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Perché non ci sediamo e parliamo del bullismo?

Del cyberbullismo.

Del razzismo.

Del maschilismo.

Del sessismo.

Del consumismo.

Del capitalismo.

Del materialismo imperante.

Del femminismo.

Del fascismo.

Del comunismo.

Del mobbing.

Del bossing.

Dello stalking.

Del ghosting.

Dell’orbiting.

Dello stealthing.

Del sexting.

Dell’outing.

Del virtual raping.

Di me too.

Di difficoltà relazionali.

Di solitudine.

Di identità e appartenenza.

Di misoginia.

Di violenza sulle donne.

Di violenza sugli uomini.

Di violenza sui bambini

Di violenza sugli anziani.

Di violenza sugli animali.

Di violenza sessuale.

Di violenza verbale.

Di violenza mentale.

Di lavoro minorile.

Di lavoro in nero.

Di disoccupazione.

Di disordini alimentari.

Di disordini della personalità.

Di disordini urbani.

Di emigrazione.

Di immigrazione.

Di discriminazione.

Di omosessualità.

Di povertà.

Di malattie mentali.

Di religione islamica.

Di antisemitismo.

Di depressione.

Parliamo di tutto questo senza che ce ne freghi nulla. Senza averlo mai vissuto. Senza conoscerlo. Senza averlo sentito. Parliamone a tavola con in nostri figli dopo che è passato un servizio alla televisione. A cena con la fidanzata tanto carina tanto truccata bene. Facciamo finta che ci importi del miglioramento. Di quanti problemi abbia la società. Dei barboni che abbiamo incontrato sotto i portici vestiti di stracci fra i cartoni e i cani pulciosi. Di come tutto sia sempre e inevitabilmente peggio. Troviamo delle soluzioni grazie alla dialettica. Facciamo finta si soffrire, di empatizzare, lasciamo che sulle nostre birre e sulle nostre patatine e sui nostri cocktail bevuti senza pensieri cali di colpo un velo oscuro di serietà, che include le seguenti regole:

Non ridere.

Niente black humor.

Rispetta.

Informati.

Sii carino e sensibile anche se non ne sai niente.

Niente cattivo gusto.

Niente ironia.

Non siamo qui per fare della filosofia, sono cose serie.

E nel momento in cui tutto il troppo diventa troppo, in cui un leggerissimo nodo alla gola sale lentamente dal petto, in cui le nostre serate e le nostre lotte quotidiane rischiano di perdere ogni significato davanti l’assoluto senso del vuoto, passiamo dall’altro lato. Parliamo di quanto sia eccessivo creare una parola per ogni ingiustizia, per ogni problema, per ogni abuso di potere, per ogni schifezza umana, per ogni violenza. Parliamo di buonismo. Di radical chic. Di ipersensibilità sociale. Di come tutto ci sia stato anche prima, solo che il mondo non era pieno di femminucce e mammoni. Di come ormai ci si lagni per qualsiasi cosa. Di come ognuno voglia la sua gloria persino vantandosi di un trauma mai subito. Andiamo al sodo. Diamo a Cesare quello che è di Cesare e a noi quello che è di Dio. Non travisiamo.

E alla fine indecisi su che strada adottare torniamo allo status quo, alla base, all’essenza che ci compone ogni giorno ora minuto secondo anche se facciamo finta di no, alla pura e semplice umana abitudine che continua a ripetere:

A casa tutto bene

Potrebbe andarmi meglio.

Mi piace ma non mi caga.

Voglio migliorarmi.

Sai cosa mi è successo?

Parli te, è io cosa dovrei dire?

Sto passando un periodo difficile.

Nessuno mi chiede mai come sto.

Io non giudico.

Io credo.

Io penso.

Io sento.

Io voglio.

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