Quella sera sua madre l’aveva spedita a letto presto. Protestare non era servito a niente, non aveva voluto nemmeno aspettare che finisse di scrivere le ultime battute dell’articolo sulla Cistellaria a cui stava lavorando.
«Teso’ sei troppo pallida», le aveva detto sfilandosi gli occhiali, «Se non ti senti meglio domani, chiedo a papà di portarti dal medico.»
«Che ne dici di chiedere a papà anche se mi scrive il paper per il convegno a Tubinga?»
Marta aveva abbattuto lo schermo del computer sicura che sua madre l’avrebbe ignorata. Infatti si era alzata dal tavolo, era andata a abbassare il fuoco sotto il sugo e, tornata a sedersi, aveva ripreso a fare le parole crociate con le sopracciglia inarcate dietro gli occhiali.
Marta rise da sola, era compiaciuta di non aver perso il suo senso dell’umorismo.
Aveva rovesciato venti gocce in un bicchiere d’acqua. In uno slancio di entusiasmo era andata a togliersi le lenti a contatto e si era buttata a letto con il cellulare nascosto fra le pagine della commedia nell’edizione Oxford Classical Press. Stava ancora scrollando la home di Instagram alla ricerca di un post recente di Matthias quando Paolo aveva spento la luce senza avvisare. Lei aveva poggiato il libro e il cellulare sul comodino con un sorriso di sollievo, che si era concessa solo perché sapeva che non l’avrebbe vista nessuno, e si era arresa a mettersi a pancia in su a fissare il vuoto.
Era carino che i suoi si prendessero cura di lei da quando era tornata a casa. E per certi versi lo era anche il fatto che Paolo si ostinasse a fare finta del contrario. A tratti le sembrava persino di averne bisogno, di mamma che chiama papà a metà mattinata per comprare la carne rossa da Armando, giù in centro. I primi giorni era stato difficile e lei non se lo era ancora dimenticato. Stringere dentro il ruolo di figlia i propri contorni di donna che pulsano per espandersi. Tornare a dividere la stanza con suo fratello. Dormire nel lettino con la testiera da principessa che le avevano comprato quando aveva undici anni; un letto che forse non era bellissimo, ma di certo era solido, avevano detto i suoi. E avevano avuto ragione, perché al materasso non cigolava nemmeno una molla ancora adesso che di anni Marta ne aveva trentuno.
Era stata attenta a non essere invasiva, a non fare commenti sull’arredamento antiquato o sulla quantità di olio che sua madre usava in cucina. Se non fosse stato per il cubo blu che aveva appeso al muro della sua metà di stanza da letto e per i reggiseni agganciati alla spalliera della sedia, nessuno si sarebbe accorto che era tornata.
Comunque continuava a ripetersi che quella dei suoi era una soluzione temporanea.
Ripeterselo era importantissimo. Un collega di dottorato del dipartimento di Religionswissenschaft[1] le aveva detto che a forza di visualizzare nella sua mente quello che desiderava, il desiderio un giorno si sarebbe realizzato. Nonostante all’inizio concentrarsi su una visione per dieci minuti al giorno le fosse sembrato una gran perdita di tempo, a un certo punto decise di arrendersi. Non erano certo questi i tempi per lasciare qualcosa di intentato.
