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Turisti del vuoto, esploratori di nessuno

che non sia io o me

F. Guccini, Van Loon

Se dovessimo stilare un elenco delle ossessioni più asfissianti del nostro tempo, tra le prime dieci ne troveremmo probabilmente due in particolare: il cibo e l’individuo. Individuo nel senso dell’incompleto per sé hegeliano, io come negazione di tutto il resto, eternamente inconsapevole della possibilità di appartenenza. E forse, in fondo, anche incapace di coglierla. In televisione, su internet, sui cartelloni pubblicitari, dovunque la forma comunicativa abbia preso il sopravvento sul contenuto, individuo e cibo sono diventati oggetti di massa, proiezioni di un desiderio che si trova a metà tra il mondo del possibile e il mondo ideale, quello della pubblicità. Assumono una dimensione quasi pornografica, di esibizione, di voglia continua, di una lontananza raggiungibile ipoteticamente ma mai tangibile, come quando per esempio vediamo una gigantesca patatina fritta su un cartellone pubblicitario, o la pubblicità di una macchina che ti promette di ritrovare te stesso.

Il mondo del marketing getta sempre una luce d’eccezionalità fittizia su ciò che tocca. È la distanza che passa tra avere un po’ di fame e avere non proprio fame «ma più voglia di qualcosa di buono». Insieme, cibo e individuo vanno a condensarsi in un’unica figura a metà tra eroe, artista e divinità, che esemplifica questo binomio: lo chef.

Chef’s Table, serie di documentari su Netflix dedicati a figure più o meno conosciute della cucina internazionale, accetta acriticamente questi due elementi e li trasforma in narrazioni. Cibo e individuo sono gli ingredienti base di una storia fatta di un susseguirsi di immagini accattivanti, impeccabili impiattamenti, discorsi sulla cucina, voglie da soddisfare. Alla fine della visione di ciascuno di questi documentari, si ha immancabilmente fame.

Le puntate, ventisei in tutto, divise in cinque volumi, si articolano nella stessa maniera, con una divisione netta tra aspetto culinario e biografico. Per quanto l’individuo come concetto sia preponderante in entrambe, è nella seconda parte che assume un aspetto più morboso. Nella prima si presenta uno chef più per le particolarità dei suoi piatti e della sua cucina, e il rapporto con la cultura culinaria del suo paese, andando a scavare nella sua poetica personale e provando a gettare sul cibo uno sguardo più artistico. Ma non solo; nei primi venti minuti viene tratteggiato quello che per ciascuno è il paradigma della cucina, il senso profondo dell’essere chef. Per Bottura, a cui è dedicato il primo dei documentari, il tortellino crudo diventa l’esemplificazione stessa della cucina, il parmigiano il perfetto equilibrio dei sapori da provare in versioni e visioni sempre più uniche. Il legame tra tradizione e innovazione è una costante nelle interviste di tutti i cuochi. Anche il lato sociale dell’essere chef – non in senso conviviale, quanto piuttosto di lotta civile – viene sottolineato più volte. Il peso che hanno gli chef nel mondo contemporaneo gli permette di avere un’autorità e un influsso sul mondo che li circonda, facendoli diventare simboli di lotte sociali e culturali.

Così, dopo i danni causati allo stabilimento del Parmigiano in seguito al terremoto in Emilia, con il conseguente rischio di perdita di posti di lavoro, Bottura lancia la ricetta del suo risotto col parmigiano, permettendo di salvare lavoro, forme e stabilimento. Per Niki Nakayama la cucina diventa il campo in cui primeggiare per rompere il pregiudizio che vede le donne inferiori agli uomini come cuochi. Cristina Martinez, immigrata irregolare negli Stati Uniti, utilizza la cucina come rivendicazione dei diritti degli immigrati. Dan Barber, attraverso un’acuta analisi della mancanza di cultura culinaria in America, cerca attraverso i suoi piatti di reinventare una cultura del cibo più incentrata sull’etica.

