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Mi capita spesso che qualcuno dei miei amici si soffermi di fronte a un disegno in carboncino rosso appeso nel mio studio e mi chieda dove abbia mai incontrato una creatura così amabile. Non ho mai raccontato a nessuno la storia di quel disegno e, fino a ieri, negli ultimi vent’anni la bellissima donna ritratta sul muro non aveva parlato ad altri che a me. Ieri un giovane pittore, un mio connazionale, è venuto a chiedermi una consulenza per una faccenda d’affari, ma non appena ha visto il mio ritratto di Alexandra Ebbling si è subito scordato dei propri impegni. Ha osservato la data sullo schizzo e mi ha chiesto, con fare serio, se sapevo dirgli se la donna era ancora viva. Quando gli ho risposto, si è scostato di un passo dal disegno e ha detto lentamente:

«Da così tanto? Doveva essere molto giovane. Era felice?».

«Ah, quanto a questo, chi può dirlo… di ognuno di noi?» ho risposto. «Di tutto quel che dovrebbe condurre alla felicità, lei ha avuto ben poco.»

Lui si è stretto nelle spalle e si è voltato verso la finestra dicendo:

«Be’, non ha molto senso preoccuparsi di chissà che, quando possiamo stare qui in piedi a guardarla, e tu puoi raccontarmi che è morta da tutti questi anni e che ha avuto così poco.»
Siamo tornati allo scopo della sua visita, ma mentre si accomiatava sulla porta, il suo sguardo turbato si è posato di nuovo sul disegno ed è stato solo voltandosi bruscamente che ha potuto distogliere gli occhi da lei.

Sono tornato al caminetto del mio studio e, mentre la pioggia teneva lontani i visitatori meno avventati, mi restava molto tempo per pensare alla signora Ebbling. Ho persino tirato fuori la piccola scatola che mi aveva regalato, e che non aprivo da anni, e quando la signora Hemway mi ha portato il tè ho a malapena avuto il tempo di chiudere il coperchio ed evitare il suo sguardo di disapprovazione.

La perplessità del mio giovane amico alla vista della signora Ebbling mi ha ricordato la delizia e il dolore che lei mi provocò quando avevo la sua età. Mi sono seduto guardandole il volto, cercando di vederlo attraverso gli occhi di lui – sotto uno sguardo nuovo, come lo era stato il mio sul ponte del Germania, vent’anni prima. Era stata la sua grazia, me lo chiedo spesso, o la sua solitudine, o la sua semplicità, o forse soltanto la mia giovane età? Il suo mistero non era altro che il mistero del Nord da cui proveniva? Penso ancora che lei fosse molto diversa da tutte le donne bellissime e brillanti che ho conosciuto; come la notte è diversa dal giorno, o come il mare è diverso dalla terra. Ecco la nostra storia, così come mi sovviene.

Per due anni avevo studiato italiano e lavorato come impiegato alla legazione americana di Roma, e stavo tornando a casa per assicurarmi il mio primo incarico consolare. Non appena imbarcato sul piroscafo a Genova, controllai che il mio bagaglio fosse in cabina e iniziai un rapido giro del ponte. Tutto prometteva bene. La nave era poco popolata, persino per una traversata in luglio; i ponti erano spaziosi, la giornata perfetta, il mare era azzurro; ero certo che avrei avuto l’incarico e, soprattutto, che sarei tornato in Italia. Erano questi i miei pensieri quando mi fermai di colpo davanti a una sdraio piazzata di traverso vicino alla poppa. A occuparla c’era una donna, dall’aria malata, che giaceva con gli occhi chiusi e tra le braccia aperte aveva una piccola bambina paffuta, dai capelli rossi, addormentata. Ricordo ancora il primo sguardo alla signora Ebbling e il modo in cui mi fermai, come un ingranaggio a cui cade la catena. Il suo splendido corpo vigoroso giaceva immobile e rilassato sotto le pieghe morbide delle sue vesti, il collo e le braccia bianche e i capelli rosso-oro erano immersi nella luce del sole. E che capelli: indomabili come alghe splendenti che si arricciano e ondeggiano con la marea. Per un momento scorsi il suo volto: gli zigomi alti, le guance asciutte, il mento fine che si inarcava verso un collo da ragazzina, e la singolare avvenenza della bocca. Già allora mi sfiorò il pensiero che fosse la bocca a dare al viso la sua peculiare bellezza e distinzione. Era fiera e triste e tenera, e stranamente calma. La curva delle labbra non avrebbe potuto essere intagliata più finemente dallo strumento più delicato, e qualsiasi ombra di emozione che le velasse sembrava partecipare alla loro delizia.

Ma sto correndo troppo. Mentre me ne stavo stupidamente in piedi a guardarla (come se, a venticinque anni, non avessi mai visto una bella donna) la sirena eruppe in un urlo rauco e il ponte sotto di noi cominciò a tremare. La donna aprì gli occhi e la bambina si mise faticosamente a sedere, uscì dall’abbraccio della madre e corse al parapetto. Dopo aver avvicinato la mia sedia alla poppa, rimasi a guardare mentre issavano la passerella e non mi mossi finché non fummo trainati in mare attaccati a una lunga gomena da rimorchio.

