I gatti morti lo avevano affascinato fin da piccolo. Quelli spappolati al centro della carreggiata. Quelli adagiati, quasi sonnolenti, sul ciglio della strada e quelli sbattuti vicino ai fossi. Urtati con violenza e disprezzo da un’anonima macchina in corsa.
Sergio tornava da scuola in bicicletta, con la cartella rigida stretta sulla schiena e i calzoni corti e se gli capitava di scorgere in lontananza qualcosa che saliva dall’asfalto come una montagna all’orizzonte allora spingeva con ancor più forza sui pedali. Scendeva dalla sella e si avvicinava a piccoli passi, con lentezza, per stemperare l’ansia accumulata dalle ultime pedalate. Una volta raggiunto l’obiettivo si piegava in avanti, con le gambe dritte appaiate, le mani nelle tasche. Si sporgeva verso l’animale e lo osservava con cura. Notava le parti del corpo consumate dal passaggio dei copertoni. Le ossa che sporgevano dalla pelliccia, le chiazze rosse, la poltiglia schiacciata come la carne di hamburger spinta con forza sulla piastra. La gelatina dei bulbi oculari, i denti senza più la protezione della bocca, il tartufo deformato e rinsecchito. Erano tutti così simili quando la loro corsa era finita. Stavano lì immobili, sull’asfalto bollente, circondati da chilometri di campi e osservati da lontano dai grattacieli della città. La sua non era una curiosità morbosa. Sergio non aveva il gusto del macabro né voleva infierire su quegli animali. Ciò che cercava di fare guardando quei cadaveri straziati era rispondere a un’unica e semplice domanda: dove stavano andando?
Il paese in cui viveva giaceva in una conca e un reticolo di strade rialzate lo separava da altre conche identiche. Un’estate era passato un piccolo aereo da turismo. Lo avevano visto tutti volteggiare nel cielo per una giornata intera. Poi, dopo un paio di settimane, un tizio in giacca e cravatta aveva bussato alle porte di casa cercando di vendere ai contadini una veduta aerea della loro casa. Quando quell’uomo era passato da suo nonno, Sergio era lì, come tanti altri pomeriggi estivi. Lo aveva visto imboccare la stretta via costeggiata da un canneto. Era un po’ che il nonno non scendeva sull’argine del fosso a falciarle. L’uomo era venuto avanti con passo indeciso. Sembrava che valutasse con attenzione ogni singolo movimento. Era una strada sterrata e aveva piovuto da poco. Le buche erano piene d’acqua. Non era un terreno adatto a quelle scarpe lucide ed eleganti. Si era avvicinato alla casa, aveva chiesto chi era il proprietario e quando il nonno aveva mugugnato qualcosa di simile a un «io» l’uomo aveva tirato fuori da una cartella in pelle nera la fotografiapiù grande che Sergio avesse mai visto. L’uomo iniziò a spiegare di cosa si trattasse, ma il nonno lo fermò subito. Gli chiese quanti soldi volesse per quella roba e l’uomo rispose che voleva cinquecentomila lire. Il nonno gli rise in faccia. Vedevo piccole gocce di saliva partire dalla sua bocca e appoggiarsi con un’insperata delicatezza sulla camicia del tipo. Rimise la fotografia nella cartella e se ne tornò sui suoi passi come un venditore di bibbie accolto da una famiglia di atei. Sergio però era riuscito a vedere la foto. Dall’alto, la casa del nonno sembrava una nera pedina su una scacchiera. Un alfiere pronto a spostarsi velocemente in diagonale. Il giorno dopo al bar centrale Artemio aveva appeso dietro al bancone una foto simile della propria casa e anche lì Sergio vide lo stesso schema. I fossi sembravano formare una rete e Sergio non riusciva a capire se servissero per allontanare le minacce o impedire a qualcosa di scappare. Le linee si diramavano come radici tra i campi. I contadini avevano imparato a usarle per fare arrivare acqua dove ce n’era bisogno. Aprivano la chiusa sul fiume e il flusso iniziava a scorrere come il sangue nelle vene, portando vita fin nei più distanti angoli di quella terra desolata.