Da quando le era stata erogata l’ultima rata della borsa di studio erano passati sei mesi e fino a quel momento era riuscita a sopravvivere a Mainz con i risparmi. Di chiedere ai suoi non se ne parlava nemmeno. L’aveva tirata avanti finché aveva potuto per poi decidersi a tornare al paese quando sul conto le erano rimaste poche centinaia di euro e Matthias aveva scoperto di non essere più certo di niente, tantomeno che fosse una buona idea che lei restasse a vivere in casa sua. Le loro differenze non li rendevano compatibili. Le voleva bene ma stare con lei lo faceva sentire come quando era arrivato a Finisterre. Aveva camminato e aspettato a lungo per poi scoprire di avere il terrore di bagnarsi nell’oceano. Che coincidenza, aveva pensato nascondendo le braccia sotto il piumone. Nell’ultimo anno si era sorpresa a cercare anche solo un motivo per tornarsene in Italia e improvvisamente se ne era ritrovata persino due. E ora? E ora avrebbe atteso la fine di un altro giorno, inerme, impassibile avrebbe aspettato che l’orologio del telefono puntasse sulle 00.01. Alle dieci e mezzo i termosifoni centralizzati del palazzo di Via Cina si spegnevano; salendo dalla schiena un brivido di freddo si diramò fra i capelli, come se stesse seguendo le trame di un velo invisibile sulla sua testa. Si tirò la coperta di pile fin sopra alle spalle e ricavò una nicchia sul cuscino con la mano, poi ci si appoggiò delicatamente sopra e iniziò a raccontare a Matthias i suoi pensieri come facevano quando dormivano insieme. Nonostante stesse accadendo tutto nella sua testa, da lì a poco smise di sentire la sua mancanza.
La notte, quando ripensava al mondo fuori dalla sua stanza, se lo ricordava fuori fuoco. Ormai Mainz era solo un intreccio di strade con i sampietrini lindi e trii jazz agli angoli di ogni piazza. Le sembrava incredibile essere riuscita a sopravvivere così a lungo in mezzo a persone che pianificano una cena spontanea con un anticipo di tre settimane. Una volta avevano litigato per questo motivo. Marta si era impuntata sul fatto che per nessuna ragione al mondo avrebbe confermato una cena con amici che sarebbe avvenuta da lì a tre venerdì e Matthias le aveva chiesto con un controllo affettato: «Ma come fate, voi italiani, a organizzarvi fra amici con tutto quello che c’è da fare?»
Lei aveva risposto: «Noi non ci organizziamo. Anzi, siamo così disorganizzati che usciamo di casa quando ci pare, ci sbattiamo addosso l’uno contro l’altro in maniera maldestra e visto che ormai ci siamo rivolti la parola per scusarci, andiamo a mangiarci una pizza insieme». Lui l’aveva guardata senza replicare e aveva abbassato lo sguardo sulle sue tavole di compensato. Marta era uscita fuori dalla stanza per non scoppiargli a ridere in faccia. Le amiche le dicevano che era crudele, ma per lei era divertente confondere le idee a uno che sembrava avere un piano ben definito di tutto quello che sarebbe accaduto nella sua vita. Loro allora ribattevano: «Se prendi così poco sul serio le sue necessità da tedesco, vuol dire che non ti piace davvero». Allora lei si teneva per sé le lunghe spiegazioni filologiche in cui si sperticava per far capire a Matthias che in italiano “grazie” si dice con g e non con la k. Del resto le sembrava anche giusto che certe prove d’amore fossero intelligibili solo per la ristretta casta dei filologi.
Se i coni d’ombra sulla sua vita le fossero stati così chiari come i passaggi più impervi dei testi di Plauto avrebbe avuto un’esistenza di successo e le borse di studio si sarebbero susseguite le une alle altre. I presupposti c’erano stati: impegno, abnegazione, acribia. A guardarsi indietro non c’erano stati i segnali che un giorno si sarebbe ritrovata nella sua stanza da letto da ragazza a aspettare che il calmante sciogliesse le sue gambe mentre si abbandonava alla frequenza del suo respiro che si faceva sempre più rada. Fece appena in tempo a pensare di raccontare a Matthias che l’indomani sarebbe andata dal medico e si addormentò. Si risvegliò con la camicia da notte incollata sulla schiena e le coperte arrotolate ai piedi del letto. Lo schermo del telefono segnava qualche minuto dopo le tre.
Paolo dormiva immobile con le mani intrecciate sul petto.
«Paolo», gli sussurrò da un letto all’altro, «Paolo svegliati. Ho fatto un sogno strano.»
Il fratello rimase immobile ma mugugnò qualcosa. Marta si alzò dal letto e andò a sedersi sul bordo di quello del fratello.