La donna sulla sdraio era ancora sola. Era lì da tutto il giorno, a guardare il mare. La bambina, Carin, giocava rumorosamente sul ponte. Di tanto in tanto tornava e si arrampicava con difficoltà sulla sedia, affondava la testa – rotonda e rossa come una piccola zucca – contro la spalla della madre in un abbraccio impetuoso e poi si calava di nuovo giù in un vivace agitarsi di braccia e gambe. La madre approfittava di queste occasioni per sistemare le calzette della figlia o per lisciarle le piccole trecce rosso fuoco; le sue belle mani, piuttosto grandi e molto bianche, indugiavano giocosamente sulla turbolenta bambina con rasserenante tenerezza. Carin chiacchierava in italiano e continuava a chiedere del padre, soltanto per sentirsi dire che era occupato.

Qualche ufficiale della nave quando era di passaggio si fermava a scambiare due parole con la mia vicina, e sentii il comandante in seconda rivolgersi a lei chiamandola signora Ebbling. Quando le parlavano sorrideva riconoscente e rispondeva a voce bassa, in un italiano incerto, ma avevo l’impressione che fosse lieta quando tiravano dritto e la lasciavano alla sua immobile contemplazione del mare. I suoi occhi parevano abbeverarsi di quel colore per tutto il giorno e, dopo ogni interruzione, era là che tornavano. Provavo una sorta di piacere nel guardare la sua soddisfazione, una sorta di eccitamento nel chiedermi che cosa l’acqua le facesse ricordare o dimenticare. Sembrava non volesse parlare con nessuno, ma mi sarebbe piaciuto sapere a cosa stava pensando. Si potevano cogliere accenni dei suoi pensieri, così credevo, dalle ombre che passavano veloci sulle sue labbra, come il riflesso di nuvole leggere. Aveva una pila di libri accanto a sé, ma non leggeva, e nemmeno io ci riuscivo. Smisi di provarci infine, e guardai il mare, pienamente consapevole della sua presenza, quasi anche dei suoi pensieri. Quando il sole si abbassò riflettendole in volto, mi alzai e le chiesi se voleva che le spostassi la sdraio. Sorrise e mi ringraziò, ma disse che il sole le faceva bene. I suoi occhi nocciola chiaro mi seguirono per un momento e poi tornarono al mare.

Dopo il suono della prima campana per la cena, un corpulento uomo in uniforme salì sul ponte e si fermò accanto alla sdraio, guardando dall’alto le sue occupanti con un sorriso di soddisfatto possesso. Il bavero del suo cappotto attillato era nascosto dalle onde di una morbida barba bionda, lunga e folta come i capelli di una donna, che spuntava dal suo volto in una sfavillante profusione. Indossava un grosso anello di turchese sulla solida mano con cui accarezzò bonariamente la testa della piccola. Con lei parlava in italiano, ma lui e la moglie conversavano in qualche lingua scandinava. Restò lì in piedi a lisciarsi la barba finché non suonò la seconda campana, poi si piegò rigido sui fianchi, come un soldato, e diede una lieve pacca alla mano della moglie posata sul bracciolo della sdraio. Si affrettò a scendere dal ponte, studiando i passeggeri che incontrava, e si fermò di fronte a una ragazza snella coi capelli ricci e un cappottino di pizzo, facendole una domanda spiritosa in un inglese fitto. Si misero a parlare di Chicago e scesero sottocoperta. Più tardi lo vidi seduto a capotavola nella sala da pranzo, la riccioluta giovane di Chicago alla sua sinistra. Dovevano essersi conosciuti meglio durante il pasto, dato che per la fine della cena Ebbling sbucciava i fichi per lei e glieli offriva sulla punta della forchetta.

Il dottore mi confidò che Ebbling era l’ingegnere capo e il dandy della nave; ma questa volta si sarebbe dovuto comportare bene, perché aveva portato in viaggio con sé la moglie malata. Aveva un problema a una valvola del cuore, aggiunse, e le sue condizioni erano gravi.

Dopo cena Ebbling scomparve, presumo per occuparsi dei motori, e alle dieci in punto, quando una cameriera venne ad accompagnare la signora Ebbling a letto, fui io che l’aiutai ad alzarsi dalla sdraio, e il secondo ufficiale accorse sul ponte per sostenerla mentre scendeva in cabina. Verso mezzanotte trovai l’ingegnere intento a giocare a carte con il dottore, un ufficiale di marina italiano e il commodoro di uno yatch club di Long Island. La sua faccia era ancora più rubizza che a cena, e la sua bella barba era piena di fumo. Pensai a lungo a Ebbling e a sua moglie prima di addormentarmi.

La mattina seguente ormeggiammo a Napoli per imbarcare il nostro carico e io scesi a terra per la giornata. Tuttavia, non sfuggii all’onnipresente ingegnere, che vidi pranzare con il commodoro di Long Island in un hotel a Santa Lucia. Quando tornai alla nave la sera presto, i passeggeri erano già a cena e trovai la signora Ebbling completamente sola sul ponte deserto. Mi avvicinai e le chiesi se aveva passato una giornata noiosa. Alzò lo sguardo sorridendo e scosse la testa, come se l’italiano le fosse venuto meno. Vidi che aveva le guance arrossate dall’eccitazione e che i suoi occhi dorati brillavano come due limpidi topazi.

«Noiosa? Oh, no! Adoro guardare Napoli dal mare, in questa calura bianca. Sta lì distesa sulle sue colline tra le vigne e ha riso per me tutto il giorno. Sono anche riuscita a riconoscere molti dei posti che mi piacciono di più.»

Sentivo che finalmente aveva davvero voglia di parlarmi. Si era rivolta a me con franchezza, come a una vecchia conoscenza, e pareva che non volesse nascondermi nulla di quello che sentiva. Mi sedetti raggiante di piacere ed eccitamento e le chiesi se conosceva bene Napoli.

