Skip to main content

Era stato violento. Nonostante fosse notte fonda e la casa immersa nel buio, senza una luce sulla strada, né nel giardino, lui l’aveva messa alla porta. Poi aveva girato il chiavistello. Attonita, non aveva avuto la forza di reagire. Aveva sentito di nuovo aprirsi la serratura e aveva sperato, anzi era assolutamente certa, che lui le avrebbe riaperto per tirarla via dal freddo chiedendole scusa; o forse semplicemente, come era nei suoi modi bruschi, invitandola ad entrare senza una parola. Per poi concludere, quando lei fosse entrata: «Non parliamone più e andiamo a letto». Ecco, in una frazione di secondo, mentre sentiva la serratura girare, un clac dopo l’altro, lei aveva pensato proprio questa frase: «Non parliamone più e andiamo a dormire». Era stanca, era stata una giornata faticosa, conclusa con quel litigio. 

Aveva guidato tre ore per raggiungerlo in campagna, vicino a Orvieto, era arrivata nel pomeriggio con un cesto di cachi del suo giardino; a lui piacevano molto e tra i diversi alberi da frutto che aveva, mancava proprio un cachi, tanto diffusi invece nelle case coloniche della Toscana.

Al terzo clac la porta si aprì, ne uscì una mano con appesa la sua borsa. Dopo un attimo di sospensione e di silenzio, senza che apparisse il proprietario di quel braccio forte e con la camicia a scacchi, la borsa era stata lasciata cadere per terra e la porta si era richiusa. 

Lei continuava a fissarla come se ancora molte cose dovessero accadere. Non le venne in mente di buttarsi contro il portoncino di legno, sbattere i pugni, gridare. Semplicemente guardava la sua borsa sullo stretto marciapiede di pietra grigia, mentre sentiva l’umidità del prato salirle sulle gambe. Era stata una sciocca a non mettersi le calze pesanti: era dicembre e non si poteva andare in giro con decolleté eleganti e collant velati. Tirò verso l’alto il collo di pelliccia del cappotto per coprirsi il retro della nuca dove, da quando aveva dovuto tagliarsi i capelli, sentiva sempre freddo. Avevano cominciato a caderle dopo la menopausa e da allora aveva continuato a perderli. Tenendoli corti e con un po’di permanente prendevano più volume; lei non sapeva però che al centro della testa c’era una chiazza di pelle pallida che si intravedeva tra ciuffi rossastri. 

Finalmente si piegò a raccogliere la borsa. Mise l’orecchio contro il portoncino per sentire se da dentro provenisse qualche rumore. Niente. Guardò in su, verso la finestra della camera da letto. Buio. Sicuramente lui era in salotto a fumare. 

Non voleva bussare ma non voleva neanche aspettare lì fuori come un bambino in punizione. Prese il cellulare dalla borsa e guardò l’ora. Le tre. Si strinse ancora nel cappotto, per fortuna il grasso accumulato la proteggeva dal gelo. Solo i piedi sentiva ghiacciati. Li batté un po’ in terra per scaldarli. Poi in un istante le venne in mente che là dentro c’era ancora il suo vecchio cesto con i cachi e fece per bussare. «No», disse a voce alta. «No». Si voltò e a piccoli passi andò verso l’automobile facendosi luce con il cellulare, le decolleté non erano davvero adatte alla campagna; i tacchi affondavano nell’erba umida con un movimento dolcissimo, seguito dalla piccola fatica di estrarli dalla terra. Chissà perché li aveva indossati. Lo sapeva benissimo: per essere più attraente, per cercare di dare di sé un’immagine spigliata, sexy, giovanile. 

Le chiavi erano nel cruscotto; non c’era bisogno di chiudere l’automobile, la lunga strada sterrata che separava la casa di Guido dal paese rendeva il podere sicuro dai furti anche se non dalle rapine. Ma nessuno avrebbe rischiato la galera per rapinare quella casa di campagna spartana e abitata da un uomo armato. 