Sergio conosceva bene quei posti. Ci era nato. Aveva frequentato le scuole nell’identico paese vicino che si differenziava da dove abitava solo per quelle. Elementari, medie e un indirizzo professionale che gli aveva insegnato l’unico lavoro che conosceva: il meccanico. Per il resto ogni paese si assomigliava e Sergio si chiedeva spesso se invece, magari, i gatti venissero schiacciati più di frequenza nel suo. Aveva studiato il fenomeno con la diligenza di un ricercatore universitario. Aveva annotato in un quaderno a quadretti gli effetti dell’impatto sulla struttura muscolo scheletrica del felino, ma aveva avuto l’accortezza di segnare con una buona precisione anche i luoghi dei decessi. E quello che ne era risultato, dopo anni di osservazione, era una mappa precisa. I gatti preferivano morire sulla statale. Tutte le stradine che nascevano tra le campagne alla fine del loro percorso si alzavano in una ripida salita e andavano ad alimentare «La strada grande». I gatti sbucavano da una via perpendicolare e poi, come se si volessero immettere nella strada principale per andare chissà dove, incrociavano la loro esistenza con quella di un’automobile.
Da quando si era diplomato alle superiori, Sergio aveva iniziato a lavorare nell’autofficina del padre. Anche se in realtà, rispetto a quando aveva dodici anni non era cambiato poi molto. L’unica vera differenza era dovuta al fatto che adesso guadagnava un vero stipendio e che il padre lo aveva messo in regola.
Da ragazzino gli capitava spesso di passare lunghi pomeriggi in completa solitudine dentro al capannone dove suo padre aveva aperto l’officina.
Durante la stagione estiva gli interventi da fare sul campo aumentavano. Il padre usciva la mattina con l’apecar carico di attrezzi e tornava solo per cena. Era come un medico che visita a domicilio, solo che al posto di un camice bianco ben lavato, la sua divisa consisteva in un paio di jeans in cui l’unto aveva conquistato quasi ogni centimetro di tessuto e una polo rossa con lo stemma di un produttore di lubrificanti.
Il padre di Sergio gli lasciava le consegne e se ne andava senza dare indicazioni su quando sarebbe ritornato. Da piccolo aveva avuto il sospetto che non tutto il tempo che il padre passava lontano dal capannone fosse dovuto alle riparazioni. Si era fatto diverse idee. Forse il padre aveva un’altra donna o forse passava il tempo al bar a giocare a carte. Ma in paese, questo Sergio lo comprese dopo, se fosse successa una di queste cose lui lo avrebbe saputo subito. Per passare le giornate senza impazzire Sergio si era portato da casa una piccola radiolina gialla che aveva vinto con i punti del detersivo e che prometteva di essere resistente all’acqua. L’unica stazione che riusciva a prendere dentro al capannone era Radio Deejay e anche se non tutte le canzoni gli piacevano aveva imparato a canticchiare quegli stupidi motivetti e a trovare gradevole la voce dei conduttori. Erano la cosa più simile a un essere umano a cui potesse ambire. Fuori sentiva le voci dei bambini, dei ragazzi della sua età. Li sentiva sfrecciare in bicicletta, fare rumore con la bocca per imitare un motore rombante. Li sentiva tirare pallonate addosso alla casa di Alfio. Poi Alfio usciva incazzato e li prendeva a bestemmie. Non ricordava di preciso in quale estate tutto aveva avuto inizio, ma non aveva una grande importanza perché a poco a poco i ricordi si erano fusi, forse sbiaditi, le estati avevano iniziato ad assomigliarsi tutte tra loro lasciando solo un’unica immagine di chiarore. Un ragazzino con un grembiule sporco di vernice che passava la carta vetrata sulla portiera di un’automobile mentre dalla radio usciva una canzone qualsiasi.
Nessuno gli aveva mai chiesto cosa avrebbe voluto fare nella vita. In terza media l’insegnante di italiano aveva dato un compito alla classe. Avrebbero dovuto scrivere una storia e la migliore sarebbe stata recitata a fine anno. A Sergio la cosa pesava molto. Non era molto bravo con le parole, più che altro non riusciva a metterne in fila più di cinque o sei senza che il quaderno fosse tempestato di errori colossali. Si era messo di buona lena perché in fin dei conti era pur sempre un compito e non voleva che l’insegnante lo sgridasse e che sua madre facesse volare le ciabatte da una parte all’altra della casa. Quando alzò la penna dal foglio si rese conto di aver passato l’ultima ora a scrivere, senza prestare troppa attenzione agli errori ma dando sfogo alla sua fantasia. Si era inventato una storia in cui un gruppo di amici partivano per un viaggio in Egitto con una valigia piena di spine e spinotti e a causa di un disguido si ritrovavano ad averne una piena zeppa di spinelli. Dopo una settimana la maestra era entrata in classe con la pila di quaderni, li aveva distribuiti tutti dando i voti, ma quello di Sergio tardava a saltar fuori. Alla fine lo vide, era l’ultimo della pila e lui non riusciva a capire se si trattasse di un buono o un cattivo segno. Era certo di aver combinato un macello, era sicuro che la storia fosse piena di svarioni grammaticali; gli accenti e le doppie erano un incubo per lui. Poi l’insegnante aveva preso il quaderno con Tom e Jerry in copertina, lo aveva mostrato alla classe e aveva detto a tutti che l’unico che davvero avesse provato a fare quel compito come andava fatto era stato Sergio. Lo aveva riempito di complimenti davanti a tutti, facendolo tremare di imbarazzo. Poi aveva concluso che non aveva mai visto così tanti errori in vita sua. Lo aveva guardato negli occhi e gli aveva detto che si vedeva che era stato trasportato dalla storia e che non aveva fatto la minima attenzione a come stava scrivendo. Aveva concluso che magari un giorno sarebbe diventato uno scrittore. E Sergio aveva deciso che quella sarebbe stata la sua carriera. Anche se non aveva ben chiaro cosa significasse gli sembrava che fosse giusto dedicarsi a qualcosa che gli riusciva naturale. La sua storia divenne la recita di fine anno. Lui recitò la parte di un personaggio secondario. Nella storia il protagonista era magro.
