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La fauna del giardino zoologico delle mitologie non è composta di leoni o tigri, ma di sfingi, grifoni e centauri. La popolazione di questo giardino dovrebbe eccedere quella di un giardino zoologico reale, dato che un mostro non è altro che una combinazione di elementi di esseri esistenti, e che le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite. Indagando le letterature classiche e quelle orientali, Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero si resero conto che quello degli animali fantastici era un universo sterminato e inesauribile, fatto di mostri armoniosi, effimeri o casuali, come l’asino a tre zampe, il Behemot o il catoblepas. Forse però non sapevano, Borges e Guerrero, che mentre il loro originale manuale zoologico andava in stampa (1957), negli Stati Uniti d’America stava nascendo una nuova tipologia di mostro, un mostro necessario e grottesco: il pollo di domani.

Si trattava di un pollo che doveva garantire «più petto e meno mangime», come spiega Jonathan Safran Foer in Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda, 2010). Una specie di Odradek avicolo, per dirla con Kafka: «Si sarebbe tentati di credere che questa figura abbia avuto prima una qualche forma più razionale, e che adesso sia semplicemente rotta. Ma pare che non sia così» (Il cruccio del padre di famiglia in Il messaggio dell’imperatorie, Adelphi, 1981). No, non è così in effetti: la figura non si era rotta, aveva solo subito una trasformazione, e quella stregoneria scientifica segnava ormai il passaggio dalla zoologia mitologica borgesiana alla zootecnica industriale moderna; un punto di rottura epocale nel quale l’immaginazione, il sogno e il mito venivano superati dalla più pragmatica modificazione genetica degli animali.

SE NIENTE IMPORTA

Nel suo racconto-inchiesta Safran Foer si sofferma, attraverso descrizioni accorate e puntigliose, su quello che secondo lui è stato più un evento che un’innovazione, ovvero la rapida e progressiva diffusione dell’allevamento intensivo: «Sterili respingenti di sicurezza hanno sostituito i pascoli, sistemi di confinamento intensivi su più strati sono sorti dove un tempo c’erano stalle e granai, e animali frutto di tecniche di manipolazione genetica – volatili che non sono in grado di volare, maiali che non sopravvivrebbero all’aperto, tacchini incapaci di riprodursi naturalmente – hanno sostituito le figure familiari che un tempo affollavano l’aia».

Lo scrittore americano parla di uccelli che arrivano alla macellazione con numerose fratture a causa della loro genetica alla Frankenstein e dei trattamenti subiti, e dà voce ad alcune mosche bianche del sistema, come l’allevatore indipendente di tacchini Frank Reene, che spiega che oggi negli Usa «non c’è un solo tacchino di quelli che compri al supermercato che potrebbe camminare normalmente, non parliamo di saltare o volare. Lo sapevi? Non possono neanche avere rapporti sessuali. […] Hanno tutti lo stesso stupido patrimonio genetico e il loro corpo non glielo permette». Sembrano immagini di guerra quelle evocate nel libro di Safran Foer, di una guerra che c’è ma che non vogliamo vedere, di un conflitto che abbiamo intrapreso da tempo nei confronti degli animali che mangiamo.

Tra i pochi a occuparsi della questione dal punto di vista filosofico è stato Jacques Derrida, che in L’animale che dunque sono (Jaca Book, 2006), anticipando Safran Foer, scriveva: «Pensare la guerra in cui siamo non è solo un dovere, una responsabilità, un obbligo, è anche una necessità, una costrizione a cui, volente o nolente, direttamente o indirettamente, nessuno potrebbe sottrarsi. […] L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui». E anche se discostiamo lo sguardo siamo esposti.

A che cosa siamo esposti? Alla loro sofferenza, alle «proporzioni senza precedenti del loro assoggettamento» come afferma Derrida, a masse di animali spesso stipati a decine o anche a centinaia di migliaia, con mobilità ridotta, nutriti con diete innaturali e imbottiti di farmaci. Questo massacro agli occhi di Anna Maria Ortese rappresenterebbe una macchia sul nome uomo, il peccato più grande, accettato oramai a livello planetario da tutta la cosiddetta civiltà. Ortese considera questi esseri non come animali, ma come Piccole Persone, «fratelli “diversi” dell’uomo, creature con una faccia, occhi belli e buoni che esprimono un pensiero, e una sensibilità chiusa, ma dello stesso valore della sensibilità e il pensiero umano, soltanto lo esprimono al di fuori del raziocinio o ragione per cui noi andiamo noti, e ci incensiamo tra noi» (Le Piccole Persone, Adelphi, 2016).

