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Esiste un libraio, animale raro di questi tempi e soprattutto, se di libraio serio si parla, animale che andrebbe inserito nella categoria delle specie protette, come i panda – anche se di solito portano gli occhiali, ma forse vale anche per i panda quando non li vediamo.

Esiste un librario, dicevo, a Pisa.Nel tempo abbiamo imparato a volerci bene, anche se non è stato così semplice: come per tutte le cose che valgono la pena, ha richiesto il suo tempo, i suoi vaffanculo e la sua piacevole, interminabile, sempre carente, dose di ciarle.

Lunghe e buone conversazioni stanno alla base di ogni buon rapporto –  che poi è una cazzata, come tutte le sentenze lapidarie, ma siamo in un articolo di critica letteraria, quindi le sentenze sono tollerate, se non auspicate, come ai party in terrazza di Jep Gambardella –, solo che, quando di mezzo ci sono i libri, gli animi si fanno agitati e le diatribe tumultuose.In particolare quando capita anche di leggerli, i libri.

Le ore passano, i volumi tirati nel muro pure – con moderazione, si intende, che poi tocca pagarli –, si arriva così a conoscersi attraverso autori, riferimenti, pomeriggi passati a discutere con e sulle parole degli altri. Di solito si dimentica presto il motivo della discussione, che è un intro, quasi un soundcheck, mentre il live vero e proprio inizia dopo, quando, riscaldati gli strumenti, si entra nel vivo e ci si sente liberi di improvvisare da un solo di narrativa, a un vibrato di saggistica, a qualche funky slappato di politica, fino a concedersi delle cover calcistiche o un po’ di evergreen: a casa tutto bene?» o che tempo infame oggi! restano hit intramontabili.

A concerto finito, l’amicizia tra te e il libraio comprendi essere un tour perpetuo dal calendario variabile. La scaletta si cambia sempre, come insegna Springsteen, l’importante è concludere in bellezza – possibilmente uscendo in barella.

Ma questa non era una recensione di un libro su Lansdale?

Be’, sì.

E perché allora straparli di librai, concerti e cantautori gagliardi in barella?

Io il vostro omino del cervello lo comprendo: in effetti di parole ne sono state sprecate tante e del vecchio Joe per adesso neanche l’ombra, però ci sto arrivando, ve lo assicuro.

Cioè, forse.

Insomma, tornando al libraio: un giorno mi stavo aggirando agnostico nel settore delle nuove uscite, artiglio un volume di un editore abbastanza lanciato nel serraglio del world wide web umanistico – presente il carrozzone della Moirona Orfei? Ecco, tipo quello –, poi millanto di avere letto delle buone recensioni a riguardo – falso, chiaramente, non leggo più da anni nemmeno quello che scrivo io, per questo discuto di libri.

Lui replica, «ah, perché esistono anche recensioni negative?». Mi ha assestato un bel colpo in effetti, la difesa non è molto lesta: «hai capito che volevo dire, se ne parla…»; cerco le corde, per perdere tempo, ma non riesco ad intercettare un altro jab diretto al corpo: «Chi ne parla?», ouch, “«..I soliti.», «Appunto.». È knockout.

Il primo presupposto di un buon pezzo di critica o di una recensione o di un saggio, ancora prima della competenza, dovrebbe essere la distanza. Senza la dovuta distanza dall’argomento trattato diventa difficile, se non risibile, riuscire a osservare le cose in maniera lucida o anche solo mantenere un atteggiamento intellettuale tale da non privare di ogni peso specifico ogni parola.

Questo vale, giusto per ribadirlo, per una recensione scritta con in testa nessun altro tipo di logica diversa dal cercare di fornire al testo analizzato un servizio degno, nel bene e nel male, ma vale anche per un saggio letterario scritto su argomento che coinvolga lo scrivente, tanto umanamente quanto personalmente, troppo da vicino.

E adesso possiamo parlare del Joe Lansdale di Seba Pezzani.

«Dunque, ciò che state per leggere non è una biografia di Joe R. Lansdale. Non

scriverei mai la biografia di una persona ancora in vita. Le biografie sono resoconti di

vite concluse, da consegnare alla storia. La vita di Joe è tutto fuorché al termine. E, se

davvero gli avessi espresso la mia intenzione di scrivere la sua biografia, Joe mi

avrebbe guardato malissimo. E si sarebbe probabilmente toccato. Anzi, non mi

avrebbe guardato per niente, in quanto morto. E, come si direbbe in Texas, più morto

di un morto non puoi essere. Questo non è nemmeno un saggio critico sulla sua vasta

produzione letteraria. Non è certo un testo accademico, così come non può aspirare a

rappresentare un’analisi esaustiva della vicenda umana e letteraria di questo grande

autore. E, allora, cos’è? vi starete chiedendo. È, semplicemente, il ritratto dell’uomo:

dell’amico Joe e dell’autore Joe R. Lansdale.»

