman.

BRADFORD MORROW: Che ne pensi, a posteriori, del tuo Malcolm?

JAMES PURDY: Credo che in qualche modo sia il mio libro migliore o uno dei migliori. È come un grosso petardo che continua a scoppiare. È abbastanza oltraggioso, e mi dispiace riportare quello che dice qualche accademico: È solo il suo primo libro e dovrebbe dimenticarsene. Credo si sbaglino, non lo leggono nel modo giusto.

BRADFORD MORROW: Cabot Wright ci riprova invece?

JAMES PURDY: Un tempo era quello che mi piaceva meno. È basato su personaggi reali, a parte lo stesso Cabot. Questo pazzoide ex detenuto che conoscevo, era sempre sul punto di mettersi a scrivere un libro su uno stupratore e non faceva che parlarmi di quest’uomo, questo stupratore. Alla fine questa storia mi ha stancato e visto che questo libro lui non l’avrebbe mai scritto perché non è uno scrittore, l’ho scritto io per lui.((In Cabot Wright ci riprova le vicissitudini del protagonista sono raccontate da Bernie Gladhart, un truffatore in bolletta.))

BRADFORD MORROW: Quali racconti includeresti in una selezione delle tue storie migliori?

BRADFORD MORROW: Uno di questi giorni, Prendete il cappello, Tempo di sera, Taglio moderno, Marito e moglie, Dormi bene.

BRADFORD MORROW: Papà Wolf?

JAMES PURDY: Sì, e Buonanotte, tesoro. Anche Notizie d’estate.

BRADFORD MORROW: Abbiamo parlato prima di come l’America tenda a esiliare i suoi scrittori migliori. Tu sei essenzialmente in uno stato di autoesilio, perlomeno dal cosiddetto establishment.

JAMES PURDY: Sì, perché loro vogliono Longfellow. Vogliono le menzogne. Gli editori lo fanno.

BRADFORD MORROW: Il Paese è conservatore?

JAMES PURDY: Non credo sia conservatore. Penso sia selvaggio. Sto parlando del business. Sai, persone del tutto comuni possono leggere i miei libri, ma non gli è mai stato detto di leggerli, tutto al contrario. Chiunque può leggere Mourners Below. I pubblicitari hanno bisogno di etichette per vendere i prodotti, ma non potrebbero mai etichettare me perché ogni mio libro è diverso.

BRADFORD MORROW: Parlami di On Glory’s Course.

JAMES PURDY: È ambientato circa ottanta anni fa, e in alcuni passaggi cento anni fa. Siamo nel 1897, una donna che viene da una famiglia benestante ha un figlio illegittimo. Le portano via il bambino. Il libro comincia quando lei ha 48 anni e questo ragazzo, un fattorino che ha praticamente adottato, la mette nei guai. E di colpo questo bambino, questa situazione imbarazzante, porta alla luce il suo passato in cui lei credeva di aver seppellito un segreto, ma in realtà tutti ne erano a conoscenza da sempre. È basato su una storia vera. Ho sempre voluto scriverlo ma pensavo fosse troppo difficile. Alla fine l’ho cominciato e basta, anche perché qualunque cosa al riguardo è difficile.

BRADFORD MORROW: Come ti sei documentato?

JAMES PURDY: Ho letto tanti libri sul periodo, molti romanzi tipo Un povero bianco e Heaven’s My Destination. Ma alla fine non mi hanno aiutato granché. La storia mi era stata raccontata da mia nonna.

BRADFORD MORROW: Nei dialoghi del romanzo usi terminologie del tempo?

JAMES PURDY: Sì, un po’ anche se non è un libro d’epoca, potrebbe accadere oggi.

BRADFORD MORROW: Quando hai scritto la tua prima storia? Non parlo delle lettere anonime e anomale ma di una storia vera.

