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Lupo credeva alle favole, ma solo a quelle della gente, mai a quelle dei preti, mai a quelle di Dio. Le doveva vedere coi suoi occhi, le favole, andarle a cercare, cacciarle, passo passo. Per questo le cose del cielo non erano nulla per lui, perché non avrebbe mai potuto guardarlo in faccia Dio e dirgli: eccoti qui.

Se un editore ha le idee chiare riguardo ciò che pubblica, la pasta di cui sono fatti i suoi libri la si capisce già dalla copertina. Il romanzo di Giulia Caminito, classe 1988, ha una copertina non bellissima a livello estetico, però fortemente iconica, che suggerisce subito al lettore di cosa stiamo parlando e, soprattutto, in che modo lo stiamo facendo, con che stile, con quale prosa. La prosa dell’autrice è ciò che, fuor di trama, trascina a terra. È la terra infatti la migliore attrice non protagonista di questa storia, quella terra primordiale a cui sono legati non solo i mezzadri di Serra de’ Conti, che hanno dovuto lottare per rivendicare i diritti verso quei luoghi sui quali tanto sudore hanno versato; bensì anche i preti, le monache, i soldati, e non solo di Serra de’ Conti e delle Marche, ma di tutta un’Italia sparita, fatta di latifondi di stampo feudale, di terreni enormi che hanno sfamato intere generazioni, un’Italia che ai primi del Novecento ancora stentava a industrializzarsi e le cui migliori anime sono andate a morire per una guerra – quella con la G maiuscola – che non gli apparteneva.

La terra, dunque, spesso aspra e dura ma anche riconoscente verso chi l’ama. E aspri e duri sono anche i protagonisti di questa storia: la famiglia Ceresa, unita nella povertà e nella malasorte quanto lacerata dai rancori, dai segreti, da uno Stato percepito come nemico; ma anche, la vicenda parallela ma non troppo di suor Clara, suon Nella e don Agostino, ostili secondo la prospettiva anarchica e atea, eppure alleati loro malgrado contro l’unico vero nemico che conta: la miseria.

È la miseria, infatti, l’altro grande protagonista: la miseria a cui sembra condannato chi non riesce a ottenere il riscatto sociale per sé e per i propri figli, vuoi per sfortuna o mancanza di lungimiranza; la miseria di una generazione vissuta a cavallo fra due secoli, decimata da anni turbolenti, dalla disfatta di Caporetto, dal male oscuro e imprevisto dell’influenza spagnola; la miseria di chi elevarsi vorrebbe ma non ne ha i mezzi, e quindi resta là, fra la terra in cui è cresciuto.

Giulia Caminiti è una scrittrice crudele, che nulla risparmia ai suoi personaggi: li prende, li maltratta, li massacra, non sparge amore ma solo sale sulle ferite, eppure lo fa senza quel sadismo a volte percepibile in autori che amano maltrattare le proprie bestie da soma. Lei no, lo fa perché è necessario, perché il linguaggio dei campi e della violenza è necessario per comprendere certe realtà che non possono – non devono – essere edulcorate. I fronzoli non ci vogliono, non servono, non sono indispensabili, allora togliamo tutto, anche le virgolette e i caporali, anche la complessità, lasciamo solo che le parole e le frasi si congiungano e portino davanti ai nostri occhi l’odore delle coltivazioni e della pestilenza, del sangue e dell’orrore. Qualcosa mi persuade (ma questa è veramente solo una mia opinione) che, se avesse potuto scegliere, l’autrice avrebbe scelto un carattere senza grazie, scarno, scevro da tutto ciò che non è lettera e punteggiatura.

C’è una possibilità di redenzione per chi nasce in certi luoghi, in certi periodi storici? Se la fede abbandona persino i preti, se gli ideali finiscono sotto terra come fossero i morti caduti in guerra, cosa resta alle persone? Cosa può spingere ad aprire gli occhi sull’ennesima giornata fatta di schiene spezzate sui campi? Forse la speranza che un giorno – non oggi, non qui – i nostri figli vivranno epoche migliori, e questo proprio perché oggi, qui, molti sono morti. È l’insegnamento della storia – anche questa con la S maiuscola – delle rivoluzioni violente, dei massacri, dei processi e del riconoscimento di diritti inalienabili eppure conquistati con tanta fatica.

Di questo ci parla Giulia Caminito: di piccoli luoghi dimenticati da Dio, di persone che segni non ne hanno lasciati ma che hanno fatto parte di una corrente forte che, unita, ha fatto qualche differenza rispetto ai grandi numeri.

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