«Paolo! Svegliati! Ci siamo rivisti.» Dava dei piccoli colpi sulla spalla per svegliarlo. Il ragazzo scacciò la mano della sorella come se fosse una mosca e disse: «And…and now the storm-blast came.»
«Che cosa?» disse lei.
Marta avvicinò l’orecchio alla bocca del fratello e ascoltò.
«And he was tyrannous and strong: he struck with his o’rtaking wings.»
Le ci volle un po’ a capire che stava bisbigliando le stesse parole che aveva ripetuto a memoria tutto il pomeriggio seduto alla scrivania, mentre con la mano copriva la pagina stropicciata della letteratura inglese.
«And», continuò Paolo mentre si girava verso un lato: «And chased us south along.»”[2]
Si era tirato il piumone fin sulla bocca, quest’ultima parola suonò come un “alogngngngng” mentre continuava a sognare di tempeste e spose.
Marta camminò in direzione della porta facendosi luce con la torcia del telefono. Prima di uscire si fermò sulla soglia per provare a svegliarlo un’ultima volta, fu distolta dall’idea quando vide la scarpiera a specchio in corridoio. Non c’era poco prima, nella casa che aveva appena sognato.
Nella casa del suo sogno c’era un lungo corridoio con molte porte ma aveva avuto il tempo di visitare solo alcune stanze prima di svegliarsi sudata. Era certa che fosse la casa di Matthias anche se la disposizione, i mobili, i colori erano del tutto diversi da quelli dell’appartamento che avevano condiviso. Quando raggiunse il corridoio su cui si affacciavano le camere da letto, un odore di aria di notte investì le narici: era un misto di alito notturno genitoriale che esalava dalla porta aperta della loro camera e salsiccia passata in padella a rosolare. In camera loro, sua e di Paolo, non c’erano mai stati odori di notte, tutto aveva sempre avuto il profumo di bucato fresco e di pagine di libri appena sfogliate. Si diresse verso la cucina, tastò il profilo del frigorifero, poi quello della credenza dei piatti di porcellana, dovette aprire un paio di sportelli prima di trovare le tazze e i bicchieri. Ne prese uno molto capiente e lo riempì sino all’orlo. Dato che era notte e non se ne sarebbe accorto nessuno si girò una sigaretta e se la accese nel buio, si sedette al tavolo e si sforzò di ricordare il sogno.
La cucina della casa di Matthias era un cubo con le pareti giallo senape. Ovunque c’erano mensole di legno costruite da lui, stipate di bottiglie di vetro, utensili, piatti, riviste, scatole di cacao in polvere comprate al supermercato bio, oppure in confezioni di latta, eleganti, provenienti dagli scaffali delle botteghe sparse per il mondo. E poi le sue scatole, quelle di Marta. Camomilla, camomilla solubile, chiodi di garofano e accanto al lavandino il cesto che aveva intrecciato con le sue mani a un workshop che aveva fatto durante una delle loro vacanze. C’erano mele e pere e kiwi e un avocado da fare a cubi per l’insalata e un’arancia con la buccia avvizzita, chiazzata di verde; qualcuno si era dimenticato di buttarla via.
Qualcuno, pensò mentre beveva. Non riusciva nemmeno più a chiamarlo con il suo nome. Lo sussurrò a mezza voce: Ma. tthi. as. Si avvicinò di nuovo al lavabo. Prese un panno dallo scolapiatti e asciugò le gocce che imperlavano l’acciaio. Tornò a sedersi al tavolo e riaccese la sigaretta. Al centro della cucina si stagliava la figura di lui, che girato di spalle aveva detto: «Ci penso io o quell’arancia rovinerà tutta la frutta nel cesto». Guardava fuori dalla finestra, come faceva di solito mentre aspettava che il latte bollisse. Aveva versato tutto il contenuto del pentolino dentro la tazza e si era avvicinato a lei, le aveva affondato una mano dietro il collo e con le dita schiuse aveva pettinato i capelli fino alla punta.
«Devo andare adesso.» aveva detto mentre usciva dalla cucina con la cioccolata calda fra le mani.