JAMES PURDY: Ho scritto molte storie quando ero giovane ma sono tutte andate perse. Erano in questa rivista che stampavo su ciclostile, The Niocene. Credo di aver tirato fuori cinque o sei numeri. Immagino che siano andate proprio perse. Avevo undici o dodici anni. Mettevo tutto lì ma era perlopiù roba immaginaria. Le stampavo con una di quelle vecchie macchine a gel. Era un vero casino. Tiravo fuori le copie e le rilegavo da me con le graffette. Credo che siano proprio quelle le mie prime storie pubblicate. Ne avrò stampate dieci per distribuirle a parenti e amici. Alcune le ho pure vendute!

BRADFORD MORROW: Al posto della limonata.

JAMES PURDY: Esatto! Ma non ricordo quanto ci ho fatto.

BRADFORD MORROW: Quasi ci si obbliga a scrivere pur di essere letti.

JAMES PURDY: Già, ma non credo sia tanto per essere letti quanto per essere ascoltati, per comunicare. Il mio pensiero oggi è che non si comunichi davvero coi media. Non si arriva al pubblico, le persone sentono ma non passa nulla. L’attenzione della gente viene catturata ma non gli viene raccontato nulla. È non-comunicazione di massa, un po’ come la musica in questo ristorante rumore, e non c’è nulla di musicale. Intendo che questo vuol dire non comunicare niente alla mente. Questo è quanto sulla televisione. Nulla viene detto, ci sono le parole e ci sono persone che le pronunciano ma non raggiungono nessuno. È comunicazione non-comunicazione.

BRADFORD MORROW: Questo forse si collega all’affermazione precedente sul desiderio di sentire bugie. Parlami della tua infanzia.

JAMES PURDY: Sono cresciuto in campagna in una famiglia di origine nordirlandese composta perlopiù da contadini, anche se mio padre non aveva nessuna intenzione di diventare un agricoltore. Così divenne un uomo d’affari, lavorò in banca, nel settore immobiliare e cose così. Ma loro rimasero comunque dei campagnoli. Avevo due fratelli, be’ effettivamente tre, ma uno morì prima che io nascessi.

BRADFORD MORROW: A parte le storie su The Niocene, crescendo hai mai pubblicato su qualche giornalino scolastico?

JAMES PURDY: No, non credo che a scuola piacesse quello che scrivevo. È stato un assaggio di quello che i critici avrebbero detto più avanti. Le storie turbavano i miei insegnanti, almeno fino a quando sono andato alle superiori dove ho trovato un’ottima insegnante che leggeva le mie cose e pensava fossero eccezionali. L’unico consiglio che mi diede fu di continuare a scrivere perché secondo lei sarei diventato uno scrittore.

BRADFORD MORROW: Cos’hai fatto dopo le superiori?

JAMES PURDY: Sono andato a Chicago, poi sono entrato nell’esercito. Ero un soldato improbabile. Mi avrebbero comunque arruolato, così mi sono presentato da solo. Era il 1941, ma era pieno di gente che non c’entrava nulla con l’esercito. Comunque per qualche motivo non ho dovuto mai combattere. Ero di base a Scott Field, che sta a Belleville, in Illinois.

BRADFORD MORROW: Riuscivi ancora a scrivere sotto le armi?

JAMES PURDY: No, avrò scritto qualche cosetta, ma ero troppo frustrato. Però è stata un’occasione per imparare molto.

BRADFORD MORROW: E dopo l’esercito?

JAMES PURDY: Per un po’ ho fatto l’interprete, poi ho trovato un lavoro a Cuba. Avevo imparato lo spagnolo nell’esercito. Ho insegnato in una scuola all’Avana per un anno ed è stato abbastanza interessante.Quel posto me l’aveva dato il governo, una specie di agenzia per insegnanti, a parte il fatto che era il governo degli Stati Uniti. Era una scuola per cubani e americani e io insegnavo letteratura inglese più o meno. Avevamo problemi a trovare i libri, così leggevamo quel che passava il convento. Sarei potuto rimanere di più, ma non volevo.

