Con il suo vestito blu, le guance appena arrossate, gli occhi azzurri azzurri e i boccoli color dell’oro raccolti come fosse la prima volta – raccolti per non intralciare il suo volo – la figlia della signora Raddick sembrava essere appena discesa da un radioso paradiso. Lo sguardo timoroso, lievemente stupito, ma di profonda ammirazione della signora Raddick faceva pensare che lo credesse anche lei; ma sua figlia non sembrava affatto contenta – perché mai avrebbe dovuto? – di essersi posata sulla scalinata del Casinò. Anzi, era annoiata – annoiata come se il Paradiso fosse stato pieno di casinò con vecchi santi alticci a fare da croupier e corone con cui giocare.
«Non le dispiace occuparsi di Hennie?» disse la signora Raddick. «Davvero non le dispiace? C’è la macchina e andrete a prendervi un tè e noi saremo di ritorno qui su questo gradino – proprio qui – tra un’ora. Sa, vorrei che lo vedesse. Non c’è mai stata e ne vale la pena. Sarebbe una mancanza nei suoi confronti.»
«Oh, sta’ zitta mamma» intervenne lei, seccata. «Vieni. Parli troppo. E la tua borsa è aperta; perderai di nuovo tutti i soldi.»
«Scusami, tesoro» disse la signora Raddick. “Oh, dai, entra! Voglio vincere qualcosa» disse la voce impaziente. «Per te è tutto molto facile… io invece sono al verde!»
«Ecco… prendi cinquanta franchi, tesoro, prendine cento!» Vidi la signora Raddick spingerle in mano delle banconote mentre attraversavano le porte a vento.
Hennie e io restammo un minuto sulla scalinata, a osservare le persone. Aveva un sorriso ampio e soddisfatto.
«Guarda» gridò, «è un bulldog inglese. Possono entrare i cani lì dentro?»
«No, non possono.»
«Non è una meraviglia? Vorrei averne uno. Sono uno spasso. Spaventano tantissimo le persone e non sono mai aggressivi con i loro… con le persone a cui appartengono.» All’improvviso mi strinse il braccio. «Guarda, guarda quella vecchia signora. Chi è? Perché ha quell’aspetto lì? È una che gioca?»
La decrepita, avvizzita creatura, con indosso un vestito di raso verde, un mantello di velluto nero e un cappello bianco dalle piume viola, si muoveva lenta, lenta su per la scalinata, a scatti, come fosse trainata da cavi. Guardava fisso di fronte a sé, rideva e annuiva e parlottava da sola; le dita adunche strette intorno a quella che pareva una sporca sacca per stivali.
Ma proprio in quel momento ecco ricomparire la signora Raddick con – lei – e un’altra signora, esitante, sullo sfondo. La signora Raddick si precipitò verso di me. Le guance leggermente arrossate, allegra, era una creatura diversa. Come una donna che sta dicendo «arrivederci» ai suoi amici sulla banchina della stazione e che non ha un minuto da perdere prima che il treno inizi a muoversi.
«Ah, siete ancora qui. Che fortuna! Non ve ne siete andati. Che bello! Sono incappata in uno spiacevole contrattempo con… lei» e fece un cenno con la mano in direzione della figlia, che stette immobile, sdegnosa, lo sguardo rivolto verso il basso, mentre rigirava la punta del piede sul gradino, la mente altrove. «Non la fanno entrare. Ho giurato che ha ventun anni. Ma non mi credono. Ho fatto vedere la mia borsa a quell’uomo; ma non ho osato insistere. Non è servito a nulla. Ha semplicemente sghignazzato… E ora ho appena conosciuto la signora MacEwen di New York che ha appena vinto tredicimila franchi nella Salle Privée – e vuole che rientri con lei finché la fortuna ci assiste. Naturalmente non posso lasciare – lei – da sola. Ma se potesse…»
A quel punto «lei» alzò lo sguardo e fulminò la madre. «Perché non puoi lasciarmi da sola?» disse furiosa. «Che assurdità! Come osi fare una scenata simile? Questa è l’ultima volta che esco con te. Non ci sono parole per descriverti.» Squadrò la madre dall’alto in basso. «Calmati» le disse, superba.
La signora Raddick era disperata, semplicemente disperata. Era «entusiasta» all’idea di seguire la signora MacEwan, ma al contempo…
Presi coraggio. «Vuole… le piacerebbe venire a prendere il tè con… noi?»
«Sì, sì, ne sarà felice. È esattamente quel che volevo, non è così, tesoro? La signora MacEwan… Sarò qui tra un’ora… o meno… Io…»
La signora R. si precipitò su per la scalinata. Vidi che la sua borsa era di nuovo aperta.
E così rimanemmo noi tre. Ma non per colpa mia. Anche Hennie sembrava molto turbato. Quando la macchina arrivò lei si avvolse nel suo cappotto scuro – per evitare di sentirsi contaminata. Persino i suoi piedini parevano rifiutarsi di condurla giù per la scalinata fino a noi.