Sua madre lo teneva aggiornato su quanto succedeva in paese. Si trovava a fare la spesa in piazza con le amiche e poi si scambiavano le ultime notizie commentandole con foga. Sembrava che ci fosse sempre qualcosa di nuovo da dire su ciò che succedeva in paese. Il farmacista era stato visto con una che non era sua moglie e il comitato per la salvaguardia del buongusto aveva decretato che doveva trattarsi di adulterio. La cameriera del bar centrale si vedeva con un carabiniere di Caltanissetta nonostante nel paese ci fossero tanti bei ragazzi. Il figlio di Carmen del negozio di abbigliamento era stato bocciato perché l’avevano beccato a farsi una canna in bagno.
Ma le due cose su cui sua madre lo teneva costantemente aggiornato erano le morti e la gente che se ne andava. Entrambe una forma di dipartita sentita da sua madre come una mancanza di rispetto nei confronti del paese in cui vivevano. Le epigrafi venivano appese al muro del bar centrale ed erano motivo di continua discussione la domenica dopo la messa. Ed era strano perché non capitava mai che la morte di qualcuno passasse inosservata. Prima che il cadavere fosse freddo, la triste novella era già arrivata a riempire ogni angolo del paese e quella foto sul muro in realtà non annunciava nulla di nuovo a nessuno. Si discuteva sull’età del defunto, sulla scelta della foto, ma soprattutto si discuteva della famiglia del morto. A Sergio non interessava molto questo aspetto della vita paesana. Da quando non c’erano più i suoi nonni non trovava più nulla che lo interessasse della morte. Quello che lo colpiva ogni volta con forza erano i nomi di quelli che avevano deciso di andarsene.
Sara era andata a Torino, diceva la madre, lavorava nel campo della moda. Mauro aveva preso un treno, se n’era andato a Milano e aveva aperto un ristorante. Andrea era volato a Londra e faceva lo chef de rang in un ristorante di lusso. Le storie che sentiva raccontare erano sempre storie di successo. E lui quei nomi li conosceva bene perché appartenevano a persone che erano state a scuola con lui, a bambini e bambine con cui aveva fatto catechismo, a compagni di giochi. Quando girava per le strade del paese quei nomi diventavano facce che non vedeva più e che forse non avrebbe mai rivisto. La sua infanzia e la sua adolescenza si stavano sgretolando a colpi di abbandoni. Quelle erano persone con cui aveva scambiato segreti e confidenze. Sergio era diventato quello che era anche a causa loro. Una forza che lui non riusciva a comprendere li stava attirando a sé e portando in luoghi che probabilmente lui non avrebbe mai visto.
A pranzo lui e il padre tornavano a casa. Il pomeriggio poi suo padre si buttava sul divano a russare per un’ora. Sergio si chiudeva nella sua stanza. Raccoglieva un libro dal pavimento e cercava di leggerne quante più pagine potesse prima che sua madre bussasse alla porta con il caffè e gli dicesse che era ora di ritornare al lavoro. I giorni in cui suo padre era costretto a intervenire sul campo, Sergio si spostava con la bicicletta perché non gli piaceva guidare di giorno, si distraeva facilmente. Non per le pianureinfinite che correvano tutto attorno al paese, ma per quella presenza troneggiante in lontananza. Quella città che di giorno pareva sonnecchiare e poi di notte esplodeva di luce e di vita, perlomeno così immaginava lui. A quanti chilometri di distanza si trovava? Non sapeva dirlo. Le sembrava così a portata di mano eppure era certo che l’occhio lo ingannasse, che la distanza che lo divideva da quel luogo fosse molta di più di quella che lui sarebbe mai riuscito a percorrere. Era lì, ogni singolo giorno della sua vita. Passava con la bicicletta, scartava un cadavere di gatto maciullato dalle ruote di un trattore e sapeva che sullo sfondo quella città lo stava osservando, come lui osservava il felino sull’asfalto. E che forse anche la città nel guardarlo si chiedeva quella semplice domanda a cui Sergio faticava a dare risposta: dove stai andando?