BRADFORD MORROW: Hai ricominciato a scrivere a Cuba?

JAMES PURDY: Sì, mi hanno pubblicato un racconto sul The Prairie Schooner. Quello era un fatto grosso. Il mio primo racconto pubblicato è stato Prendete il cappello quindi. Dopo aver lasciato Cuba sono tornato nel Wisconsin dove ho insegnato per diversi anni al Lawrence College sia inglese che spagnolo. Poi ho mollato tutto e ho lavorato in giro per il paese. Quelli sono stati anni terribili. Siamo tra il 1948 e il 1951, ho mandato Tempo di sera a una rivista, non voglio menzionarne il nome anche se dovrei. Questo racconto oggi è considerato un classico, comunque quella rivista prima accettò di pubblicarlo e dopo tre anni me lo rispedì dicendo che non l’avrebbero pubblicato. Non credo sapessero cosa vuol dire questo per uno scrittore emergente, è devastante. Poi quando sono diventato più famoso, quando Color del buio è stato elogiato da critici e scrittori, l’editor di quella rivista ha avuto il fegato di scrivermi una lettera di congratulazioni. Chiaramente non ho mai risposto. Che dovevo fare? Comunque ho scritto molto in Wisconsin, è lì che ho terminato Color del buio. Tuttavia era impossibile vedere pubblicati questi racconti. Li inviavo e venivano respinti uno a uno con commenti feroci. Mi dicevano Questi sono racconti da malato. Si sa, quando sei così giovane hai un bisogno estremo di essere incoraggiato. La cosa mi distruggeva, ma non sembravo in grado di fermarmi. Non credo nelle valutazioni e non importa da chi provengano. È difficile perdonare le persone: dire a uno scrittore che non ha talento è una forma di omicidio. Perché non prendi e ti spari? Questo significa.

BRADFORD MORROW: Quali riviste hanno preso a pubblicare i tuoi racconti?

JAMES PURDY: Black Mountain Review di Robert Creeley. Ha preso un racconto ed è stata una manna dal cielo perché non riuscivo a pubblicare proprio nulla. Così quando ha accettato Il suono delle parole per me è stato un gran momento. Poi non c’è stato nulla per un po’ fino a quando un tale di Chicago, Osborn Andreas, ha pensato che quei racconti andavano pubblicati e in autoproduzione ha pubblicato Non chiamarmi col mio nome. Quei racconti ebbero un impatto esplosivo, furono in grado di scioccare tutti.

BRADFORD MORROW: Cosa ne pensava la tua famiglia?

JAMES PURDY: Be’, loro non ne sono stati scioccati. 63: Palazzo del sogno sì, ma non quanto scioccò i critici. Se quell’uomo non avesse pubblicato quei due libri sarei rimasto inascoltato per sempre. Non sarei riuscito ad andare avanti con tutti quei rifiuti. Magari avrei continuato a scrivere, ma sarebbe rimasto tutto dentro un cassetto.

BRADFORD MORROW: Anche tutti i romanzi quindi?

JAMES PURDY: Probabilmente sarei morto. Trovo che l’ambiente letterario newyorkese sia totalmente chiuso nei confronti delle novità. Basta guardare alle riviste patinate e a quello che pubblicano, agli editor e a quello che piace a loro. A loro interessa il cellophan riciclato. Riciclare e ririciclare. Segatura. Questa è la formula. Sono completamente morti. Non c’è più acqua nel loro corpo. Sono fatti di segatura riciclata. I racconti sono pensati per fare il paio con le pubblicità di Tiffany, il Plaza Hotel, Cartier, Alfred Dunhill. Per loro è meglio non ci sia nulla di umano, è tutto vestiti e moda.

BRADFORD MORROW: La maggior parte delle riviste patinate di New York sono solo veicoli pubblicitari pensati per fare profitto. Mascherano questo dietro alla facciata del fai-da-te, moda, cucina. Ma è tutto una vetrina per la pubblicità.