«Sono davvero spiacente» mormorai mentre la macchina iniziava a muoversi.
«Oh, non fa nulla» disse lei. «Non voglio dimostrare ventun anni. Chi mai lo vorrebbe – a diciassette! È» e rabbrividì leggermente «la stupidità che disprezzo e gli uomini vecchi e grassi che mi fissano. Animali!».
Hennie la guardò per un istante e poi concentrò lo sguardo fuori dal finestrino.
La macchina si fermò accanto a un imponente palazzo di marmo bianco e rosa, con all’esterno, accanto alle porte d’ingresso, aranci in vasi color nero e oro.
«Le va di entrare?» proposi.
Lei esitò, diede un’occhiata, si morse il labbro e si rassegnò. «Be’, pare non ci sia altro» disse. «Esci, Hennie.»
Entrai prima di loro – per prendere il tavolo, ovviamente – lei mi seguì. Ma la cosa peggiore era che con noi c’era il suo fratellino, di soli dodici anni. Quella era la goccia che fa traboccare il vaso – quel bambino che le stava alle calcagna.
C’era un tavolo. Sopra, garofani rosa e piatti rosa con dei tovagliolini blu a mo’ di vela.
«Ci vogliamo accomodare qui?»
Con fare stanco lei posò la mano sullo schienale di una sedia di vimini bianca.
«Potremmo. Perché no?» disse.
Hennie le si infilò accanto contorcendosi per raggiungere uno sgabello all’altro capo del tavolo. Si sentiva tremendamente escluso. Lei nemmeno si tolse i guanti. Abbassò lo sguardo e con le dita tamburellò sul tavolo. Al flebile suono di un violino si irrigidì e di nuovo si morse il labbro. Silenzio.
Apparve la cameriera. Non osavo chiedere. «Tè… caffè? Tè cinese… o tè freddo al limone?»
Non le interessava. Per lei era lo stesso. Davvero, non voleva nulla. Hennie sussurrò: «Cioccolata!»
Ma proprio quando la cameriera si allontanò, lei disse ad alta voce, incurante:
«Ne porti pure una anche a me.»
Nell’attesa tirò fuori un piccolo portacipria d’oro, con uno specchietto nel coperchio, scosse il povero piumino come se lo disprezzasse e se lo picchiettò sul naso.
«Hennie» disse, «sposta quei fiori». Indicò i garofani con il piumino e la sentii borbottare: «Non sopporto i fiori sul tavolo». Era evidente il profondo fastidio che le stavano provocando, poiché quando li allontanai chiuse gli occhi in segno di assenso.
La cameriera tornò con la cioccolata e il tè. Posò le due grandi tazze schiumose davanti a loro e spinse verso di me il bicchiere trasparente. Hennie vi affondò il naso, che riemerse, per un terribile momento, con un piccolo, tremolante sbuffo di panna sulla punta. Ma rapido lo asciugò come un piccolo gentiluomo. Mi domandai se fosse il caso di attirare l’attenzione di lei sulla tazza. Non l’aveva notata – non l’aveva vista – finché all’improvviso, quasi per caso, bevve un sorso. Osservai inquieto; lei tremò appena.
«Troppo dolce!» disse.
Un giovanotto minuto con un cespuglio di ricci in testa e un corpo color del cioccolato si avvicinò con un vassoio di pasticcini – una fila dopo l’altra di piccole stravaganze, piccole ispirazioni, piccoli sogni che si sciolgono in bocca. Li offrì a lei. «Oh, non ho affatto fame. Li porti via.»
Li offrì a Hennie. Hennie mi lanciò un rapido sguardo – dovette esserne soddisfatto – poiché ne prese uno al cioccolato, un éclair al caffè, una meringa ripiena di castagna e una piccola cornucopia ricolma di fragole fresche. Lei a stento riusciva a guardarlo. Ma proprio quando il giovanotto si allontanò, sollevò il piatto.
«Ma sì, me ne dia uno» disse.
Le pinze d’argento ne fecero cadere uno, due, tre – e un pasticcino alla ciliegia.
«Mi chiedo perché me ne stia dando così tanti» disse, e quasi sorrise. «Non li mangerò; non ci riuscirei!»
Mi sentii molto più a mio agio. Sorseggiai il mio tè, mi appoggiai allo schienale e chiesi persino il permesso di fumare. A quel punto lei si fermò, la forchetta tra le dita, spalancò gli occhi e questa volta sorrise davvero. «Ma certo» disse. «Mi aspetto sempre che la gente lo faccia.»
Ma in quel momento Hennie fu vittima di una tragedia. Strinse con troppa forza la sua piccola cornucopia, che si spezzò, e una delle due metà rovinò sul tavolo. Che faccenda incresciosa! Arrossì. Persino le sue orecchie avvamparono e una mano mortificata si mosse furtivamente sul tavolo per sottrarre quel che rimaneva del corpo del reato.
«Piccolo mostriciattolo che non sei altro!» disse lei.
