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Nella nostra letteratura le attestazioni fantastiche non sono tante quanto noi, amanti del genere, vorremmo. La letteratura di ogni paese riflette sempre, checché ne dicano altri studiosi, una sorta di genere influenzato dal contesto storico. In Italia, qualunque sorta di astrazione dal contesto, è quasi sempre scivolata in un districante vortice, atterrato poi vertiginosamente nella sua segregazione.

Per non lasciare margini di dubbio, il fantastico cui faccio riferimento non ha a che vedere con il fiabesco, talvolta, più vicino alla fantascienza ma decisamente più depistante e oscuro nella sua sfumatura psicologica. Lo stesso Freud prende in esame un racconto di Hoffmann per trattare, tra i saggi sull’arte, il tema del Perturbante.((Per un approfondimento sul tema de il perturbante freudiano e il racconto L’uomo di sabbia di Hoffmann, segnalo caldamente la lettura del saggio Il fantastico, di Remo Ceserani.))

Sono numerosissimi, nel mondo, gli autori fantastici (Borges, Ocampo, Cortazar, Marquez e ovviamente Kafka e Čechov. Volgendo lo sguardo all’800, non mancano i tenebrosi Poe e Lovecraft, o il sopracitato Hoffman). Come accennato all’inizio, non sono poi molti gli autori in Italia di cui possiamo vantarci: Bontempelli, Ortese, Savinio, il più fortunato Calvino, più vicini ai nostri tempi troviamo gli scenari verosimili di Tabucchi.

Chi s’approccia allo studio del genere, si scontra sempre con la mera definizione del termine fantastico e inevitabilmente finirà per sguazzare a lungo in questo dubbioso marasma. Poiché non sono bastate le lezioni del contestato Todorov a definire le linee di questo genere, a partire dagli anni Settanta.

Gli autori che hanno desiderato avvicinarsi a un’atmosfera che racchiudesse in sé il fittizio –termine più idoneo rispetto al più ambiguo sovrannaturale –, non hanno avuto vita facile.Entrarci vuol dire scendere a compromessi con l’autore, che non sempre rende facile la lettura, anzi. La sua vicinanza al fiabesco non deve affatto illudere il lettore perché – cito lo studioso Roger Caillois, «La fiaba si svolge in un mondo dove gli incantesimi sono naturali e dove la magia è la regola […]. Nel fantastico il soprannaturale si manifesta come rottura della coerenza universale».

Dunque, il fantastico si esplica in elementi fuorvianti che s’adagiano sempre sulla matrice del reale. Contaminata poi da questi elementi magici, la realtà viene ripetutamente alterata.Tra gli autori più emblematici del nostro tempo, Tommaso Landolfi è senza dubbio tra i più curiosi casi letterari. Circa una definizione del surrealismo landolfiano, riporto le definizioni di Oreste Macrì, che ne traccia la sua natura bifida: un surrealismo indigeno per la tradizione novellistico-favolosa e personalissimo per la spiccata dose di autobiografismo (seppur falsato, il più delle volte).

Per riuscire meglio a spiegare come agisce una narrazione fantastica nell’universo landolfiano, prenderò come riferimento un testo molto significativo, il grottesco Cancroregina:

Il racconto si apre con la voce autodiegetica del protagonista sine nomine «solo e sconsolato», che torna a vivere nella casa dei suoi padri. Evoca a sé il Corvo di Poe per comunicarci il suo stato di malessere, «weak and weary» [debole e stanco/senza energie], e ci informa di un uomo che va a fargli visita durante la notte. È frequentissimo nei racconti gotico-fantastici, il topos del protagonista terrorizzato che non resiste al fascino del rischio – «Il mio pensiero dominante era la paura, anzi il terrore più folle, sebbene nulla nel suo contegno lo giustificasse.»((A ulteriore conferma della tesi sui personaggi terrorizzati che scendono a patti con il pericolo, segnalo, per gli amanti del genere, il racconto onirico-fantastico La casa del bosco, di Anna Maria Ortese, edito nella raccolta In sonno e in veglia.))

; malgrado l’ingente terrore, apre la porta per fare entrare un uomo che quasi subito, inaspettatamente, lo informa di una verità: «Signore, io sono pazzo». Il climax raggiunge il suo apice quando il pazzo confessa la sua fuga dal manicomio, dunque ormai un acclamato e potenziale pericolo. Continua blaterando circa una creatura – «Non hanno neppure voluto credere all’esistenza della mia creatura» –, che altro non è se non una macchina generata e creata dallo stesso pazzo, concepita a scopo di una missione che sfida ogni legge naturale e fisica: sbarcare sulla luna «una macchina cioè, un veicolo o comunque vogliate chiamarla, capace in teoria di varcare qualunque spazio interplanetario e, perché no? Intersiderale: nel fatto e positivamente, di coprire la distanza che ci separa dal nostro satellite.»