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Quello di Anna Maria Ortese, in questi interventi raccolti in volume, appare un grido di dolore e allo stesso tempo una lucida constatazione dello stato delle cose; la sua è una voce scomoda, che sa quanto sia sgradevole a certa gente «a volte a nazioni intere, sentir parlare delle Piccole Persone come di un popolo oppresso, avente diritto – davanti all’umanità – ma ugualmente oppresso, usato e straziato milioni di volte al giorno, su tutta la terra». Non per questo Ortese decide di tacere, anzi sente il dovere di parlarne, di questa guerra iniqua, perché non si può lasciare cadere la penna senza averne mai parlato, «vergogna suprema per uno scrittore».

L’autrice attraverso questi testi porta avanti un j’accuse personale contro l’uomo, per il quale niente importa a parte se stesso, un uomo che a suo modo di vedere è diventato nel tempo solamente un contenitore di viscere e che non è capace di ascoltare quei gemiti all’alba dei fratelli “diversi” mandati al macello: «Dal giorno che ho cominciato a comprendere certe cose (ed è un giorno remoto, appartiene alla prima giovinezza), non ho più amato sinceramente l’uomo, o l’ho amato con tristezza. Dirò che mi sono sforzata di amarlo, mi sono commossa per lui e ho cercato di capire l’origine della sua degradazione da creatura a padrone».

L’ostilità della scrittrice si riversa anche sui Romani e il loro disprezzo totale del dolore animale, nonché sui Borboni e sull’intera Spagna, o quasi tutta, perché non ha vergogna dei suoi giochi: «e salvo di quella letteratura, in fondo – sebbene grande e meravigliosa letteratura –, solo un poeta, Eugenio de Tapia, che scrisse un addio ai suoi compatrioti: Lasciatemi, basta, / lasciatemi fuggire: / non voglio più tori, / che pena mi fanno».

Di sicuro salverebbe anche Franz Kafka, del quale l’amico Max Brod raccontava un episodio sintomatico: lo scrittore praghese stava in piedi di fronte ai pesci all’acquario di Berlino, e «vedendo i pesci nelle vasche luminose disse […]: “Adesso posso guardarvi tranquillamente, non vi mangio più”. Era il periodo in cui era diventato rigorosamente vegetariano» (Franz Kafka. Una biografia, Mondadori, 1956). Kafka riconobbe quei pesci come membri della sua famiglia invisibile, esseri viventi di cui gli importava, davanti ai quali prova vergogna, arrossisce: perché, come affermava Walter Benjamin, per Kafka la vergogna è una reazione e una responsabilità davanti agli altri che ci sono invisibili, è il lavoro della memoria contro la dimenticanza. E i pesci, scrive Jonathan Safran Foer, rappresentano «forse l’incarnazione stessa della dimenticanza: ci si dimentica della loro vita con una radicalità che è più rara quando pensiamo agli animali terrestri allevati».

La vergogna intesa come responsabilità contro l’oblio è uno dei temi centrali dell’opera di un altro autore impegnato per la causa animale: John Maxwell Coetzee. Lo scrittore sudafricano in La vita degli animali (Adelphi, 2000) dà voce per la prima volta al personaggio di Elisabeth Costello, impegnata qui in una serie di conferenze a Waltham, presso l’Appleton College, nel quale insegna il figlio John Bernard. In questo testo, in cui la finzione si mescola alla pura disquisizione filosofica, la Costello decide di avventurarsi in un’analogia cui forse tanti avevano pensato ma nessuno aveva osato esprimere (eccetto Derrida): quella tra la condizione degli animali in tempo di allevamento intensivo e l’Olocausto avvenuto durante la Seconda guerra mondiale. «Permettetemi di dire con franchezza una cosa: siamo circondati da un’impresa di degradazione, crudeltà e sterminio che può rivaleggiare con ciò di cui è stato capace il Terzo Reich» afferma la scrittrice australiana; anzi, secondo il suo punto di vista l’impresa odierna farebbe sbiadire quella nazista, perché è senza fine, «capace di autorigenerazione, pronta a mettere incessantemente al mondo conigli, topi, polli e bestiame con il solo obiettivo di ammazzarli». E poi non è stato dal mattatoio di Chicago che i nazisti hanno imparato a lavorare industrialmente i corpi?