Anche se Matthias non lo aveva detto, lei sapeva dove sarebbe andato. Si immaginò le assi di compensato adagiate sul pavimento e i trucioli di legno tutt’intorno, come briciole di pane su un tavolo sparecchiato dopo il pranzo della domenica. Finalmente era tornata nel suo studio. Finalmente poteva osservare tutti i suoi oggetti senza vita e lui, il suo oggetto in vita, come un microcosmo perfetto, in vitro. E volle conservare quell’immagine davanti ai suoi occhi, come una tenda da tirare per coprire la sporcizia del mondo. Le pareti erano costellate di cubi e parallelepipedi in legno, di diversi colori e dimensioni. Erano le sue opere d’arte, e il compensato la grammatica che aveva scelto per esprimere quello che non riusciva a dire.
Alcuni cubi erano vuoti, senza la faccia davanti né quella dietro, se ci guardava attraverso si poteva vedere il bianco della parete; altri invece erano chiusi da un foglio di compensato colorato. Riconobbe subito quello che Matthias aveva creato per lei. Era una piccola scatola di compensato nudo con la faccia interna dipinta di blu oltremare.
A differenza degli altri oggetti, tutti intitolati con un numero romano crescente, questo si chiamava “Ocean” e ce n’era uno uguale appeso al muro su cui poggiava il suo letto, nella stanza dove Paolo stava dormendo.
Qualche settimana prima, quando era arrivato per posta, Marta era in cucina a lavorare all’articolo. Il postino aveva suonato al citofono e qualche istante dopo era arrivato di corsa su per le scale. Le aveva consegnato un pacco con il suo nome e cognome, il suo indirizzo e il CAP, seguiti dalla sua nazione scritta in un’altra lingua: Italien.
Quando aveva chiesto al postino se era sicuro che quel pacco fosse per lei, lui aveva risposto: «Sei tu Marta?»
Al suo cenno d’assenso il ragazzo aveva fatto spallucce e dopo aver rimesso la penna nel taschino della polo marrone era corso giù per le scale scuotendo la testa.
Marta era tornata in cucina e aveva poggiato la scatola sul tavolo. Aveva preso a girare intorno alla stanza, guardando il pacco prima da lontano, poi da vicino. Ne aveva toccato gli spigoli, ne aveva carezzato la consistenza della carta da pacchi: avrebbe voluto aspettare giorni per aprirlo, aveva pensato mentre squarciava il nastro di scotch con la punta di una penna. Aveva affondato le mani nel polistirolo e aveva tirato fuori un cubo di legno senza una faccia. Lo sfondo era dipinto di blu. Quel pezzo di legno incompleto tremava fra le sue dita, e non riusciva a capire che cosa fosse. Si era avvicinata alla finestra per osservarlo sotto una luce migliore. Lo aveva girato, aveva trovato l’etichetta incollata sulla faccia posteriore.
Ocean, 10x10x10 cm.
Poggiò il cubo sul tavolo e cercò la parola “oceano” sul dizionario. Vasta distesa acquea che circonda i continenti.
Quando lo aveva ripreso in mano, di quel piccolo cubo aveva percepito tutta l’umidità e la profondità e lo aveva sentito bagnato fra le sue mani. Aveva dovuto tenerlo saldo fra le dita altrimenti sarebbe scivolato via.
Aveva aspettato per qualche giorno che le venisse in mente un bel messaggio da scrivere. Aveva cercato citazioni notevoli su Google. Aveva cercato citazioni notevoli nell’Odissea. Non era facile per lei rispondere a un artista, e a un certo punto si era resa conto che era diventato più importante rispondere quello che, secondo lei, Matthias si sarebbe aspettato di sentire, che non quello che avrebbe voluto dire lei.
Qualche mattina dopo si era alzata presto e aveva aspettato che tutti uscissero di casa. Aveva bevuto il resto di una bottiglia di vino aperta che aveva trovato in frigo e era andata al mare. Aveva fatto una foto sbilenca della spiaggia. Sullo schermo il profilo dell’acqua era storto, ma a posteriori non sarebbe riuscita a immaginarsi un risposta più fedele. Aveva postato la foto su Instagram e dopo pochi secondi Matthias aveva messo un like. E questo era stato tutto. Sulla strada di casa aveva smaltito la sbornia. Aveva salutato il fruttivendolo, scambiato due parole con la bidella del liceo. Aveva sorriso a tutti, forse era davvero contenta. Lo avrebbe scoperto poi.