JAMES PURDY: È tutto per i soldi. Ogni cosa negli Stati Uniti è una questione di soldi.

BRADFORD MORROW: Forse questo è uno dei motivi per cui alcuni dei tuoi scrittori preferiti sono esiliati a Brooklyn, a Tangeri o da qualsiasi altra parte. Avresti dovuto mollare anche tu?

JAMES PURDY: Io sarei morto. Cos’altro avrei dovuto fare? Odio insegnare. Mi piace stare tra gli studenti e parlare con loro, ma davvero detesto insegnare. Non comunico in quel modo, non è proprio la mia modalità.

BRADFORD MORROW: Come è avvenuto il passaggio dai racconti al primo romanzo, Malcolm?

JAMES PURDY: Ho solo preso a scrivere. Malcolm in realtà era per un amico che mi aveva dato un posto dove vivere in campagna, vicino Quakertown, in Pennsylvania. Si chiama Jorma Jules Sjoblom, è mezzo svedese e mezzo finlandese. Lo avrebbe letto quando tornava a casa dal lavoro. L’ho scritto in pochi mesi, ma attenzione non credevo che qualcuno l’avrebbe mai pubblicato. Quando invece ho trovato un editore ho impiegato ancora qualche mese per perfezionarlo perché non avevo un finale.

BRADFORD MORROW: Mi pare tu scriva con l’idea di essere letto. Malcolm è stato scritto come premio per qualcuno che torna a casa dal lavoro.

JAMES PURDY: Già, è il mio modo per comunicare. È il mio modo di vivere. È quello che intendo sulla televisione quando dico che non è in grado di comunicare. È triste che la gente sieda davanti a questa scatola invece di incontrare altre persone, tipo la famiglia, e dire Oggi ho fatto questo, e tu che hai fatto? o Di che tessuto è la cosa che indossi?. Vedi questa è comunicazione, il resto è morte perché le persone vengono usate come recettori meccanici, inanimati proprio come lo è il televisore.

BRADFORD MORROW: Cosa rende la lettura un atto comunicativo mentre guardare la televisione il suo contrario?

JAMES PURDY: Se è un libro importante, è come fosse un altro essere umano a parlarti, anche se su una pagina scritta. La tv è stata concepita per non parlare con un altro essere umano, ma per manipolarlo. Per spillargli soldi attraverso la pubblicità. Quando Whitman scrisse Foglie d’erba voleva entrare in contatto con qualcuno che avesse intenzione di capirlo, non voleva certo manipolare nessuno o spillare soldi. Insomma la televisione è non-comunicazione manipolatoria. Eppure quasi tutto nella nostra società segue questo principio. Il cinema, la medicina. Normalmente non c’è comunicazione tra dottore e paziente. Si tratta sempre di estorcere soldi e dare in cambio una formula che probabilmente non è soddisfacente. Quindi la mia idea è che l’intera società collasserà per questa mancanza di comunicazione. Tutto ciò che facciamo in America è non-comunicativo, mentiamo per ottenere soldi e potere. La gente è manipolata proprio perché convinta di manipolare a sua volta. Il denaro è l’unica cosa in cui crediamo.

Aspiriamo a diventare ricchi perché crediamo che a quel punto non soffriremmo determinate cose. Quando passi la vita a guardare il tuo orticello è un incubo. Invece mentre leggi stai già parlando con qualcuno che tu lo sappia o meno. Io non posso solo stare a guardarti e lasciarti parlare e non darti niente. Ma tu puoi fare questo a uno schermo, la non-comunicazione. Nei teatri di Aristofane e Shakespeare personaggi e pubblico erano un tutt’uno. Il pubblico urlava agli attori, li minacciava, li acclamava. Sono cresciuto frequentando i cinema, i teatri non ce n’erano, e questo ci ha danneggiato perché gli attori non possono vederti. Noi possiamo vedere lo schermo, ma lo schermo non vede noi. Ecco il principio della non-comunicazione della nostra cultura.