Se in questa prima parte la regia, accurata, è sempre attenta a cogliere una sorta di ritualità e amorevolezza nella fattura e nell’esposizione dei piatti, la seconda parte è più didascalica. L’individuo prende decisamente il sopravvento, l’indagine è tutta rivolta al lato biografico degli chef, con punte di morbosità che non vengono stemperate dalla calibrata patina dei toni. Si va a ricostruire: foto, video, testimonianze, racconti in prima persona degli chef volti a umanizzare la figura della star, ma anche utili per fornire un background e la causa originaria della spinta creativa. Ma c’è anche un gusto più sottile, la metà oscura del desiderio di umanizzare, che è quella del gossip, del denudamento, della parificazione. Come se l’ascrizione al panorama delle star ponesse gli chef su un piedistallo e ci sentissimo in dovere di farli scendere, oppressi dal senso d’inferiorità.  .

La regia, come detto, è impeccabile. Anche per quello che riguarda inquadrature, tempi, fotografia, ci si muove con equilibrio, alternando ottimamente i commenti di chef e critici con paesaggi, vedute urbane e agresti e, soprattutto, con i piatti preparati. In questi ultimi la ricerca estetica dell’immagine arriva a un livello ossessivo. Se i momenti di preparazione, di spiegazione, di ricerca degli ingredienti nei vari mercati mantengono un sapore documentaristico-narrativo sempre attento al dettaglio, nel piatto finito l’estetica dell’immagine è portata all’estremo. Le inquadrature si fanno ardite, i colori accentuati dalle luci; ci si ritrova immersi in un’atmosfera che, seppur priva di patina, richiama immagini a metà tra il pubblicitario e l’artistico. Questa esasperazione dell’estetica porta a una domanda importante; sempre presente, soprattutto nelle voci dei critici culinari, è la certezza più o meno esplicitata che la cucina sia, in tutti i sensi, arte. È in questo solco che l’estetica ossessiva del cibo tenta di inserirsi.

Quella dell’arte è un’altra delle ossessioni del nostro tempo. Facciamo un uso spropositato di questo termine. Ma è confuso, nebbioso; qualcosa che ha a che fare con la cultura, con cura e amorevolezza e dedizione. In pratica, qualunque disciplina che necessiti una certa dose di creatività, unita a un insieme di regole, precisione, studio ed esperienza finisce immancabilmente per essere definita arte. Ma se dovessimo valutare con strumenti conoscitivi più precisi, viene da chiedersi: possiamo davvero considerare arte la cucina?

Nel senso più generico e obiettivo del termine, come opera dell’ingegno umano creata con un fine estetico, la risposta è senza dubbio sì. Ma il concetto è vastissimo; ci entra praticamente ogni cosa che abbiamo intorno. E quando un concetto diventa talmente vasto da abbracciare qualsiasi cosa, è come se quello stesso concetto non avesse alcun fondamento, perché il suo contenuto finisce per coincidere con altri concetti più immediati e generici; in questo caso opera e arte risultano perfettamente sinonimi e il secondo verrebbe scartato a causa della sua maggiore specificità concettuale.

Ci sono altre prospettive che possiamo utilizzare per analizzare questo rapporto. Una delle suddivisioni dell’arte più accreditate è quella che utilizza la prospettiva percettiva. L’utilizzo dei sensi per delimitare il campo artistico rende più complessa l’analisi, e al contempo tenta di imprimere un certo grado di obiettività. In quasi quattromila anni di storia occidentale (considerando arbitrariamente il suo inizio con la civiltà micenea) la direzione comunicativa di tutti i media si è svolta su due canali: quello visivo e quello auditivo. Non è un caso che tutte le arti si dividano tra queste due macroaree: l’uomo, per muoversi all’interno del mondo, utilizza in modo enormemente prioritario la vista e l’udito. Non è mai stato inventato – per quanto le tecniche di sintetizzazione chimica di odori e sapori lo rendano virtualmente possibile – uno strumento tecnologico capace di riprodurre a distanza un gusto o un profumo, come può essere la televisione per le immagini e la radio per i suoni (o, se è stato inventato, di certo non ha segnato la storia allo stesso modo). Questo perché nessuno riterrebbe uno strumento del genere necessario; e viene da dire che la complessità concettuale che l’uomo è capace di percepire da suoni e immagini non è neanche lontanamente raggiungibile dagli altri sensi.

Considerare l’esperienza percettivo-estetica del gusto come arte rischia di comportare quindi una sovrastima del gusto stesso. Il problema si fa più complesso se a questo punto ci poniamo un’altra domanda: quando parliamo di cucina come arte, di cosa parliamo in realtà? Del gusto? Dell’impiattamento e dell’immagine visiva? Dell’atmosfera? Di tutte queste cose?

