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In una delle scene più belle e insensate di La casa del diavolo (The Devil’s Rejects, in originale), in una stazione di polizia un clone di Groucho Marx si lamenta con lo sceriffo Wydell di come l’intempestiva morte di Elvis Presley tre giorni prima abbia finito per oscurare quella del suo idolo. Lo sceriffo Wydell ha uno scatto di nervi e gli mette le mani al collo: «What did you say about the King? Son, if you ever say another derogatory word about Elvis Aron Presley in my presence again, I will kick the living shit out of you!».

In misura minore la stessa cosa è successa a Gigi Sabani, ingiustamente defraudato di una gloria postuma per aver avuto la sbadatezza di morire in un sandwich tra le scomparse di Michael Jackson e Luciano Pavarotti, morti che cannibalizzarono tutta l’attenzione di cui eravamo capaci nel settembre 2007. Sono passati oltre dieci anni, dai trapassi del Re del Pop, da non confondersi con il Re del Popcorn, di Big Luciano e dell’ex cantante degli Squallor assurto agli onori della cronaca suo malgrado per la vicenda di Merolone e di una prima, nostalgica Vallettopoli. Dieci anni che hanno mutato il nostro rapporto con la morte dei vip.

Un tempo il mondo del consumo culturale e pop era in grado di produrre idoli da rivalutare o di cui fare abbuffate post-mortem a getto continuo. L’adagio nell’industria culturale vuole che l’ultimo sussulto di popolarità e dunque di vendite coincida proprio con la morte, e la succedanea canonizzazione, dell’artista. Quando muore uno scrittore si tende a un picco di attenzione nei suoi confronti e gli editori prendono a pubblicare qualsiasi cosa abbia scritto, dalla lista della spesa agli epistolari antesignani del sexting su C6 o mIRC. Vi ricordate per caso della morte del premio Nobel per la letteratura Günter Grass tre anni fa? È passata completamente inosservata, e se non ce la ricordasse ogni anno il solito scherzone di ridiffondere la notizia sui social, ci saremmo scordati anche della morte di Doris Lessing nel 2013. O di quella di Elmore Leonard dello stesso anno, oppure Robert M. Pirsig nel 2017, quello di Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Non ho dati certi, ma sono abbastanza sicuro che Philip Roth e Umberto Eco siano in controtendenza rispetto a quanto scritto, ma come si dice: don’t let the facts get in the way of a good story.

Uno dei personaggi dei racconti e romanzi di John O’Hara, Jim Molloy, tra gli altri suoi lavori, per un certo periodo scrive coccodrilli, ossia quegli articoli commemorativi preconfezionati sulla vita e le opere di personaggi noti, da utilizzare in caso di improvvisa scomparsa. Oggi, sarebbe probabilmente senza lavoro, perché nel frattempo è sparito anche quello.

Questo modello un tempo virtuoso – perlomeno per le case editrici con in pancia autori ultraottuagenari – è diventato via via meno replicabile per un paio di fattori: l’invecchiamento dell’ultima generazione di artisti che potevano assurgere o aspirare al ruolo di celebrità, e il rimpiazzamento degli stessi con idoli prêt-à-porter che non reggono una stagione, figuriamoci un decennio. Siamo passati dal venerare i cantanti o gli scrittori agli youtuber. È morta la celebrità ma è anche morta la morte della celebrità.

E però se viene a mancare la celebrità significa che è venuto meno il pubblico e la sua capacità di formarsi un’opinione e portare in alto – debitamente imbeccato o promuovendo dal basso – qualcuno meritevole di celebrità.

La morte che ultimamente ha colpito di più l’immaginario collettivo del nostro paese, per esempio, è quella di una non celebrità, qualcuno che è stato osannato per la sua scarsa propensione a divismi o a pretenziosità di qualsiasi tipo: Fabrizio Frizzi. Una morte «di prima fascia», verrebbe da dire con Boris, che ha commosso il web e il pubblico da casa. Un trascurabile e di fatto trascurato presentatore araldo della tv provinciale, sottofondo molliccio e, ancora oggi, fuori tempo massimo di perlomeno dieci anni sul resto dell’Occidente, unico abbeveratoio  attraverso cui rifocillarsi di informazioni su come le persone vivono fuori dalle nostre cucine a vista, sugli altri divani comprati a rate alla svendita di PoltroneSofà. Eppure, la morte di Frizzi e la sua commemorazione manteneva l’aspetto residuale che siamo abituati a conoscere, quello di una celebrità televisiva a cui il pubblico si è affezionato negli anni.

Oggi, ammiriamo le celebrità per non avere alcun talento visibile o riconoscibile, e nondimeno essere celebri. Le ammiriamo perché sono proprio come noi. I Ferragnez che decidono di trascorrere la festa del compleanno al supermercato interpretano i sogni medi di mezza Italia e di tutti i romeriani che su facebook rispondono Partecipa all’ennesimo evento Natale all’autogrill Roncobilaccio Est o Veglione al Lidl.

L’estremo sacrifico voyeuristico, serializzato e ballardiano ma pur sempre spettacolare dell’incidente d’auto in cui periscono i vip – come Camus o James Dean o Dodi e Diana – è stato sostituito dall’eroismo quieto con cui  proprio come noi – piccoli divi di piccoli schermi affrontano una morte senza riflettori, clangori, flash. Taricone, uomo simbolo del primo Grande Fratello che ha elargito notorietà a perfetti wannabe, muore in un silenzio assordante nel modo più spettacolare possibile, cercando forse di contravvenire al proprio destino di «nuova» celebrità del popolo.

Nessuno oggi si sognerebbe di scrivere un thriller politico come Il giorno dello sciacallo di Frederick Forsyth, in cui l’Organisation de l’Armée Secrète noleggia un sicario per uccidere il primo ministro Charles de Gaulle. Né gli odierni terroristi hanno in animo qualcosa come gli omicidi Kennedy o l’attentato a papa Wojtyla di Ali Ağca: hanno ben compreso che per seminare il timorpanico è molto più remunerativo uccidere la normalità che non la celebrità. Quando sparano o piazzano bombe ai concerti non mirano a cantanti mediocri come gli Eagles of Death Metal o Ariana Grande, ma alla folla. Nessuno oggi lancerebbe una molotov a Santana, come al velodromo Vigorelli di Milano nel ’77. L’attentatore probabilmente al palco darebbe proprio le spalle.

Non si vuole comporre una lagnanza su quali morti preferiamo piangere o ricordare né si vorrebbe rimpiangere fantomatiche età dell’oro, ma se l’orizzontalizzazione dei nostri parametri ha disinnescato l’idea stessa di celebrità, ci si domanda cosa rimarrà di questi anni scialbi. Instagram e YouTube sono ormai mezzi capaci di creare figure semicultuali che forse piangeremo come ClioMakeUp o Gianluca Vacchi, gente di cui forse vedremo carrellate di selfie in aeroporti internazionali o a bordopiscina con una giungla di fogliame nel cocktail, persone-account di cui riconosceremo le gambe abbruscate a würstel al sole tossico di Cerveteri. Immagini che già sembrano le diapositive sfocate dei viaggi dei  miei.

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