Nel pomeriggio, arrivando, aveva pensato con piacere che la sera avrebbe gelato: c’era l’aria grigia e fredda che rende la campagna plumbea, bella da guardare dalla finestra quando si è al caldo. Si era immaginata aspettare l’arrivo del buio davanti al camino acceso, con Guido che le raccontava come era andata la settimana e le chiedeva cosa avesse in mente per cena. Invece quando Rita era arrivata, la macchina di Guido non c’era; le aveva lasciato le chiavi di casa al solito posto. Avrebbe potuto almeno telefonarle. Lo aveva chiamato. «Il telefono dell’utente desiderato potrebbe essere spento o non raggiungibile». Aveva poggiato il cesto di cachi nella stireria accanto all’ingresso e si era seduta in salotto a sfogliare un libro di giardinaggio senza neanche levarsi il cappotto. A volte non si ha la capacità di rintracciare l’inizio di una fine: se Rita avesse potuto farlo, ma ora era troppo nervosa per ragionare, avrebbe capito che in quell’istante iniziava la discesa; sì, proprio il giorno del suo sessantesimo compleanno, quando, seduta con il cappotto nel salotto silenzioso di Guido, sfogliava, senza vederlo, un libro sulle peonie. 

Per mettere in moto l’automobile ci volle un po’ di tempo. Una lieve coltre di gelo ricopriva esternamente il parabrezza. I fari illuminarono il fico sul prato e il bosco subito dietro. Prima di ingranare la marcia ebbe il tempo di avvertire la crudeltà dell’umiliazione subita. Fece un sospiro, ma non bastò a ricacciare le lacrime. Prese il cellulare e compose il numero di Guido: ora squillava, ma non vi fu risposta. Era là, dietro quel muro di pietra e le imposte chiuse; certamente sentiva il cellulare squillare. Intanto il riscaldamento scioglieva il sottile strato di ghiaccio del vetro. I piedi cominciavano a percepire il calore. 

Fu un’intuizione la freccia più avvelenata: immaginò Guido, seduto in salotto, con la sigaretta tra le mani, il cellulare che squilla, il camino che inonda di una luce rossastra la stanza, pervaso da una inaspettata sensazione di sollievo. Quella sensazione di pace che dà un problema affrontato e risolto, una persona che esce dalla nostra vita portando via noia e fastidio. Una sensazione così diversa dal tumulto doloroso che provava lei. 

Ora piangeva con la testa piegata sul volante mentre l’automobile sobbalzava ai giri bassi del motore. Si attaccò al clacson e lo fece suonare a lungo. Non accadde niente. Le luci del giardino rimasero spente. 

Anche lei aveva provato una volta quella sensazione di sollievo. Ricordava bene il giorno che suo marito aveva preso in braccio la bambina, sbattuto la porta e se ne era andato. Si era seduta sul divano, aveva tirato fuori una rivista dalla pila di giornali accanto al camino (un caminetto, un vero lusso per un appartamento nel centro di Milano) e si era messa a sfogliarla nella casa improvvisamente silenziosa. Appena poco prima l’appartamento era scosso da grida e pianti. Che sollievo, aveva pensato allora. E si era sentita giovane e bella. Libera.

Ma questo era successo molto tempo fa, era il 1978 e Carla, sua figlia, aveva appena 3 anni. 

Fu proprio il pensiero di sua figlia a darle la forza di ingranare finalmente la marcia e fare manovra per andare via. Smise di piangere e si asciugò gli occhi con la manica del cappotto. 

La strada sarebbe stata gelata, soprattutto il lungo tratto che costeggiava il bosco. Doveva essere prudente. 

Prima di lasciare la sua casa in Toscana, sua figlia Carla le aveva detto al telefono: «Mamma non andare. È già stato abbastanza antipatico a non farti neanche gli auguri per la tua festa. Poi tre ore di macchina con queste temperature polari, neve ovunque, le strade gelate…». Ma lei aveva risposto che Guido l’aspettava e che sarebbe partita nel primo pomeriggio, non appena fosse arrivata la signora che restava ad accudire i cani quando lei era via. Aggiunse che a quell’ora avrebbe viaggiato bene, senza traffico e con la luce. «Non ti preoccupare tesoro, che vuoi che sia una telefonata di auguri, mi aspetta a casa, festeggeremo stasera insieme…stai tranquilla ti avverto appena arrivo», le aveva detto al telefono. 

Celando il senso di delusione per non aver trovato Guido ad attenderla, appena arrivata aveva mandato alla figlia un sms: «Nonostante il tempo da lupi ho fatto un ottimo viaggio, sono arrivata e ti bacio».