In Chef’s Table è costante nei racconti di critici e chef l’attenzione maniacale all’atmosfera. Quello che sembrano suggerire è che l’esperienza che questi ristoratori offrono al cliente è un viaggio a tutto tondo, un’immersione interattiva tra uomo e ambiente che non si limita al semplice sapore del cibo. Luci, colori di pareti e tavoli, ambiente, arredamento, tutto è pensato attentamente col fine di far apprezzare maggiormente il piatto servito. Questo aspetto richiama quel tipo di arte performativa che è la performance. Bisogna quindi chiedersi quale parte di questa esperienza sia quella fondamentale, e in quale direzione sia finalizzata.

Dobbiamo introdurre, per analizzare attentamente questo problema, un altro aspetto del concetto di arte. Se fino a qui abbiamo preso in esame una visione il più possibile obiettiva di questo termine, non abbiamo fatto i conti con un’evidenza empirica: l’arte ha una forte componente di soggettività. Una soggettività che può essere universale, questo sì, ma non riconducibile a un ragionamento logico né tantomeno a formule e concetti intellegibili o esplicabili: un quid innominabile, intuitivo, provato inutilmente a imbrigliare dalla critica artistica occidentale sin dal primo ‘800. Al principio di questi tentativi, osservando lo svuotamento dell’arte nella sua epoca e di fronte ai primi tentativi di critica, Hegel scriveva:

«Le statue sono ora cadaveri la cui forza vitale si è dissolta, gli inni sono parole disertate dalla fede. Le mense degli dei sono prive di cibo e di bevande, e i giochi e le feste non restituiscono più alla coscienza la felice identità di se stessa con l’essenza».

Una decina di anni prima, anche Immanuel Kant si soffermava sulla natura sfuggente dell’arte:

«Solo il principio soggettivo, cioè l’idea indeterminata del sovrasensibile in noi, può essere mostrato come l’unica chiave per spiegare questa nostra facoltà [il giudizio di gusto, ndr] di cui ci restano sconosciute le sorgenti; ma non è possibile renderla comprensibile in altro modo».

Nell’estetica novecentesca, uno dei maggiori contributi a questo problema è stato quello di Walter Benjamin nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Qui l’autore arriva a definire un concetto fondante nella sua filosofia: quello di aura. L’aura, che si fonda su una prospettiva vitalistica, creativa e intuitiva, viene definito come Vicinanza di una lontananza ed è composto da due aspetti: quello espositivo e quello, dominante, cultuale. Se nel novecento c’è stato un indebolimento generale del valore cultuale, con un passaggio dalla fruizione al consumo, dall’autenticità alla industrializzazione, non si può dire che sia mancante in toto: pur secondo forme e regole differenti, il museo si è sostituito alla sacralità del tempio – ne sono un esempio il rispetto del silenzio all’interno delle sale, la contemplazione, ma anche la ritualità delle visite che vedono nella guida un officiante secolarizzato – rivendicando una spiritualità laica accettabile dall’universo culturale dell’occidente contemporaneo.

L’aspetto espositivo del cibo, nel mondo di oggi, è sotto gli occhi di tutti; quelli che vediamo un po’ dovunque – sui social, per strada, in tivù – non sono rappresentazioni di piatti da mangiare, ma rappresentazioni da ammirare. In Chef’s Table, come detto, questo aspetto viene portato al parossismo: tutto ruota attorno all’immagine filmata o fotografata del cibo, tanto che viene da chiedersi se la forma d’arte, più che l’ambiente creato, non sia la rappresentazione visiva dei piatti; un approccio registico-fotografico più che teatrale come nella performance.

Per quel che riguarda l’aspetto cultuale, il cibo ha da sempre in sé questo lato. Offerte, sacrifici, la stessa incarnazione del corpo e del sangue di Cristo, hanno nel cibo il loro feticcio. L’atto del mangiare è atto che rimanda al divino, unione, tramite, tra materiale e spirituale. È principio fondante della convivialità, di una coscienza festiva in «felice identità di se stessa con l’essenza».