Il sogno andava avanti. Marta aveva aspettato che Matthias chiudesse la porta del suo studio. Era rimasta per un po’ fuori dalla stanza a origliare. Non si sentiva niente. Matthias era silenzioso anche quando segava le assi di compensato. Dopo un po’ si decise a bussare, aprí la porta. Lo trovò di spalle, inginocchiato sul pavimento.
Stava mescolando il colore. Erano passati molti giorni ormai da quando glielo aveva visto fare per l’ultima volta, ma non si sarebbe mai dimenticata il movimento fluido e circolare del braccio che compare e scompare dietro il suo torso. Continuò nel suo lavoro anche quando Marta era entrata nella stanza.
«Cosa ci fai qui?» disse lui.
Poi si alzò in piedi e si avvicinò, dal pennello gocciolava pittura blu sul pavimento. Adesso aveva il volto di un altro uomo. Era più vecchio e sembrava essersi ammorbidito con il passare degli anni.
«Sono venuta per dirti.» si interruppe e ricominciò da capo.
«Sono venuta per vederti.»
«Eccomi qui. Mi vedi», rispose lui affondando le dita blu fra i capelli di Marta.
«Sei diverso» disse lei, «Sembri invecchiato».
Matthias si mise a ridere e poi disse: «Bisogna avere un’idea per tirare fuori un’opera d’arte. Un piano. Un tracciato da seguire». Marta lo osservò in silenzio, lo lasciò parlare.
«Alcuni materiali sono delicati. Quando ci lavori non puoi cambiare idea troppo spesso. Non puoi essere indeciso. Come con le foglie oro. Con le foglie oro non si può cambiare idea. Se le maneggi troppo a lungo va a finire che si spezzano. Con il compensato è diverso. Puoi avere un’idea e accorgerti che era sbagliata, puoi iniziare un nuovo lavoro senza perdere niente. Ocean è nato così.»
Adesso lui aveva la mano fra il collo e la sua testa, come se lei fosse appena nata.
«Ci ho messo giorni a capire che cosa fosse ma poi mi sono arresa all’idea che non fosse nient’altro che un cubo con una faccia blu.»
«È anche questo. Ma più di tutto Ocean sei tu.»
Marta osservò la stanza alla ricerca di un segno della sua presenza in quella casa. C’era solo Matthias, da tutte le parti. Si avvicinò alla porta. Quando se la chiuse alle spalle, il peso della sua mano gravava ancora sul capo.
Il sogno l’avrebbe accompagnata ancora qualche giorno, lo sapeva già, le era già accaduto. Nei suoi sogni Matthias era stato più vecchio, era stato più giovane. Era stato tutti gli uomini. Ma diceva sempre frasi che lei non era sicura di capire. Andò a sciacquare il bicchiere sotto l’acqua tiepida e gli fece spazio fra le altre stoviglie.
Le ci volle qualche secondo per abituarsi alla luce dello specchio del bagno. Si mise a fuoco strizzando gli occhi e provò l’espressione che faceva per tirarsi su. Nel riflesso cercò il punto della sua testa in cui era poggiata la mano di Matthias. Prese il ciuffo di capelli in cui lui aveva affondato la mano, e tirò delicatamente. Lo specchio restituiva i contorni confusi di una ciocca che pendeva dalle sue dita, al centro della testa era rimasta una piccola chiazza di pelle bianca.
Tutto intorno, un deserto in via d’espansione.
[1] Scienze delle religioni
[2] «Ed ecco la tempesta sopraggiunse. Tremenda, furiosa essa appariva. Ci colpì con le sue ali potenti e lungo tutto il sud noi fummo sospinti.» S.T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio
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↔ In alto: Foto di Nicole Honeywill su Unsplash.
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