«Oh, sì! Ci ho vissuto per un anno appena dopo il matrimonio. Mio marito ha moltissimi amici a Napoli. Ma era quasi sempre in mare, così io giravo sola. Non c’è niente di meglio per conoscere una città. La prima volta ci sono arrivata via mare, come ora. Direttamente a Napoli dalla Norvegia, e non ero mai stata al Sud prima di allora.» La signora Ebbling tacque e guardò oltre le mie spalle. Poi, con un’occhiata rapida ed entusiasta, disse all’improvviso: «Fu come un battesimo del fuoco. Niente è stato più lo stesso da allora. Si immagini questa baia con gli occhi di una ragazza di Finmark. Mi parve come un preludio all’Italia».

Risi: «E poi si risale il Paese – canzone dopo canzone, vino dopo vino».

La signora Ebbling sospirò: «Ah, sì. Dev’essere bello lasciarsi guidare così. Io non mi sono mai allontanata dai porti. Ora viviamo a Genova».

Un cameriere le portò il vassoio della cena, e io mi spostai un poco più avanti vicino al parapetto. Quando mi voltai a guardarla, mi sorrise e annuì come per assicurarmi che non le mancava nulla. Riuscivo a percepire la sua attenzione con tale vividezza, quasi come fosse in piedi al mio fianco.
Il sole era scomparso oltre l’alto crinale dietro la città, e i pini marittimi si stagliavano scuri e piatti contro il riverbero infuocato del tramonto. La foschia lilla che si poggiava sulle lunghe e lievi pendici del Vesuvio era scaldata da una luce dorata, e sottili nubi blu di vapore iniziavano a scendere su Baia. Il cielo, il mare e la città fra di essi erano diventati di un viola scintillante, che sfumava sempre più nel grigio mentre le luci cominciavano a splendere come perle luminose lungo la costa – la collana di un’irrecuperabile regina. Dietro di me sentii una leggera esclamazione; un suono debole, soffocato, ma mi sembrò l’espressione perfetta di quel languore con cui infine ci separiamo dalla bellezza, dopo averla trattenuta fino a ottenebrare i nostri sensi. Quando mi voltai di nuovo verso di lei, mi parve che si fosse addormentata.

Quella notte, mentre prendevamo il largo e le luci di Napoli ammiccavano oltre un tratto sempre più esteso di acque buie, aiutai la signora Ebbling fino ai piedi della scala. Si era sollevata da sola dalla sdraio con grande fatica e si appoggiava a me fiaccamente. Avrei potuto sorreggerla tutta la notte senza fatica.

«Potrei venire a parlare con lei domani?» chiesi. Non mi rispose subito. «Come fossimo vecchi amici?» aggiunsi. Mi porse la sua mano languida e la sua bocca, piegata dallo sforzo del camminare, si ammorbidì. «Grazia» mormorò.

Tornai sul ponte e mi unii a un gruppo di connazionali che, forti di inesauribili informazioni, discutevano della bassezza dell’arte rinascimentale. Erano intelligenti e svegli, e quando si sporgevano in avanti dalle loro poltrone sotto un cerchio di luce, i loro volti mi riportavano alla mente il quadro di Rembrandt sulla lezione di anatomia. Ascoltai tutto il loro discorso, contro la mia volontà, e poi me ne andai a poppa a fumare e a guardare le ultime luci isolate. Il cielo si era annuvolato e un debole vento malinconico sfiorava il mare. Non potevo fare a meno di pensare a come sarei rimasto deluso se l’indomani la pioggia avesse costretto la signora Ebbling nella sua cabina. La mia mente giocava di continuo con la sua immagine. Un momento era nitida proprio di fronte a me, quello dopo lontanissima. A qualsiasi cosa pensassi, una parte della mia coscienza era occupata dalla signora Ebbling; la inseguiva, la trovava, la perdeva, poi l’afferrava di nuovo. Com’era possibile che fossi così conscio di ciò che provava? Che quando era seduta dietro di me e guardava il cielo della sera avessi percepito un senso di velocità e cambiamento, quasi di pericolo; e quando era stata stanca e aveva sospirato, avevo desiderato la notte e la solitudine.

II

Sebbene sia raro pensarci quando siamo giovani, ci sono a volte delle giornate preziose in cui sentiamo un improvviso, superbo orgoglio per la nostra gioventù, per l’agilità dei nostri piedi e la forza delle nostre braccia, per il caldo fluido che scorre tanto sicuro dentro di noi; in cui siamo consapevoli di qualcosa di potente e mutevole nelle nostre membra, che avanza onda dopo onda e ci lascia incoscienti e liberi. Per tutta la mattina successiva sentii questo flusso vitale che mi spingeva di continuo verso la signora Ebbling. Dopo un minimo cenno di saluto, tuttavia, mantenni le distanze. Trovavo piacevole il trattenermi, il misurarmi contro una corrente che alla fine mi avrebbe di certo trascinato con sé. Ero contento di lasciarle osservare il mare – quel mare che sembrava essere entrato in me, tiepido e calmo, immobile e forte. Giocai al lancio della mattonella col commodoro, che era preoccupato di mantenersi in forma, e corsi sul ponte con in spalla le tozze gambe della piccola Carin pel di carota. Fu solo quando la bimba scese per fare il pisolino pomeridiano che decisi di farmi avanti e mi avvicinai alla madre.