BRADFORD MORROW: È buffo che si debba stare in una stanza buia a guardare la tv o un film al cinema e che invece si abbia bisogno di una stanza illuminata per leggere.

JAMES PURDY: Già, è vero, inoltre quando leggi sai che qualcuno ha scritto quel libro per te, proprio per te. Nessuno ha scritto questi show televisivi, sono creati da macchine e poi testati, e sono considerati un fallimento totale a meno che novantotto milioni di persone non li guardi, e come se non bastasse neanche esistono! Walt Whitman scrisse Foglie d’erba forse per dieci persone, persone con cui era in contatto non come quei novantotto milioni. Il lettore deve reagire al testo o questo non esisterà per lui, mentre la tv andrà per la sua strada che tu ci sia o no perché è un rumore eterno. Non ha inizio sviluppo e fine come un libro, è semplicemente… quello che è!

BRADFORD MORROW: Quando qualcuno legge l’immaginario che si forma nella testa viene attinto dal suo stesso passato personale, lo schermo del televisore invece fornisce a tutti e novantotto i milioni di persone la stessa immagine che non ha alcun rapporto con il passato di ognuna di queste, a parte per gli operatori e gli attori.

JAMES PURDY: Non ha rapporto proprio con nulla.

BRADFORD MORROW: Quando leggo di tal Papà Wolf senza alcuna descrizione fisica né su cosa stia facendo, la parte comunicativa che gioco come lettore si sviluppa nella formazione di un immaginario. Il mio intelletto e la mia immaginazione sono stimolati alla partecipazione. C’è spazio di manovra perché James Purdy ha costruito un paesaggio in cui io posso imbattermi.

JAMES PURDY: Cos’è e perché si chiama così Papà Wolf? Vedi ti stai aprendo se stai conversando davvero col libro. Vale anche se stai parlando di cose volgari. Stai avendo un’esperienza umana reciproca. Comunicazione è vita. Siamo umani solo se comunichiamo con altri esseri umani. Se un uomo vivesse totalmente solo non sarebbe davvero umano, non so esattamente cosa sarebbe, ma qualcos’altro. Ecco la ragione profonda dell’arte e della vita, stare con gli altri ci rende umani. Ma nella nostra cultura accade sempre meno, e ancora meno e meno. È il motivo per cui abbiamo sviluppato ogni tipo di strana anomalia comportamentale.

BRADFORD MORROW: Ancora non sei disposto ad andare via dall’America, anche se riconosci l’orrore che che caratterizza la nostra cultura.

JAMES PURDY: Non potrei. Quando ho vissuto in Spagna ero molto agitato perché comunicavo in una lingua che non è la mia. Ha cominciato a diventare un problema patologico. Non potrei vivere altrove. Certo neanche a Brooklyn si parla il tipo di inglese che conosco, perché è un inglese pessimo.

BRADFORD MORROW: Come sei finito a vivere a Brooklyn?

JAMES PURDY: Proprio non lo so perché sono qui. Non avevo molta scelta. Mi sono trasferito qui perché dovevo disperatamente trovare una stanza. Sono arrivato nel 1962 dalla Pennsylvania. Penserai che ho scelto Brooklyn, no, in realtà sono caduto qui da un aereo e ci sono rimasto. Non avevo alcuna libertà di muovermi, a meno che non facessi la vita di un vagabondo, perché non avevo soldi. Non puoi pianificare la tua vita se il lavoro che fai non ti dà soldi. La gente ti dice che puoi fare questo puoi fare quello, ma tutto quello che posso fare è vivere giorno per giorno. La gente pensa che io sia uno scrittore. Io non sono un scrittore. Scrivo libri, ma non sono uno scrittore. Come dire, la carriera non mi supporta finanziariamente.