Una sera il padre si sentì male. Era già pronto a uscire quando iniziò a vomitare. La madre lo accompagnò a letto e chiamò Sergio. Non era nulla di grave, gli disse, l’aria condizionata gli doveva aver bloccato la digestione. Ma il padre aveva un favore da chiedergli. Doveva andare al bar centrale al posto suo a portare dei soldi che doveva a Berto. Sergio non aveva molta voglia di uscire, ma non se la sentiva di rifiutare. Prese una busta dalle mani del padre e se la mise in tasca. Salì in macchina e raggiunse il bar centrale. Appena entrò Berto lo vide subito. Si avvicinò e gli chiese del padre. Sergio gli spiegò il motivo per cui c’era lui e diede la busta a Berto. Salutò con un cenno della testa e uscì da locale senza nemmeno chiedergli se il padre avesse qualcosa di serio.
C’era un sacco di gente seduta ai tavoli. Alla tv davano una partita di calcio con due squadre che non conosceva. Nessuno sembrava prestare veramente attenzione agli uomini in campo. Sergio si avvicinò al bancone e ordinò una birra. Si voltò verso il locale, con la birra in mano e cominciò a sorseggiarla con la schiena appoggiata al bancone. Si guardò attorno come se ci fosse ancora qualcosa da scoprire. Sui muri il vecchio padrone aveva attaccato dei quadri a specchio che pubblicizzavano amari e aperitivi. C’era un orologio della Cinzano che non aveva mai funzionato. Aveva appuntato lo sguardo su una perlina staccata dal muro quando dall’altra sala, quella più appartata, sentì provenire urla e risa. Incuriosito, si avvicinò alla fonte del baccano. Si fermò sulla porta e vide un gruppo di ragazzi della sua età accaldati, con i visi rossi e le magliette incollate al corpo dal sudore. Stavano festeggiando quello che era seduto a capotavola. Sergio lo conosceva. Franco aveva frequentato le elementari e le medie con lui, poi le loro strade si erano divise. Non c’erano torte e di sicuro non era un addio al celibato. Tornò al bancone e ordinò un’altra birra e prima di finirla ne chiese un’altra e poi un’altra ancora. I rumori del locale presero a fondersi tra loro. Carte da gioco e bicchieri sbattevano sui tavoli. Sembrava che tutti stessero urlando, ma nulla di quello che veniva detto in quella sala gli sembrava avere significato. Era come se fosse arrivato in un luogo in cui la gente parlava una lingua diversa dalla sua. Stava per ordinare l’ennesima birra quando gli si avvicinò Bruno. E anche questo se ne va dal paese, gli disse. Sergio annuì. Bruno scosse la testa. Sembrava dispiaciuto come se la cosa lo colpisse sul personale. Sono vecchio, disse, ne ho vista di gente partire. Se ne vanno convinti che la scelta sia stata loro, invece no. È questo posto che li costringe ad andarsene. Non possono fare altrimenti, non scelgono nemmeno questo. Sono tutti convinti di avere mille strade davanti, ma la maggior parte ne ha solo una ed è già decisa.
Sergio restò qualche minuto ad aspettare che le birre mollassero la presa, poi uscì dal locale. Quando chiuse la porta tutto il rumore rimase rinchiuso dentro. Si dovette abituare al silenzio. Respirò a pieni polmoni, poi si incamminò.