Verrebbe quindi da considerare, sotto questo aspetto, che la finalità del gusto nella cucina di oggi sia in realtà secondaria, e che ci sia al di sotto un intento più profondo nella rappresentazione del cibo. Ma c’è un lato che i media di oggi hanno aggiunto. L’insistenza sulle classifiche (in Chef’s Table, quasi ogni chef presentato viene corredato dala dicitura della sua posizione all’interno della classifica dei migliori chef al mondo), il continuo ricorso a programmi di gare di cucina aggiungono un senso agonale, andando a esasperare ulteriormente il lato espositivo. Anche la pubblicazione delle ricette, invito alla riproducibilità tecnico-artigianale, fa venire meno il lato creativo, sbiadendo i caratteri auratici. Quindi da una parte abbiamo un senso religioso insito nel cibo – un senso che Chef’s Table dimostra di conoscere dando grande enfasi all’aspetto rituale nella preparazione dei piatti – dall’altro un eccesso nel mondo di oggi all’aspetto espositivo; ci basta per dire che è arte?

Una delle parole più ricorrenti all’interno dei documentari è sensualità, in tutte le sue declinazioni. L’aspetto dell’appagamento del senso denota una forte componente erotizzante, che mette in discussione l’aspetto cultuale (anche in una prospettiva più orientale, non è possibile considerare la spiritualità dell’immanenza come appagamento estetico dei sensi – lo zen di Ba Sho, per esempio, si focalizza sul cibo, non sul buon cibo). Il palcoscenico del ristorante, in definitiva, è messo in piedi al solo fine del godimento, visivo, olfattivo, gustativo; se l’attenzione di tutta la performance è finalizzata all’assaporare il piatto, il cibo non è più tramite (per il divino, per la sopravvivenza) ma fine di se stesso. Ma se la cultualità di un oggetto rimanda a se stessa – assaporo il cibo per assaporare il cibo – allora la sua vicinanza non evoca alcuna lontananza. L’aspetto sensuale, erotizzante, assume così sfumature pornografiche, di una voglia che non soddisfa nessun bisogno se non se stessa. La stessa estetica esasperata dei piatti è sintomo di una ricerca di apparenza più che di essenza, di imbellettamento più che di svelamento. Il cibo non viene denudato, non viene colto nel suo aspetto intimo né conviviale. È proprio l’onnipresenza dell’individuo che annulla questi caratteri: se, nella logica hegeliana, il processo di relazione tra parte e tutto si attua nel terzo movimento dell’in sé per sé, dove parte e tutto si identificano l’una nell’altro, nell’esasperato individualismo di chi gusta un piatto per il proprio godimento questo riconoscimento non avviene, e il tutto viene negato in favore della sola parte. Questo cibo che si riflette nell’ossessione di sé e del sé, dell’individuo che lo gusta, non ha niente di arte.

Chef’s Table è in definitiva un ottimo prodotto. Per chi ama la cucina nei suoi vari aspetti è un excursus godibile, interessante, che arricchisce di informazioni e curiosità con una certa dose di narrativa avvincente. Fotografia e regia sono impeccabili, calibrate; i racconti dei personaggi colmi di spunti, e, come detto, alla fine di ogni puntata si esce con una discreta fame (o, forse, voglia di qualcosa di buono?).

Nel momento però in cui osserviamo la scatola invece del contenuto, qualcosa stona. È come se questa serie di documentari, come la maggior parte di programmi sullo stesso argomento, fosse lì a testimoniare una mancanza. La pornografia è alienazione dell’altro, ossessione dell’individuo, del sé per il gusto del sé, alternativa fittizia dell’intimità. In questo vuoto infinito che l’uomo postcontemporaneo si è costruito attorno, il cibo diventa solo l’ennesimo simulacro per soppiantare altro. Fiducia nel noi, nella realtà dell’immanenza o della trascendenza, ma comunque fiducia in una realtà; la pornografia è lo specchio di questa sfiducia, questo terrore del mondo, della realtà, dell’altro. Il viaggio di esplorazione non è più né fuori né dentro se stessi; è solo sulla propria pelle. Come se fossimo attanagliati dall’orrore conradiano di scavare più a fondo per andare a scoprire il Cuore di Tenebra, perché, perdendo il noi – l’essenza –, dovremmo ammettere che il pasto denudato è in fondo solo merda.

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