Carla viveva a Milano, aveva due bambine piccole e di rado andava a trovare la madre in Toscana; le aveva perdonato gli anni dell’abbandono, ma non aveva piacere a tornare in quella casa dove aveva trascorso le vacanze da bambina e dove ora Rita viveva in compagnia di due cani. 

Era davvero buio, un buio pastoso per via del bosco che costeggiava buona parte della strada sterrata. Rita guidava lentamente, mentre nell’abitacolo il ronzio del riscaldamento al massimo annientava i suoni esterni. All’improvviso un piccolo uccello notturno le tagliò la strada volando basso. Per un attimo i fari illuminarono le ali distese. Il cuore ebbe un sussulto e questo bastò a farle tornare i singhiozzi. 

Guido, quando aveva un problema, un imprevisto o una preoccupazione diceva: «Ci penserò poi con calma, ora non ho voglia», e riusciva a dormire tutta la notte, a fare la sua passeggiata nel bosco, ad accudire gli asini, ad andare al poligono a sparare o al bar del paese per commentare le partite. Poi giungeva l’istante in cui affrontava di petto la questione, per quanto spiacevole potesse essere. Lei era diversa: un pensiero bastava a spalancarle gli occhi la notte, a renderla impacciata nei movimenti, impulsiva nelle azioni, distratta con gli amici e confusa nel momento di fare la spesa.

Ora il pensiero di Guido, del modo crudele con cui l’aveva messa alla porta le stava addosso, invadeva ogni piccolo spazio della sua vita. Anzi, la sua vita ora era tutta in quel rifiuto. 

Negli ultimi tempi a svegliarla la notte o ad “agitarla”, come diceva lei, era la paura per i capelli che cadevano e il grasso intorno alla pancia che cresceva indipendentemente dalla sua alimentazione. Si era dovuta fare allargare le gonne. Ai lati della mandibola si erano create come due sacche vuote e cadenti. 

Le tornavano alla mente le parole di una zia, alle quali, trent’anni prima, non aveva dato peso. Suo marito se ne era da poco andato portandosi dietro la piccola Carla, lei era rimasta sola nel grande appartamento di Milano e conduceva una vita spensierata e divertente; la zia era andata a trovarla. 

«Stai attenta Rita», le aveva detto, «che la vecchiaia non è una cosa che avanza sulla strada della vita a piccoli passi, ma una cosa cattiva che compie improvvisi scatti in avanti. Poi si arresta per un po’, fino al prossimo via». 

Quelle parole le apparivano per la prima volta spietatamente vere. La zia, morta ultraottantenne, sembrava non aver rancore verso la vecchiaia e fino alla fine era stata una donna elegante e saggia. Rita invece odiava quella «cosa cattiva» che ultimamente aveva fatto un balzo in avanti, aggredendola; avrebbe voluto ucciderla. Era colpa sua se Guido l’allontanava.

Negli ultimi tempi per calmare la nuova angoscia, che non confessava a nessuno, Rita si diceva che si sarebbe iscritta a un corso di ginnastica, avrebbe dedicato più tempo a se stessa, una passeggiata tutti i giorni; si era comprata un libro su una dieta vegetariana che rendeva la pelle fresca e soda come quella delle ragazze, si riprometteva di essere meno disponibile e più severa con chi le faceva perdere tempo. In realtà non rinunciava alle sue abitudini, cucinava per le amiche dei magnifici pasti a base di pasta fatta in casa e polpettoni con le carote, invitava a fermarsi a cena amici e conoscenti che si recavano da lei per avere qualche consiglio musicale (era un’esperta conoscitrice di musica classica e organizzava per la città i più bei concerti di tutta la Toscana). Continuava a mangiare cioccolatini di Slitti mentre ascoltava il telegiornale e la mattina a letto faceva una colazione abbondante con il pane tostato e la marmellata fatta da lei. Era insomma ospitale, allegra e buongustaia. Soprattutto era una donna generosa.

Quanto avrebbe pagato ora per poter dire «Ci penserò domani, ora penso solo a guidare e ad arrivare a casa». Invece no. A lei non era concessa distrazione e continuava a sentire il clac clac della porta che si richiudeva sul suo viso. Sentiva che il bruciore dell’umiliazione non diminuiva, era anzi della stessa intensità di quando era fuori nel freddo del giardino di Guido. 