Salì in macchina. Era ubriaco, ma non abbastanza da non ricordarsi come si guidasse. Sergio sapeva fino a dove poteva spingersi, non aveva mai perso il controllo. Rimase qualche secondo con le mani sul volante a chiedersi se le parole di Bruno potevano essere applicate anche a lui. Aveva davvero una scelta? Oppure andarsene o percorrere tutti i giorni la strada che lo portava al capannone avevano lo stesso significato? Accese il motore e lentamente uscì dal parcheggio del bar. La serata era limpida e senza inquinamento luminoso c’era una distesa di stelle di cui non si vedeva la fine. Abbassò il finestrino e ruttò verso la notte. Sentì in bocca un gusto di birra misto carne. Sapeva che non avrebbe vomitato. Gli sembrava di avere la testa completamente sgombra da qualsiasi pensiero. Imbucò la «strada grande» in direzione di casa. Aveva davanti a sé un nastro di asfalto dritto per decine di chilometri. Alla sua destra la città era al massimo della vitalità. Si vedevano le luci splendenti dei grattacieli, le insegne pubblicitarie illuminate che diventavano solo delle indistinguibili macchie di colore. Nel cielo volteggiavano dei fasci luminosi. Sergio rubava alla strada qualche momento di attenzione, girava di scatto la testa verso destra e poi tornava a guardare davanti a sé. Avrebbe voluto fermarsi, scendere dalla macchina e contemplare quella tempesta di colori, ma la strada era stretta, gli argini ripidi. Certo, non passava quasi nessuno di notte, ma non poteva correre il rischio. Iniziò ad accelerare per togliersi di dosso quella presenza ingombrante. Era quasi arrivato alla via che portava al capannone. Per un attimo si chiese se non gli convenisse andare direttamente lì. Dormire in macchina e farsi trovare già pronto per il lavoro. Che senso aveva tornare a casa? Poi vide qualcosa saltare sulla carreggiata. La percepì con la coda dell’occhio, una gradazione leggermente più chiara del buio che vedeva tutto attorno a sé. Frenò bruscamente. Sterzò e controsterzò per tenere l’auto al centro della strada, se avesse sbagliato manovra sarebbe finito giù dall’argine dentro a un fosso, e allora sarebbero stati guai. Suo padre lo avrebbe ammazzato. L’auto si arrestò nello spazio di qualche metro e Sergio rimase immobile, con le mani strette sul volante, le nocche bianche per lo sforzo. Sapeva cosa rappresentava quell’ombra che aveva visto muoversi. Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Spense la radio e rimase in silenzio ad ascoltare. Dal finestrino aperto entrava l’odore dei copertoni bruciati. Alzò lentamente lo sguardo. Dal vetro del passeggero vedeva i riflettori fendere il cielo. Erano l’unica cosa forte abbastanza da scuotere la notte. I fari della macchina illuminavano la carreggiata. Davanti a lui, immobile a cavallo della linea bianca, c’era un gatto. Sergio aveva frenato in tempo. Gli occhi lo guardavano. Erano due punti rossi e luminosi. E lui non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’animale. Aveva il pelo grigio, uguale a quello di tante carcasse viste sulla strada. Sembrava spaventato, forse lo stridio delle ruote sull’asfalto lo aveva colto di sorpresa, forse in un lampo di consapevolezza felina si era reso conto che stava per morire e poi che quella divinità che si stava scagliando contro di lui a tutta velocità lo aveva risparmiato. Sergio spense la macchina e i fari. Se fosse sopraggiunto qualcuno lo avrebbe visto da chilometri di distanza. Nulla arrivava inaspettato in quel paese. Scese dall’auto con gesti misurati. Il gatto seguì i suoi movimenti con lo sguardo, cercava di capire se Sergio era una minaccia o no. Si portò davanti alla macchina e si sedette sul cofano. Gocce di sudore gli scivolavano lungo la schiena. Le sentiva infilarsi dentro le mutande. Iniziò a parlare al gatto. Gli disse che gli era andata bene che non aveva bevuto troppo, se avesse impiegato un secondo in più per schiacciare il pedale del freno adesso lui starebbe parlando a un cadavere. Gli disse di chiamarsi Sergio. Gli disse che faceva il meccanico, che aveva venti anni e che non aveva una fidanzata. Gli chiese se sapesse che da quelle parti quelli come lui facevano una brutta fine. Poi gli chiese la cosa che più gli stava a cuore, gli chiese dove stesse andando. Il gatto gli rispose con un flebile miagolio e a Sergio sembrò di cogliere un invito. Il gatto si mosse con calma, raggiunse il bordo della strada dalla parte opposta a quella da cui era arrivato. Guardò per un’ultima volta Sergio e poi spiccò un salto che lo fece sparire al di là dell’argine scosceso. Sergio si avvicinò al punto in cui il gatto si era dileguato. Cercava di seguire con gli occhi il suo percorso. Nell’oscurità gli sembrò di vedere una testa scivolare tra i solchi dei campi arati. Puntava verso le luci della città. Sergio scese dall’argine e nel buio della notte lo seguì.
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