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Cortázar adora i finali e i finali corrispondono l’adorazione, neanche fossero sacchi di tela o barattoli che raccolgono lo spigolare di migliaia e migliaia di parole che il vecchio cronopio affastella con ingannevole distrazione, imballaggi d’artista che poi si schiantano, si aprono sul fondo e lasciano scappare il tesoro (iperboli, allegorie, vaniloqui) che il lettore s’aspetta di veder cadere giù a grappoli e invece niente, il sacco o il barattolo esplodono come dilaniati da una pressione incontenibile ma è già tutto finito, o meglio, era già tutto finito ancor prima dello squarcio nel tessuto o della crepa nella latta.

Perché in fondo si tratta di un rimbalzo a tempo scaduto, di un eccesso privo di giustificazioni, del baluginio di una stella morta (quel riverbero che si dice essere la memoria di detonazioni antichissime), di un gatto che Cortázar acchiappa per la coda e prolunga all’infinito quando scrive Circe e il suo finale, quando ripete ciò che ha già detto – e sa bene di averlo già detto, la sua non è dimenticanza né riprensione – per amore di quel rimbalzo, di quell’eccesso, di quel baluginio ancestrale. Scrive che a Mario fecero molta pena i Mañara che erano stati acquattati nel buio della sala sperando che finalmente qualcuno facesse tacere Delia che piangeva, ma poi il sacco che forse è un barattolo gli si strappa davanti agli occhi e nell’orgasmo della rincorsa lo scrive di nuovo, anche se il racconto è concluso e l’informazione è passata lo scrive una seconda volta come bolo doppiamente ruminato, il punto si torce in una virgola e ciò che era stato già detto («facesse tacere Delia che piangeva») viene ribadito da un gemello storto («facesse finalmente cessare il pianto di Delia»).

Cortázar valuta l’opportunità di spiegare questa esondazione che gli trascina i finali al di là della naturale linea del tramonto, azzarda un articoletto da piazzare tra le colonne di Sur in guisa di manifesto poetico, ma subito indovina la vacuità dell’espediente. Gli stilemi del critico e del giornalista sono braccia ingessate durante un incontro di boxe, e allora è meglio continuare con i racconti e con i finali, l’opera diventerà più chiara facendola e non decifrandola. Appaiati nel letto nuziale sbocciano Axolotl e La notte supina, che continuano a dinoccolare benché siano ormai orizzontali e dormienti; le porte sono chiuse, la salamandra s’è riconosciuta nel visitatore dell’acquario e il fuggiasco azteco ha decantato per sempre il sonno dalla veglia, il prodigio si è infiammato ed estinto come scia di cometa, il cielo dovrebbe essere un drappo nero e invece qualcosa del miracolo sopravvive, si attarda: il solito rimbalzo, l’eccesso collaudato, il baluginio crepuscolare per cui il visitatore dell’acquario scriverà qualcosa su di noi, credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl, e il fuggiasco azteco vedrà qualcuno che gli si avvicina con un coltello in mano, a lui steso supino, a lui supino con gli occhi chiusi fra i roghi.

C’è il vizio del maratoneta in questa corsa che però non è una gara, o almeno così fantastica Cortázar piegato sul tavolo di lavoro, la necessità bramosa e allo stesso tempo meccanica di aggiungere falcate a falcate anche se il traguardo è già alle spalle, perché lo slancio (della penna e dei tricipiti) è un fiume senza argini e non può decidere di bloccarsi al segnale convenuto senza tracimare un poco in avanti, quasi non esistesse attrito o inerzia. Ma se questa immagine podistica funziona – se questa è la chiave – c’è bisogno di un racconto che pianti il vessillo alla fine del mondo e senza timore dell’assurdo e della rovina lo oltrepassi, lo lasci indietro come il corridore lascia indietro il traguardo, e allora le dita si aggrappano alla stilografica e con felici ghirigori scrivono Le bave del diavolo e il suo finale dove tutto diventa grigio, tutto è una nuvola enorme, e improvvisamente crepitano gli spruzzi della pioggia, per un lungo momento si vede piovere sull’immagine, come un pianto a rovescio, e a poco a poco il quadro si rischiara, forse vien fuori il sole, e di nuovo entrano le nuvole, a due, a tre per volta, e finalmente il punto, questo macigno d’inchiostro che santifica il prosciugamento della lingua e l’arresto della narrazione, questa bandiera collocata sul precipizio ultimo della storia, e poi inaspettati i colombi e qualche passerotto, che spiccano il volo dal trespolo della biglia nera e fuggendo al di là dell’orizzonte dicono ciò che non poteva e non doveva essere detto, ovvero la stregoneria del rimbalzo e del baluginio notturno che Cortázar è obbligato a tentare per un eccesso d’impeto, per un contraccolpo di bravura.

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