«Oggi state meglio!» esclamai guardando la sua veste bianca. Arrossì irragionevolmente e io risi prendendomi una tale confidenza che lei dovette considerare la mia risata come il semplice e sciocco rumore della felicità, o le sarebbe sembrata impertinente.

Parlammo dapprima di centinaia di frivolezze, e guardammo il mare. La costa della Sardegna giaceva da ore alla nostra sinistra e sarebbe rimasta lì per molte ore a venire, ora avanzando coi suoi promontori rocciosi, ora ritirandosi dietro baie azzurre. Era la brulla costa a sud dell’isola e, nonostante la nostra rotta passasse molto vicino alla sponda, non vedemmo né villaggi né case; non c’era nemmeno la capanna di un pastore di capre nascosta tra le basse dune di sabbia rosata. Dune di sabbia rosata e promontori gialli; macchie di arbusti dai colori spenti vi si ammassavano alla base e crescevano lungo corsi d’acqua ormai asciutti. Una sottile striscia di spiaggia riluceva come una pennellata bianca tra il mare violaceo e le rocce color terra di Siena, e l’intera isola splendeva nella luce gialla del sole e nell’aria traslucida. Non un’onda si infrangeva sul lembo di sabbia bianca, non un’ombra di nuvola balenava sulle dune spoglie. Nell’aria intorno a noi non c’era altro suono se non quello di uno scafo che solcava rapido le acque del tutto immobili. Sembrava una grande creatura marina, che nuotava silenziosa, col capo ben alzato. Il mare davanti a noi era tanto ricco e denso e opaco che poteva essere fatto di lapislazzuli. Era di un blu leggendario, senza dubbio; il colore che placa l’anima come il sonno.

Ed è del mare che parlammo, poiché era la sostanza della storia della signora Ebbling. Pareva che si fosse sempre mossa come trascinata dalle correnti degli oceani, calde o fredde, e che avesse sempre gravitato sul limitare delle vaste acque. Era nata e cresciuta in un piccolo villaggio di pescatori sul Mar Glaciale Artico. Suo padre era un medico, vedovo, che viveva con la figlia e divideva il proprio tempo tra i libri e la canna da pesca. Suo zio era capitano di un piccolo vascello, e con lui aveva fatto molti viaggi lungo la costa norvegese. Ma nei suoi pensieri e nelle sue letture c’erano sempre gli azzurri mari del Sud.

«C’era una bizzarra vecchia signora nel nostro villaggio, la signora Ericson, che era andata in Italia da giovane. Era stata a Roma per studiare arte, e là aveva copiato moltissimi dipinti. Aveva parecchie conoscenze, ma pochi soldi, e invecchiando vendette uno a uno i suoi dipinti, finché nella nostra provincia rimasero ben poche le famiglie benestanti che non possedevano un quadro della signora Ericson. Ma si era portata a casa molte altre stranezze: un piccolo arbusto di arancio di cui si è presa cura fino al giorno della sua morte, pezzi di marmo colorato, conchiglie e frammenti di corallo, un’esile ampolla piena di acqua del Mediterraneo. Quando ero bambina mi mostrava le sue cose e mi raccontava del Sud, dei pescatori di corallo, delle isole rosate, delle montagne fumanti e della vecchia Napoli sotterranea. Immagino che l’acqua della sua ampolla non avesse nulla di speciale, ma a me è sempre parso il contrario. Aveva un aspetto così vibrante e vivo, tanto da farmi credere che se qualcuno avesse stappato la boccetta sarebbe potuto saltar fuori qualcosa di penetrante e fecondo che avrebbe gettato un incantesimo su Finmark.»

Lars Ebbling, venni a sapere, era uno degli amici di suo padre. Se lo ricordava dal tempo in cui lei era bambina e lui un galante giovanotto che quando tornava a casa dal mare portava scompiglio nel villaggio. Dopo che ebbe ottenuto una promozione su una nave da crociera e partì per il Sud, non lo vide fino all’estate in cui compì vent’anni, quando lui tornò a casa per sposarla. Erano passati cinque anni da allora. La bambina, Carin, ne aveva tre. Da come lei ne parlava si sarebbe potuto pensare che Ebbling fosse padrone dell’intero Mediterraneo e delle terre confinanti, e che potesse tenerla lontana a proprio piacimento. Lei sembrava non considerare nemmeno i diritti che aveva come moglie.

Ma sprecammo poco tempo su Lars Ebbling. Parlammo, come fanno i giovanissimi, d’armi ed eroi, del mare sotto di noi e delle sponde che lambiva. Ci lasciammo trasportare oltre noi stessi, poiché eravamo al cospetto di ciò che è proprio della gioventù e che mai cambia, ci sorvolava e svaniva. Domani non ci sarebbe stato più, e nessuno sforzo di volontà o memoria l’avrebbe portato indietro. Tutto intorno a noi c’era il mare delle grandi avventure e, sotto di noi, impigliate da qualche parte nelle sue splendenti maglie, c’erano le ossa di nazioni e flotte… le stesse nazioni e flotte che davano alla gioventù le sue speranze e rendevano la vita qualcosa di più di una brama delle viscere. La costa disabitata della Sardegna si dispiegava dolcemente davanti a noi, come fosse ciò che rimaneva di un mondo ormai perso, un luogo dove non c’erano state altre novità da quando le navi mercantili avevano portato notizie dell’antica Azio.

«Non andrò mai in Sardegna» disse la signora Ebbling. «Non potrà mai essere più bella di così.»

«Nemmeno io» replicai.