Non riuscirei a fare una sinossi migliore di Joe Lansdale. In fondo è una palude, di Seba Pezzani, edito da Giulio Perrone editore. La citazione è tratta dalla prefazione dello stesso Pezzani,  traduttore di lunga data dello Champion Mojo Storyteller e caro amico del texano. Quest’ultimo ruolo, dell’amico fidato e sinceramente devoto, è quello che prende il sopravvento nella stesura del testo, facendo capolino a più riprese: intento costante di Pezzani è quello di rendere giustizia al talento di Lansdale.

«Perché, in fondo, Joe Lansdale è questo: un narratore nel solco della grande

tradizione di Ambrose Bierce e Mark Twain.»

«Narratore doc Joe lo è da sempre […].»

«Ci vuole, invece, la genialità cristallina di un narratore come Joe Lansdale per filtrare

tali esperienze di vita e distillarle nella prosa asciutta, talvolta pure poetica, che ha

fatto di lui l’autore amato che è.»

Sia che si tratti di un parere sulla condizione degli Stati Uniti o su Ronald Reagan o sui costumi dei texani, sulla famiglia, sulle armi e persino sul karate, la figura di Lansdale traspare in ogni riga come vista attraverso una campana di vetro, condizione abbastanza paradossale visto che stiamo parlando di uno scrittore che nei suoi libri ha sempre evitato di scadere in convenevoli e buone maniere.

Eravamo stati avvertiti, vero, non stiamo leggendo un testo accademico, lo sapevamo e non c’è niente di male in questo, il problema è che venendo a mancare del tutto quella distanza prima evocata, il minimo comune denominatore di ogni discorso franco, si finisce per non dare più ascolto a questa conversazione per la mancanza di uno dei due dialoganti, troppo impegnato a dare ragione all’altro. Ci scopriamo così spettatori inermi della celebrazione di un texano ingentilito, restando pure abbastanza perplessi quando scoviamo la seconda moglie e la figlia di Lansdale tra gli ospiti chiamati a dare un loro contributo sull’autore. La sensazione è che al buon Pezzani la situazione sia un po’ sfuggita di mano o, per dirla alla romana, che il traduttore, alla fine, l’abbia buttata in caciara.

Però c’è un però.

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Un tipetto piuttosto bravo era solito dire che Clint Eastwood possedesse solo due espressioni: una con il cappello e una senza. La vulgata comune ha poi glossato il giudizio, notando l’espressione con il sigaro e quella senza il sigaro, ma di rado si concede il giusto tributo al Clint Eastwood che beve.

Un film come Gran Torino meriterebbe di essere visto anche solo per godersi questo vecchio odiare il mondo da una veranda lisa della periferia di Detroit, con una birra in mano.

C’è un vecchio, c’è l’America, c’è una veranda.

Gli elementi dell’epica ci sono tutti.

Nel caso di Lansdale, al posto della birra con molta probabilità ci sarebbe una lattina di Dr Pepper, però immaginate comunque una cosa simile: immaginate di sedervi vicino a questo sessantottenne, che per una caso fortuito della vita è anche uno dei vostri autori preferiti e per un altro ancora più fortuito, un vostro amico; immaginate che lui si metta a parlare con voi: a confessare il suo Texas orientale che non è assolutamente quello delle cover con i cactus che qualche editore, bastardo, appioppa ai suoi libri, a raccontare di suo padre e di quella volta che volò il vicino nel torrente perché gli aveva bastonato il cane – magari proprio mentre Nicky, il pitbull di Lansdale, scorrazza  lì in giro con portamento fiero da bullo –, a sbraitare contro fanatici religiosi, crociati del Ku Kux Klan e tutta la restante manica di stronzi che infesta i suoi amati States, quella terra un po’ balorda che però lui continua ad amare nonostante tutto.

Perrone proove Lansdale+

Immaginate ora di dovere riportare quella conversazione: è tardi, il sessantottenne si è addormentato con la Dr Pepper in una mano, voi lo guardate un po’, poi girate la testa per vedere quel Texas sterminato oltre la veranda e l’unica cosa che vi viene da pensare è che quello scrittore pazzo che vi siede accanto, lo Champion Mojo Storyteller, per voi è parte di quelle terre, di quel mondo e di quelle persone che avete cominciato un poco a comprendere proprio grazie alle sue storie, alle sue parole.

Di questo gli siete grati e proprio di questa sensazione vi piacerebbe fosse intriso il vostro libro.

Del resto, è inevitabile, anche quando si tenta di parlare di qualcun altro si finisce sempre per dire qualcosa su noi stessi – altra sentenza gratuita alla Jep, però forse in questo caso un fondo di verità c’è.

Ah, caro libraio, magari una volta la pubblichiamo anche noi una nostra conversazione. Certo, non siamo gli autori di La foresta, però tutto sommato siamo dei Pezzi niente male, in quanto a improperi ce la battiamo bene, poi dal Texas a Pisa è un attimo, la ghigna è la solita.

Però mi sa che, nel caso, troppa distanza non riuscirei nemmeno io a mettercela e, almeno per scritto, finirei per tessere le tue lodi – dal vivo piuttosto mi faccio spara’, sia chiaro.

Perché, si sa, va sempre così: si inizia con i libri, poi finisce che ci si vuole bene.