Santo cielo! Dovetti correre in suo soccorso. Rapido dissi ad alta voce: «Si tratterrà all’estero a lungo?».
Ma si era già dimenticata di Hennie. E anche di me. Tentava di ricordare qualcosa… Aveva la mente altrove.
«Non… lo… so…» disse lentamente, da quel luogo lontano.
«Immagino preferisca qui a Londra. È più, più…»
Non terminai la frase e allora fu di ritorno e mi guardò, molto perplessa.
«Più…?»
«Enfin, allegro» dissi ad alta voce, agitando la sigaretta.
Ma le ci volle un intero dolcetto per soppesare la mia affermazione. E anche così
«Oh be’, dipende!» fu tutto ciò che si sentì di dire.
Hennie aveva finito. Era ancora molto accaldato.
Presi il menù a forma di farfalla dal tavolo. «Guarda… che ne dici di un gelato, Hennie? Che ne dici di uno al tangerino e zenzero? Anzi no, qualcosa di più dissetante. Che ne dici di un fresco gelato all’ananas?»
Hennie approvò convinto. La cameriera ci osservava attenta. Una volta che ebbe preso l’ordine lei alzò lo sguardo dalle briciole.
«Ha detto tangerino e zenzero? Mi piace lo zenzero. Me ne porti pure uno.» E subito dopo: «Vorrei che quell’orchestra non suonasse pezzi antidiluviani. Li abbiamo ballati per tutto lo scorso Natale. È davvero irritante!».
Eppure era un’aria deliziosa. Ora che ci feci caso, mi accorsi che mi scaldava il cuore.
«Mi sembra un bel posticino questo, e a te Hennie?» dissi.
Hennie disse: «Una meraviglia!». Voleva dirlo a bassa voce, invece gli uscì fuori un suono acuto, come uno squittio.
Bello? Questo posto? Bello? Per la prima volta lei si guardò intorno, per vedere cosa c’era… Batté le palpebre; gli incantevoli occhi stupiti. Un uomo non più giovane, di gran bell’aspetto, la guardò attraverso un monocolo dal nastro nero. Ma lui, non riusciva proprio a vederlo. Vi era un buco nell’aria al suo posto. Lei gli vedeva completamente attraverso.
Infine i cucchiaini rimasero immobili sui piatti di vetro. Hennie pareva piuttosto provato, ma lei si rimise i guanti. L’orologio di diamanti da polso le creava qualche difficoltà; glielo impediva. Lo strattonò, cercò di rompere quello stupido gingillo, che non ne voleva sapere. Alla fine fu costretta a coprirlo con il guanto. Capii, dopo quella scena, che non avrebbe sopportato questo posto un momento di più e, difatti, si alzò di scatto e si allontanò, mentre io portai a termine il volgare atto di pagare il tè.
E così ci ritrovammo di nuovo all’aperto. Si era fatto buio. Il cielo era disseminato di piccole stelle; i grandi lampioni brillavano. Mentre aspettavamo che arrivasse la macchina lei rimase sul gradino, proprio come prima, rigirando la punta del piede, lo sguardo rivolto verso il basso.
Hennie balzò in avanti per aprire la portiera e lei entrò, e con che sospiro affondò nello schienale!
«Digli» disse col fiato sospeso «di guidare più in fretta che può».
Hennie rivolse un ampio sorriso al suo amico autista. «Allé vit!» disse. Poi si ricompose e sedette sul piccolo sedile di fronte a noi.
Riapparve il portacipria d’oro. Di nuovo il povero piumino fu scosso; di nuovo ci fu quello sguardo rapido e intimo tra lei e lo specchio.
Fendemmo la città nera e oro come le forbici fendono il broccato. Hennie ebbe grosse difficoltà a fingere di non essere aggrappato a qualcosa.
E quando giungemmo al Casinò, ovviamente la signora Raddick non c’era. Nessuna traccia di lei sulla scalinata – non una traccia.
«Aspettate in macchina mentre la vado a cercare?»
Ma no, lei no. Santo cielo no! Hennie poteva rimanere. Lei non sopportava di restare seduta in macchina. Avrebbe aspettato sui gradini.
«Non mi piace affatto l’idea di lasciarla» mormorai. «Preferirei non doverla lasciare qui.» Lei a quel punto gettò indietro il cappotto; si girò e mi guardò; socchiuse le labbra. “Santo cielo… perché! Non… non mi disturba affatto. Mi… mi piace aspettare.” E all’improvviso arrossì, i suoi occhi si incupirono, e per un istante pensai che avrebbe pianto. “Mi lasci… mi lasci sola, per favore» balbettò, con una voce calda e concitata. «Mi piace. Amo aspettare! Davvero… dico davvero! Aspetto sempre… ovunque mi trovi…»
Il cappotto scuro si aprì e la sua gola candida – tutto il suo giovane e morbido corpo nel vestito blu – era come un fiore che emerge dal suo bocciolo scuro.
Traduzione di Ginevra Danesi Visconti
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