Sono parole forti quelle che Coetzee fa dire a Elisabeth Costello, che le causeranno l’opposizione di alcuni docenti del college di cui è ospite. Dissensi che non basteranno a fermarla, perché alla scrittrice interessa capire, ritrovare l’origine di questi orrori, che scaturirebbero «dal rifiuto da parte degli assassini, e di tutti gli altri, di immaginarsi al posto delle vittime». Si tratterebbe dunque di una questione di empatia, che come l’immaginazione non ha confini: non vi sono limiti alla nostra capacità di entrare col pensiero nell’essere di un altro, eppure molte persone questa capacità scelgono di non esercitarla. E così nascono i luoghi di morte che ci circondano, afferma Costello, «i macelli ai quali noi, in un massiccio sforzo comune, chiudiamo i nostri cuori. Ogni giorno ha luogo un nuovo olocausto, e tuttavia, a quanto vedo, il nostro essere morale non ne viene neppure scalfito. Non ci sentiamo contaminati». Perché possiamo fare qualsiasi cosa e uscirne puliti.

La questione dell’assenza di empatia sollevata da Coetzee/Costello però non si può circoscrivere solamente al problema dell’allevamento industriale; essa entra in gioco anche quando facciamo riferimento ad altri luoghi di chiusura e segregazione animale come gli zoo, che Borges definiva «quel terribile giardino nel quale il bambino vede animali viventi che non aveva mai visto», e che diventa misteriosamente il luogo della diversione infantile. È in quel luogo di prigionia che, secondo lo scrittore e critico John Berger, non si può mai incontrare lo sguardo di un animale, perché sembrano guardare ciecamente al di là, «e quello sguardo tra l’animale e l’uomo, che deve aver svolto un ruolo importante nello sviluppo della società umana, e con cui, in ogni caso, gli uomini hanno sempre vissuto fino a poco meno di un secolo fa, è ormai estinto» (Sul guardare, Il Saggiatore, 2017).

Ma prima dell’estinzione definitiva di questo guardarsi, un anonimo narratore scopriva all’acquario del Jardin des Plantes di Parigi degli strani pesciolini aztechi chiamati axolotl: «Rimasi un’ora ad osservarli; poi uscii incapace di pensare ad altro» (Julio Cortázar, Axolotl, in Fine del gioco, Einaudi, 2003). Il narratore racconta della sua ossessione per questi piccoli anfibi schiavi del loro corpo, chiusi in un silenzio abissale, e la loro misteriosa umanità gli fa affermare che «Non erano animali. […] Non erano esseri umani, però con nessun animale avevo mai stabilito una relazione così profonda. Gli axolotl erano come testimoni di qualcosa, e a volte degli orribili giudici». Sembrava quasi che soffrissero, nella loro immobilità, era come se stessero espiando qualcosa, forse un tempo di libertà nel quale il mondo era stato loro: degli axolotl. È qui che si coglie il senso e la ragione dell’inquietudine del narratore, terrorizzato e allo stesso tempo affascinato dall’animale e dalla sua condizione: forse un giorno anche l’uomo sarebbe finito così?

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Gli sguardi di uno di quei pesci e dell’osservatore narrante continuano a incrociarsi senza sosta, sfociando infine in un processo di metamorfosi immediata, che già era stata preannunciata nell’incipit del racconto («Ora sono un axolotl»), ma che qui cogliamo nel suo accadere improvviso: «Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dall’acquario, la vidi dall’altra parte del vetro. Allora la mia faccia si staccò, e io compresi. Una sola cosa era strana: continuare a pensare come prima, sapere. Rendermi conto di ciò, fu simile all’orrore del sepolto vivo che si sveglia al proprio destino». Adesso l’axolotl sapeva oramai che nessuna comprensione era più possibile tra loro, la fiammella del guardarsi reciprocamente si sarebbe spenta poco a poco. I ponti son stati tagliati tra il pesce e l’osservatore, perché quello che prima era la sua ossessione ora era diventato un axolotl, alieno alla sua esistenza umana.

«Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è solo perché ogni axolotl pensa come un uomo all’interno della sua immagine di pietra rosa. […] E in questa solitudine finale, alla quale ormai lui non torna, mi consola il pensiero che forse scriverà qualcosa su di noi, credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl.» Ma è più probabile che scriverà un racconto sull’uomo, che alla fine è l’unica cosa che conta. Di tutto il resto cosa importa?

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