Mentre scendevo a cena quella sera fui fermato da Lars Ebbling, pettinato di fresco e profumato, con indosso un’uniforme bianca, tirato a lucido e scintillante come uno dei suoi motori. Mi sorrise con la sua classica affabilità. «Siete stato gentile a parlare con mia moglie» spiegò. «È così brutto per lei stare su questa nave senza saper parlare inglese. Vi sono debitore.»
Risposi secco che si stava sbagliando, ma il mio livore non scalfì la sua mitezza. Capii che avrei di certo colpito quell’uomo se fosse rimasto lì appena più a lungo, a passarsi l’anello turchese lungo la barba. Forse avrei odiato chiunque fosse stato il marito della signora Ebbling, ma quel tale mi nauseava.

III

Il giorno seguente iniziai il mio ritratto della signora Ebbling. Mi era sembrata lusingata e un po’ perplessa quando le avevo chiesto di posare per me. Mi resi conto che si era sempre trovata circondata da persone insulse che davano per scontato il suo aspetto, e che non si rendeva affatto conto di essere davvero bella. Rivedo ora quel suo sguardo di piacere fugace e confuso. Avevo riflettuto molto poco su quel ritratto allora, se non che farlo mi avrebbe dato la possibilità di studiare il suo volto, di guardare finché avessi voluto i suoi occhi dorati, la mirabile linea delle labbra, i suoi splendidi e vigorosi capelli.

«Da dove vengo c’è una pianta rampicante gialla» le dissi, «che mi ricorda molto i suoi capelli. Sembra che cresca a vista d’occhio, e si avvolge e si aggroviglia su se stessa allungando i tralci nel vento.»

«Ha un nome?»

«Noi la chiamiamo edera amorosa.»

Come bastò un’inezia a sconvolgerla!

Quanto a me, niente poteva sconvolgermi. Mi svegliavo ogni mattina con un senso di sveltezza e di gioia. Di notte adoravo sentire il fruscio dell’acqua sullo scafo. Veloci quanto i motori potevano spingerci, veloci quanto l’acqua poteva portarci, avanzavamo verso qualcosa di incantevole, verso qualcosa che ci avrebbe visti insieme. Quando la signora Ebbling mi disse che lei e il marito sarebbero rimasti cinque giorni in porto a New York per poi tornare a Genova, la cosa non mi turbò, perché non le credevo. Andavo e venivo, e lei sedeva immobile tutto il giorno, a guardare il mare. Sentii una signora americana dire che guardava il mare come chi sta per morire, ma nemmeno questo mi spaventò: in qualche modo sentivo che mi aveva promesso di vivere.

Durante tutti quei lunghi giorni tinti d’azzurro in cui le sedevo accanto per parlare di Finmark e del mare, deve aver saputo che l’amavo. Sedevo con le mani abbandonate sulle ginocchia e lasciavo che in me salisse la marea. Mi trasportava in modo tanto repentino, da una parte all’altra della ristretta porzione di ponte che ci separava, che deve aver influenzato anche lei, almeno un poco. Non era mia intenzione turbarla o angosciarla. Se anche solo un granello, un minuscolo granello di tutto questo l’aveva raggiunta, ne ero soddisfatto. Se l’aveva attratta lievemente, ma nondimeno attratta, non desideravo altro. A volte vedevo che persino la leggera pressione dei miei pensieri la faceva impallidire. Una sera tranquilla, dopo una lunga chiacchierata, mi sussurrò: «Deve alzarsi e andare ora, e… non mi pensi». L’avevo tenuta troppo stretta e troppo a lungo nei miei pensieri, e mi pregava di liberarla per un momento. Andai a prua e la misi lontano, all’orizzonte, tra le stelle più tenui, e pensai a lei gentilmente attraverso l’acqua. Quando tornai da lei, stava dormendo.

Ma persino in quei primi giorni passavo delle ore infelici. Perché, per esempio, era dovuta nascere a Finmark, e perché aveva dovuto essere Lars Ebbling la sua unica via di fuga? Perché doveva congedarsi silenziosa dal mondo nell’età in cui io lo stavo appena iniziando a vivere, e senza aver avuto nulla, nulla di ciò che vale davvero la pena avere?

Non parlava mai di quando se ne sarebbe andata, eppure a volte sentivo come se contasse i tramonti. In un pomeriggio dorato, mentre scivolavamo tra le coste di Spagna e Africa, mi parlò della sua malattia per la prima volta. Avevo preso delle magnolie a Gibilterra, e lei ne indossava alcune sul corsetto e il resto giaceva sul suo grembo. Si poggiava le foglie fresche sulla guancia e con le dita accarezzava i petali bianchi. «Non potrei mai» commentò «averne abbastanza dei fiori del Sud. Mi lasciano sempre senza fiato, proprio come la prima volta. È per loro che dovrei desiderare di vivere a lungo – quasi per sempre.»

Mi chinai in avanti e la guardai. «Potremmo vivere per sempre se avessimo abbastanza coraggio. Morire fa parte delle nostre vite. Se avessimo il coraggio di cambiare tutto, di scappare su una costa azzurra come quella laggiù, potremmo vivere e vivere, finché non ne saremo stanchi.»

Mi sorrise tollerante e guardò verso sud con gli occhi socchiusi. «Temo che non avrei mai abbastanza coraggio, nemmeno per andare oltre quella montagna. La guardi, sembra nascondere cose orribili.»