Guardò l’orologio strusciandosi la mano sul volto per asciugarlo e inondando ora il dorso ora il palmo di liquidi che le colavano dall’alto, lacrime, catarro, sudore. Maledette vampate, le avevano detto che sarebbero prima o poi finite e invece la tormentavano ancora. Come una bambina si asciugava la mano sulla gonna di tweed che in realtà non riusciva ad assorbire tutta quella roba, anche il volante era diventato appiccicoso e umido. Erano quasi le quattro. 

Guidava lentamente; ora riconosceva bene la provinciale che l’avrebbe portata all’imbocco dell’autostrada. Non incontrava nessuno; qualche lampada illuminava l’ingresso di una casa, poi tutto ripiombava nel buio. Alcuni edifici industriali sulla destra erano illuminati da fari portentosi e si scorgevano bene i tetti di cemento. 

Ripensava allo stato d’animo con il quale solo dodici ore prima aveva percorso quella via, aveva avuto l’idea di fermarsi a comprare dei biscotti per la colazione della mattina, ma poi aveva rinunciato perché era tardi e il buio in quella stagione scendeva già alle quattro del pomeriggio. A lei non piaceva guidare al buio e durante i viaggi lunghi che aveva fatto con Guido si alternavano: lei al volante finché c’era luce, poi era lui che, infilandosi dei guanti con le dita tagliate, impugnava deciso il volante e sfrecciavano nella notte verso la loro destinazione. Che bei ricordi aveva dei loro primi anni insieme, dei loro viaggi per andare a sentire un concerto, un’opera. Guido era basso di statura, ma quando guidava sembrava più alto, le spalle dritte, appena distanziate dallo schienale del sedile. 

Ora la strada sinuosa saliva verso le colline; una strada che l’automobile all’andata aveva percorso dolcemente, a tempo di danza e che ora invece era minacciosa.

Provò a mettere il cd con l’esecuzione di Brendel dei quintetti di Schubert, una delle sue interpretazioni preferite, ma quelle note le moltiplicavano le lacrime e dunque preferì tornare al ronzio del riscaldamento. 

Il rettilineo era deserto e ghiacciato, alla sua destra c’era la massa scura delle colline. Andava piano e faceva bene ad essere prudente perché probabilmente non sapeva che anche solo toccare il freno su quell’asfalto lucido l’avrebbe fatta sbandare. Lei non aveva nessuna intenzione di morire, né di farsi del male, seppure fosse terribilmente triste, affranta e sola. Semplicemente quel pensiero non le era mai venuto in tutta la sua vita, come non le era mai saltato in mente di pronunciare la parola “depressione”, la parola “vecchiaia”, di comprare un biglietto per New York o di ascoltare una musica diversa dalla musica classica.

Ecco, finalmente l’imbocco dell’autostrada. 

Cominciava a scendere nevischio. Si era messa il cellulare tra le cosce, così se fosse arrivato un messaggio, avrebbe sentito la vibrazione e avrebbe saputo che finalmente Guido si era reso conto della crudeltà del suo comportamento. Ora che la strada era dritta e ben visibile grazie alle luci dei guardrail e ai lampioni altissimi che illuminavano le uscite poteva distogliere un attimo lo sguardo dalla strada e controllare se per caso…ma niente. Sul piccolo schermo non c’era traccia di messaggi in arrivo. 

Aveva gli occhi gonfi, il piccolo naso arrossato, i radi capelli umidi e spettinati. La spia del serbatoio cominciò a lampeggiare. «Devo fare benzina» e anche questo pensiero, come Schubert, alimentò la tristezza. 

Questa volta non avrebbe fatto pace con Guido, non poteva perdonarlo; eppure non sentiva né collera, né indignazione.

Quando lui alla fine, mettendola alla porta, le aveva urlato: «Vattene Rita o ti ammazzo, lo sai che in casa ho la pistola», lei aveva provato solo paura e il desiderio di calmarlo. «Non ti arrabbiare, dai, non gridare». Almeno la rabbia l’avrebbe aiutata a fare piani per il futuro, piani da cui Guido era escluso. 

Invece la paura la portava a dirsi che Guido non era cambiato; forse era solo un periodo di stanchezza, si diceva tra le lacrime a voce alta, «Sì, è solo un periodo difficile». 