Un uomo che afferma da sé di essere pazzo, di esser fuggito da un manicomio e di aver creato una macchina capace di andare sulla luna, non può aspettarsi di essere preso sul serio dal suo interlocutore. Tuttavia il protagonista, che di materia psicosi è alquanto sciente, sa che bisogna accondiscendere agli sproloqui del pazzo per non incorrere ad alcun pericolo: «Egli era ad ogni modo un pazzo, e dovevo trattarlo coi riguardi del caso, ma al tempo stesso, poiché era un pazzo intelligente, non dovevo darglielo a divedere. Ossia dovevo trattarlo press’a poco come un uomo ragionevole».

Il pazzo insiste affinché il protagonista lo accompagni dalla sua creatura per affrontare poi il viaggio verso la meta ultraterrena. Siamo oramai nel fulcro dell’atmosfera fantastica, pertanto, accondiscendendo alle regole del genere, pensate forse il protagonista abbia respinto l’offerta, giungendo così in fretta all’epilogo? Certo che no.

I due iniziano il viaggio per raggiungere il luogo dove risiede la creatura. Dopotutto, il protagonista ce lo confessa: «andare nella luna era stata una grande ambizione della mia adolescenza», ma il dubbio sull’esistenza di tale creatura è onnipresente.

Eccoli poi di fronte la «grotticella», il pazzo ci entra per una breve ispezione, poi eccolo di nuovo fuori: «Io sto per mostrarvi la mia creatura, il frutto di lunghi anni di studio e di lavoro, la cosa, e posso ben dire l’essere, che più di tutto al mondo mi è cara, la mia figlia viscerale. […] se ella esiste, mi accompagnerete voi nella luna? Promettete voi solennemente di farlo quando abbiate, ripeto, constatato la di lei esistenza?».

Non ho intenzione di riportare tutta la trama, per lasciare anche all’eventuale – spero – curioso lettore la gioia di scoprire da solo questo testo.

Tuttavia, se non mi permetto almeno questo spoiler, avrò solamente presentato la storia di un uomo che insegue un pazzo verso l’ignoto. E di fantastico, in questo, non c’è niente.

«Eccola. Il suo nome è CANCROREGINA» dice il pazzo «in gesto alquanto melodrammatico». La creatura esiste davvero. Volerà? Questo non lo svelerò, posso però dire che, sì, il protagonista dovrà rispettare la sua promessa: dovrà veramente andare «nella» luna. Mi fermo qui.

La navicella spaziale è composta da ingranaggi, nient’altro che ferraglia. Quando cerco di darle una forma, la prima immagine che mi viene in mente è l’ammasso di ferrame vivente che è Il castello errante di Howl. Sebbene, a differenza dell’abitazione giapponese vivente di Miyazaki, la Cancroregina detenga un’accezione di creaturalità. È trattata non come un ammasso di ferrame saldato, ma come un vero essere vivente – tanto che nella seconda e ultima parte del testo, pagine diaristiche, con la Cancroregina il protagonista intrattiene una vera e propria conversazione.

Si può stilare un breve bestiario sulle creature immaginifiche landolfiane, accomunate tutte dalla stessa carica motrice: una sorta di smania psicotica. Fra le oscure entità landolfiane, giunti alle ultime pagine diaristiche troviamo il porrovio: «Il porrovio! Che bestia è il porrovio? Mi duole dire che io stesso non lo so […] Lui ha un’aria tra il tapiro e il porco o il babirussa, è quasi senza collo. Da molto tempo la mia vita è ossessionata dalla ricerca o dalla sistemazione di parole. Il porrovio si aggira grigio nelle tenebre […] Il porrovio non è una bestia: è una parola».

Neanche lo stesso autore sa cos’è il porrovio (di mio, ammetto di non sapere dove cada l’accento), ma tenta comunque di tracciarne qualche linea. Poi tutto crolla e il (già di per sé) dubbioso statuto ontologico del porrovio, si riduce a una mera «parola». Uno spettro, un fantasma, nient’altro che una suggestione malevola. Soltanto una «parola» inventata, significante senza significato, figlia di una «angoscia linguistica». Vibra in ogni dove, nella letteratura landolfiana, questa lingua dogmatica e dissacrante, che conia aggettivi e nomi che hanno dell’onomatopeico o del metaforico (una lingua d’arte che necessita di un articolo a sé).

Dopotutto, è proprio questo che differenzia il Fantastico da qualunque altro genere letterario: è una materia fosca, perturbante, che disorienta con il suo «strano». La realtà delle cose è bieca, le leggi della fisica sono compromesse, affascina perché la sua narrazione eccede in accadimenti oltre-natura, turba la psiche con le sue dinamiche orrifiche, con i suoi fantasmi fatti di niente e le sue suggestioni sature di misterico.

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