Una foschia marina, venuta dall’Atlantico, iniziò a mascherare l’imperturbabile costa africana, e sopra la nebbia il grigio picco montuoso sfidava il rosso rabbioso del tramonto. Bruciò cupo e minaccioso finché la terra scura non attrasse la notte su di sé confondendosi con il mare. Lo guardammo sprofondare mentre sotto di noi, lentamente ma con sempre più vigore, sentivamo il pulsare dell’Atlantico andare e venire, il fremito delle vaste, indomite acque di quel mare tetro e passionale. Avvolsi lo scialle intorno alla signora Ebbling e coprii le magnolie con il tessuto. Quando la lasciai, fece scivolare fuori per me un fiore caldo e bianco.

IV

Dallo Stretto di Gibilterra piombammo nell’abisso, e al mattino navigavamo nel mezzo di un mare che ci trascinava verso il basso e ci tratteneva nel profondo, agitandoci dolcemente avanti e indietro fino a far scricchiolare le travi e poi ci faceva sfrecciare in alto sulla cresta di una gonfia montagna. L’acqua era vivida e blu, ma talmente fredda che il suo alito penetrava nelle ossa, come se il gelo delle profonde leghe in fondo al mare fosse stato liberato su di noi. Non c’erano più di una dozzina di persone sul ponte quella mattina e la signora Ebbling aveva trovato riparo a poppa, infagottata in una giacca a vento, gocce di umidità poggiate sulle lunghe ciglia e sui capelli. Quando una pioggia di spruzzi ghiacciati risaliva fino al parapetto, l’accoglieva con gioia.

«Dopotutto» insistette, «è questo il mare che mi appartiene, il mare in cui sono nata. Cugino primo delle acque del Polo, mentre il mare che ci siamo lasciati alle spalle non è che una sorta di fiaba. È come un vulcano ormai spento, i suoi giorni sono finiti. Ecco il vero mare, dove accadono le cose del mondo.»

«Ma non è questa la nostra realtà, in ogni caso» obiettai.

«Certo che lo è! Sono queste le acque che portano gli uomini al lavoro, e porteranno anche lei al suo.»

Mi sedetti a guardare i suoi capelli diventare sempre più vivi e iridescenti con l’umidità. «Le piace darsi un tono» lamentai.

«No, non amo la realtà in modo particolare, ma devo accettarla ugualmente.»

«E chi siamo noi per definire la realtà?»

«Le nostre menti la definiscono a sufficienza, la sua e la mia, e quella di tutti. Sono i confini che non oltrepassiamo mai, per quanto fuggiamo dall’equatore al Polo. Non me ne sono mai davvero andata da Finmark, è certo. Vivrò e morirò in un villaggio di pescatori sull’Artico, i mari blu e le isole rosate non restano altro che un sogno. E tuttavia, continuerò a sognarle.»

La corrente del golfo ci regalò ancora giornate calde e azzurre, ma pallide, come tristi ricordi. L’acqua si era scolorita e la sottile luce tiepida del sole stringeva il cuore. Le stelle ci guardavano fredde e sembrava sempre che volessero chiedermi cosa avevo intenzione di fare. Il procedere della rotta sulla mappa – che all’inizio era sembrato privo di importanza – cominciò ad assumere significato, e il vento dell’ovest portava con sé inquietanti paure e presentimenti. Avevo il sonno leggero e durante il giorno ero irrequieto e dubbioso, tranne quando ero con la signora Ebbling. Lei mi quietava, come faceva con la piccola Carin e mi placava senza dire una parola, come aveva fatto quella sera a Napoli mentre guardavamo il tramonto. Mi pareva che giorno dopo giorno i suoi occhi si facessero più teneri e le sue labbra più calme. Una sorta di risolutezza sembrava essersi raccolta attorno alla sua bocca, e io la temevo. Tuttavia, quando con un’involontaria occhiata le feci la domanda che mi angosciava, i suoi occhi fissarono i miei con fermezza, profondi, gentili e pieni di conforto. Che alla fine ritrovai la parola, capitò per puro caso.

La seconda notte che passammo lontani dalla costa ci fu un concerto per gli orfani dei marinai, e la signora Ebbling si vestì e scese a cena per la prima volta, seduta alla destra del marito. Non ero l’unico lieto di vederla. Anche le donne ne erano contente. Indossava un abito da sera verde pallido dal quale emergeva regale in bianco e oro. Ero così orgoglioso che arrossivo quando qualcuno le rivolgeva la parola. Dopo cena, mentre lei parlava col marito in piedi vicino alla sua solita sdraio, la gente cominciò a scendere per il concerto. Prese un lungo mantello e cercò di indossarlo. L’aria faceva svolazzare quel capo leggero, e Ebbling chiacchierava esibendo il suo sorriso di circostanza mentre lei lottava contro il vento. All’improvviso i suoi occhi rapaci scorsero la ragazza di Chicago, che stava avendo la stessa difficoltà coi suoi drappeggi, e così percorse impettito metà del ponte per poterla assistere. Io osservavo dal parapetto e quando lei fu sola gettai il mio sigaro e aiutai la signora Ebbling alla meglio.

«Non scenda» supplicai. «Resti quassù. Voglio parlarle.»

Esitò un momento e mi guardò pensosa. Poi, con un sospiro, si sedette. Tutti si affrettavano giù nel salone, e finalmente rimanemmo soli, al riparo della poppa, circondati da una spessa tenebra e da un tiepido vento che da est soffiava sul mare. Ero troppo adirato e irritato per parlare. Mi chinai verso di lei, afferrando il bracciolo della sua sedia con entrambe le mani, e iniziai a casaccio.