Ora era in autostrada e cercava di ragionare, di allontanare razionalmente il dolore; tentava di collocare l’evento accaduto quella notte, la notte del suo compleanno, all’interno della loro storia, togliendo l’episodio dal fiume che scorreva tumultuoso verso la spaventosa parola “fine”. Cercava di dargli invece il senso di un’incomprensione temporanea. Questo ragionamento la calmava. I catarifrangenti illuminati dai fari della sua automobile segnavano la strada e lei si sentiva un po’ più coraggiosa. Ma il nevischio si fece più fitto e fu costretta a rallentare.

Senza saperlo, si stava preparando a perdonare. Appena arrivata a casa gli avrebbe telefonato con la scusa della cesta dei cachi. Però, si chiedeva, perché non le aveva aperto la porta? Perché l’aveva lasciata fuori al freddo? Poteva anche permetterle di restare: ognuno in una stanza; che bisogno c’era di cacciarla via alle tre di notte di una serata di dicembre? Il giorno del suo sessantesimo compleanno, poi. Forse lei gli aveva davvero fatto perdere le staffe. Cercava di ricordare quello che gli aveva detto, ma non le venivano in mente che le ultime frasi in cui si scusava, mentre lui le buttava il cappotto sulla poltrona e le intimava: «Vai via, vattene, è casa mia».

«No, da lui non ci torno, questa volta ho chiuso. Chiuso», disse; ma dentro di lei sapeva bene che non era così. Era invece tutto aperto: come su una vasta pianura il passato soffiava i nomignoli che le dava lui nei momenti di intimità, la loro passione per la musica, i regali che lei gli aveva fatto negli anni, i cd, i libri di giardinaggio, i pullover; la conserva e l’olio che lui le portava a Natale, unici doni che le avesse mai fatto, ma che Rita apprezzava immensamente. 

L’abitacolo dell’automobile aveva una temperatura confortevole e i ricordi felici si moltiplicavano. La rabbia le avrebbe permesso di immaginare un possibile futuro senza Guido; ma la paura di restare sola le faceva tornare davanti il passato nella sua veste migliore. 

Finalmente vide la stazione di servizio. Tolse gli abbaglianti ed entrò. Erano passate le quattro e temette che non ci fosse nessuno a servirla. Invece dal gabbiotto uscì un uomo corpulento, di una sessantina d’anni con il berretto rosso e una giacca imbottita.

 «Mi farebbe il pieno?».

L’uomo però restò a guardarla chinato verso il finestrino.

«Il pieno per favore», ripeté lei assestandosi un po’ i capelli e sforzandosi di usare un tono naturale.

L’uomo aveva occhi chiari e limpidi, rughe profonde sulla fronte e un grande naso. Dalla bocca usciva il vapore del fiato. 

«Sto tornando a casa» balbettò Rita e scoppiò a piangere, un pianto forte, tutto di scosse e sobbalzi. La testa si reclinò sulle braccia ora appese al volante come se fosse un’àncora.

 «Su, scenda, via, scenda, non stia qui. Venga. La macchina la spostiamo dopo».

Rita si asciugò di nuovo il naso con il dorso della mano e senza aggiungere altro, pulendosi la mano sulla gonna accese il motore e spostò la macchina nel parcheggio vuoto dell’autogrill. 

L’uomo l’aspettò sui gradini che portavano nel bar. Rita si strinse nel cappotto e sentì che il collo di pelliccia era umido di sudore e di lacrime. Aveva però il suo profumo, che ebbe il potere di rincuorarla un poco.

Dentro era caldo e la luce era molto forte; il Natale era vicino e dappertutto. Il bancone di marmo grigio del bar era deserto e nella vetrina vi era rimasto qualche panino con la cotoletta. Una ragazza con una cuffietta rossa era seduta alla cassa e leggeva un libro. 

«Giorgia, fai un caffé alla signora e già che ci sei uno anche a me». La ragazza alzò gli occhi e posò il libro aperto: Rita vide che aveva un buffo titolo, Vento forte tra Lacedonia e Candela. Si ricordò di quante volte sul canale di Isoradio aveva sentito quell’annuncio e aveva pensato ogni volta agli abitanti di quei luoghi lontani battuti sempre dal vento. 

«Il bagno è giù», disse la ragazza intuendo la ragione per cui Rita si era avvicinata alla cassa. 