BRADFORD MORROW: Credi che questo cambierà?

JAMES PURDY: Ne dubito. Anzi forse andrà peggio. Non non lo so e comunque non mi importa. Pensavo che un giorno i miei libri avrebbero venduto, ma non credo accadrà mai.

BRADFORD MORROW: Non è impossibile che un anno dopo la tua morte diranno: Sì, proprio lui, James Purdy, che gran scrittore.

JAMES PURDY: Sicuro, vanno così le cose in America. Ti sono grati per essere morto.

BRADFORD MORROW: Più è patinata la morte, più è facile ottenere venticinque anni di posto fra i grandi per la comunità accademica.

JAMES PURDY: È successo a Dylan Thomas e Nathanael West e succederà ancora.

BRADFORD MORROW: Senti l’obbligo di scrivere?

JAMES PURDY: Devo dire di no. Credo sia inevitabile che io continui a scrivere libri. Dopo aver finito un romanzo mi riposo un po’ scrivendo un racconto o una commedia. Ma non faccio piani, i miei piani li fa il subconscio.

BRADFORD MORROW: Sei consapevole di ogni tuo stile di scrittura?

JAMES PURDY: Non in questi termini. Lo conosco e questo è quanto. Deve essere quello giusto: ogni frase semplicemente deve essere… giusta.

BRADFORD MORROW: Costruisci per frasi?

JAMES PURDY: Qualche volta. Più spesso per piccoli paragrafi. Ma credo di essere uno scrittore drammatico dal momento che quello che le persone dicono è proprio quello che scrivo e anche il motivo per cui scrivo. È la gente a parlare, non lo scrittore che spiega qualcosa. E io non spiego molto. Credo stia tutto in quello che viene o non viene detto. Ma sono molto pignolo sul fatto che le frasi siano proprio come le voglio io, e il fatto che molti dei miei personaggi usino il vernacolare – come lo chiamava Marianne Moore –, fa sfregare le mani a un sacco di critici pseudo intellettuali dal sopracciglio sempre alto. Mi credono ignorante. Non mi piace la parola stile, mi puzza di accademico. Anche se io ho uno stile non vuol dire che lo stesso sia applicabile a Henry James quando fa parlare i suoi personaggi per tremila fogli. Non arriva mai ai personaggi, Henry James, perché parla parla e parla, tutto è detto e nulla è mostrato. Ritengo sia un gran risultato ma per me non va bene. Tennessee Williams una volta mi ha detto: «Questo ammico sì che d’è un dialoghe divertante!». Anche questo ha a che fare con la comunicazione. Lo stile non dovrebbe essere tirato in ballo tra scrittore e lettore, distrugge la comunicazione. La comunicazione non-comunicativa distrugge l’attenzione, distrugge la famiglia.

BRADFORD MORROW: Questa non-comunicazione di cui hai parlato mi suona molto machiavellica nel senso che fa sì che la popolazione sia più facilmente controllabile.

JAMES PURDY: Giusto, dai mostri. È machiavellica. Ma invece di rendere la gente fascista o cannibale o criminale, la fa diventare zombie, che è peggio. Perché per essere trasformato in membro di un partito terribile o in cannibale deve esserci ancora qualcosa di umano. Ma trasformarsi in un nulla è tremendo. Il male è meglio del nulla, perché è umano. Terribile ma umano. Essere uno zombie vuol dire toccare il fondo, sei un televisore che guarda un altro televisore. Esci fuori nel mondo e nessuno ti conosce, puoi essere controllato perché sei programmato. È tutto timbrato, catalogato in uno scaffale, descritto, gettato nella spazzatura. È un processo politico e dietro c’è un processo economico. Eppure, l’essere nulla, questa è la peggiore fra tutte le cose.

James Purdy – Interview by Bradford Morrow© Conjunctions no.3, 1982

©Traduzione italiana di Leonardo Neri

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