«Ricorda le due sponde blu dopo Gibilterra? Ne scelga una e venga con me. Non ho molti soldi, ma in qualche modo ce la caveremo. Tutto questo dovrà avere una fine. Nessuno di noi due è codardo e la situazione è umiliante, intollerabile.»

Sedeva guardandosi le mani, così tirai con impazienza la sua sedia verso di me.

«Me lo sentivo» disse «che mi avrebbe detto una cosa del genere. Lei è dispiaciuto per me e io non voglio essere compatita. Crede che Ebbling mi trascuri, ma si sbaglia. Anche lui ha avuto le sue delusioni. Vorrebbe dei bambini e una casa allegra e ospitale, invece è legato a una donna malata che non si trova bene tra la gente. Ne avrebbe più di me di che lamentarsi, eppure mi sopporta. Io gli sono grata e non c’è altro da aggiungere.»

«Davvero non c’è altro?» gridai. «E io?»

Appoggiò una supplichevole mano sulla mia spalla. «Ah, lei! Lei! Non mi chieda di parlarne. Lei…» Le sue dita scivolarono sulla manica del cappotto fino alla mia mano e la strinsero. Le presi entrambe le mani e le tenni strette, dicendole che non avrei mai voluto lasciarle.

«E pensi di lasciarmi dopodomani, di dirmi addio come a chiunque altro su questa nave? Pensi di abbandonarmi alla deriva così, col cuore in fiamme e l’intera vita ancora da spendere?»

Sospirò abbattuta: «Sono disposta a soffrire – qualsiasi cosa debba soffrire – per averti avuto», rispose semplicemente. «Ero malata – e tanto sola – e tutto è stato così improvviso e facile. Ah, non portarmi rancore! Non lasciarmi con amarezza. Se ho sbagliato, perdonami». Abbassò la testa e mi strinse le dita con fare di supplica. Una lacrima calda mi cadde sulla mano. Capii che sopportava la mia rabbia come sopportava i capricci della piccola Carin, come sopportava Ebbling. Quanta meschinità la circondava! Ricaddi nella sedia e abbandonai le mani lungo i fianchi. Mi sentivo come una creatura dalla schiena spezzata. Le chiesi cosa voleva che facessi.

«Non chiederlo a me» sussurrò. «Non c’è nulla che possiamo fare, pensavo lo sapessi. Te ne dimentichi… io sono troppo malata per cominciare una nuova vita. Anche se non ci fossero altri ostacoli, basterebbe questo. Ed è proprio questo che ha reso possibile ogni cosa, il nostro amore, intendo. Se fossi stata in salute, non avremmo mai avuto così tanto. Non rimproverarmi. Non è stato forse bello per te trovarmi ad aspettarti tutte le mattine, sentire che ti pensavo mentre ti addormentavi? Ogni notte ho guardato il mare per te, come fosse mio e l’avessi fatto io, e ho ascoltato l’acqua che scorreva accanto a te, pieno di sonno, gioventù e speranza. E ricordavo tutto quel che avevi detto o fatto durante il giorno e quando andavo a dormire era solo per sentirti ancora di più. Vedi, non c’è stato nessun altro; nel buio non ho mai pensato ad altri che a te.» Parlò implorante e la sua voce era sprofondata così in basso che potevo sentirla a malapena.

«E tuttavia non vuoi fare niente» gemetti. «Non vuoi osare niente. Non vuoi darmi niente.»

«Non dire così. Quando ti lascerò dopodomani, ti avrò dato tutta la mia vita. Non so dirti come, ma è vero. C’è qualcosa dentro di noi che non appartiene alla famiglia, né alla società, e nemmeno a noi stessi. A volte lo si dona nel matrimonio, a volte nell’amore, ma più spesso non lo si dona affatto. Non sta a noi darlo o trattenerlo. È qualcosa di selvaggio che canta in noi una sola volta e poi vola via senza più tornare, e il mio è volato da voi. Amarsi così può essere abbastanza, in qualche modo. Il resto delle cose può scomparire, se deve. Ed è per questo che io posso vivere senza di te, e morire senza di te.»

Le presi le mani e la guardai negli occhi che brillavano caldi nell’oscurità. Rabbrividì e sussurrò in un tono così diverso da qualunque altro le avessi mai sentito: «Mi porti rancore? Sei così giovane e forte, hai ancora tutto davanti. A me rimane solo un breve tempo per averti dentro – anche se potrei desiderarti per sempre senza mai stancarmi». Le baciai i capelli, le guance, le labbra, finché la sua testa non cadde sulla mia spalla e lei spinse via il mio viso con dolci dita tremanti. Prese la mia mano e la strinse a sé, fra le sue. Sedevamo in silenzio, i minuti passavano, portandoci sempre più vicini, il vento e l’acqua scorrevano veloci accanto a noi, cancellando i nostri domani e tutti i nostri ieri.

Il giorno seguente la signora Ebbling restò in cabina, mentre io sedetti stupidamente accanto alla sua sedia fino a sera, con la turbolenta bambina a tenermi compagnia, e qualche occasionale cenno di saluto dell’ingegnere.

Rividi la signora Ebbling solo per qualche istante, mentre entravamo nel porto di New York. Indossava un abito da passeggio e un cappello, bastavano quelli a farla apparire già lontana da me. Era molto pallida e mentre mi parlava teneva lo sguardo basso, come se si sentisse colpevole di avermi fatto un torto. Non sono mai stato capace di ricordare quella conversazione senza dolore e vergogna, ma allora ero così disperato da non badare a niente. Rimasi fermo come un palo e lasciai che si avvicinasse, che mi parlasse, che mi lasciasse. Venne verso di me come se fosse una cosa difficile da fare, e mi porse un pacchetto, timidamente, la sua mano guantata tremava come se avesse paura di me.

«Voglio darle una cosa» disse. «Adesso non la vorrà, quindi le chiedo solo di tenerla finché non avrà mie notizie. Mi ha dato il suo indirizzo tempo fa, mentre faceva quel ritratto. Un giorno le scriverò e le chiederò di aprirlo. Stamattina non deve venire a dirmi addio, ma io la guarderò quando scenderà a terra. Per favore, non se lo dimentichi.»

Presi la scatolina con un gesto meccanico e la ringraziai. Credo che i miei occhi si fossero riempiti di lacrime, poiché lei reagì con un’esclamazione di pietà, toccò rapida la mia manica e mi lasciò. Fu una di quelle strane esclamazioni basse e musicali che significano tutto e niente, come quella che mi aveva emozionato quella notte a Napoli, e fu l’ultimo suono che udii dalle sue labbra.

Un’ora più tardi scesi a terra, tra i primi ad affollare la passerella non appena fu abbassata. Ma il pomeriggio seguente vagai fino a tornare al molo e salii a bordo del Germania. Chiesi dell’ingegnere e lui risalì in maniche di camicia dalla sala macchine. Era rosso e scarmigliato, irritato e volubile; nei suoi occhi c’era un bagliore spietato e non una volta vidi il suo esperto sorriso di circostanza. Quando udì la mia richiesta divenne offensivo. La signora Ebbling era ripartita per Brema sull’Hobenstauffen alle undici di quella stessa mattina. Aveva deciso di tornare sulla rotta settentrionale e far visita al padre in Norvegia. Non era in condizioni di viaggiare da sola, disse. Era evidentemente ferito dalla sua stravaganza. Ma chi mai, chiese picchiando un pugno sul parapetto, poteva mettersi tra una donna e il suo capriccio? Era sempre stata una ragazza ostinata, e alle spalle aveva un padre troppo affettuoso. Quando si metteva in testa una cosa non c’era verso di trattenerla; si sarebbe dovuta sposare l’Artico. Penso che Ebbling stesse ancora parlando quando me ne andai.

Passai quell’inverno a New York. Il mio incarico consolare ritardava (in verità non lo perseguivo con troppo entusiasmo) e così ebbi molte ore vuote per pensare alla signora Ebbling. Lei non aveva mai fatto il nome del villaggio del padre, e io non so come, non ebbi mai la forza di tornare al molo quando attraccava la nave di Ebbling per chiedere notizie su di lei. Più di una volta decisi di andare in Norvegia per cercarla; la gente di mare avrebbe saputo da dove veniva Ebbling. Ma non lo feci mai. Spesso mi sono chiesto perché. Ogni volta che la mia determinazione era salda e il mio coraggio al massimo, ogni volta che potevo quasi sentirla vicina, d’improvviso tutto si sgretolava sotto ai miei piedi e io ripiegavo come avevo fatto quella notte, quando le avevo lasciato le mani dopo averle detto, solo un attimo prima, che mai le avrei abbandonate.

Nel crepuscolo di un piovoso giorno di marzo, con le grondaie fuori piene di acqua scura e la piazza che si scioglieva sotto strati di neve sporca, la governante mi portò una lettera umida con un francobollo straniero sbiadito. Proveniva da Niels Nannestad, mi scriveva che era suo triste compito informarmi che sua figlia, Alexandra Ebbling, era morta il due febbraio, all’età di ventisei anni. Rispettando la sua richiesta, aveva accluso una lettera che lei mi aveva scritto poco prima di morire.

Alla fine trovai la forza di rompere il sigillo della seconda lettera. Diceva così:

«Amico mio…

Ora puoi aprire il pacchetto che ti diedi. Posso chiederti di tenerlo? L’ho dato a te perché nessun altro saprebbe prendersene cura nel modo giusto. Fin da quando ti ho lasciato ho pensato a come sarebbe stato vivere una vita amando e venendo amati così. Non era la vita che dovevo vivere, eppure, in un certo modo, l’ho vissuta fin da quando ti ho incontrato.

Naturalmente ora capirai perché non potevo venire con te. Ti avrei rovinato la vita. Inoltre, ero malata… e troppo orgogliosa per darti solo l’ombra di me stessa. Avrei avuto molto da darti, se solo fossi arrivato prima. Ma in quello stato, mi vergognavo. A volte resta solo la vanità a salvarci, e la mia ti ha salvato. Grazie di tutto. Ho tenuto questa lettera sul cuore, dove una volta ho tenuto la tua mano.
Alexandra».

Il tramonto si era ispessito nella notte ben prima che io mi alzassi dalla sedia e prendessi il pacchetto dal suo posto nel cassetto dello scrittoio. Lo aprii e sollevai una grossa ciocca di capelli, tagliata proprio dove le erano cresciuti più folti e lucidi. Era legata stretta a un’estremità, e quando si srotolò sul mio braccio si arricciò e si avviluppò alla manica come fosse una cosa viva lasciata libera. Come splendeva e come splende tutt’ora alla luce del camino! Era calda e soavemente profumata vicino alle mie labbra, si muoveva al mio respiro come un’alga nella marea. Questo, e un fiore di magnolia appassito, e due conchiglie rosa: nulla più. Ed è accaduto già vent’anni fa.

*Traduzione di Elisa Ronchi

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