 «Oh Dio, Oh Dio mio, che disastro», disse guardandosi allo specchio. I capelli di un rossastro fasullo, ora le sembravano orribili. Avrebbe dovuto dare retta alle amiche e smettere di tingersi.

Si infilò in bagno, poi si sistemò meglio la canottiera nera di seta con i ricami che aveva comprato appena qualche giorno prima in vista della sua partenza per Orvieto. 

Si sciacquò la faccia, cercò nella borsetta un po’ di crema nutriente. Le borse sotto gli occhi erano gonfie e nonostante avesse fatto numerose infiltrazioni di rimpolpante, dal naso scendevano fino ai lati della bocca due rughe profonde. 

 Cercando di darsi un contegno salì le scale ripetendo il titolo del libro, Vento forte tra Lacedonia e Candela. Nel momento in cui aveva visto la copertina, si era sentita, chissà perché, un poco meno disperata.

La ragazza con la cuffietta era in piedi davanti alla macchina del caffé. Il benzinaio fece accomodare Rita a uno dei tavoli e andò a dare un’occhiata nel piazzale per essere sicuro che non ci fosse qualche cliente alla pompa. 

Rita si tolse il cappotto e girò lo sguardo nell’autogrill deserto e silenzioso. Era una stazione di servizio piuttosto piccola, come ne erano rimaste poche lungo quel tratto autostradale. 

L’uomo dagli occhi azzurri tornò verso di lei tenendo due tazzine di caffé e guardandola come se fosse una bambina caduta dalla bicicletta. 

Rita tirò fuori dalla borsa il fazzoletto e si soffiò il naso. 

«Sto tornando a casa…», disse con voce rauca.

«Dove è la sua casa?». 

«Pisa». Si sforzava di usare un tono tranquillo.

«Lo sa quanto siamo lontani da Pisa?».

«Sì, ci vorranno un paio d’ore, l’ho fatta tante volte questa strada». 

La voce si ammorbidì e le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso. 

Si asciugò gli occhi e l’odore di lavanda del fazzoletto le ricordò la sua casa. Pensò che aveva voglia di tornare dai suoi cani, da Jerry, il bassethound, e da Red, il dalmata.

«Allora, come mai da Pisa è venuta fin quaggiù?», disse il benzinaio sedendosi di fronte a lei.

«Ero andata a trovare il mio….il mio…»

«Il fidanzato?», disse l’uomo mentre Rita finalmente riusciva a pronunciare la parola. «Compagno».

«Non pianga, mi dispiace vederla così».

 Rita emise un lungo sospiro e si portò il fazzoletto al naso. 

«Mi chiamo Luigi.»

«Rita, mi chiamo Rita». 

«Un bel nome. Via, Rita mi dica che è successo…Giorgia, per favore spostami lo schermo del parcheggio verso di me, così posso vedere se arriva qualcuno».

Giorgia prese una scaletta, montò su e spostò lo schermo del circuito interno verso i tavoli del ristorante dove i due erano seduti.

«Forse sarebbe meglio se io andassi verso casa», disse Rita con la voce rotta ancora da qualche singhiozzo.

«Faccia la brava e beva il caffè, che si fredda». Rita ubbidì e sentì che con la bevanda scendeva giù anche il groppo alla gola.

«Allora, che è successo?».

«Mi vergogno anche a dirlo …». Mise la testa fra le mani per nascondere il viso e soprattutto gli occhi. 

«Che vergogna», disse piano. Ebbe un brivido di freddo e si infilò di nuovo il cappotto. La pelle chiara del suo viso sembrava più lunare sotto le luci al neon. 

«Ha fame?». Rita scosse la testa. 

Aveva mangiato un piatto di minestra di zucca, del formaggio di capra, del prosciutto vecchio e due mele del giardino di Guido. Aveva cenato da sola, lui aveva detto che non aveva fame ed era rimasto davanti alla tv. 

«Non saprei da dove cominciare», disse con voce flebile. 

«Inizi e poi le parole verranno. Fa bene chiacchierare con qualcuno». 

Rita non sapeva che fare, se andarsene o restare. Luigi sembrò intuirlo e le disse: «Esco un attimo, c’è qualcuno alla pompa. Non se ne vada». 

Dallo schermo del circuito interno Rita guardò l’uomo trasformarsi in una silhouette grigia, camminare infilandosi il berretto che aveva in tasca e riempire il serbatoio dell’enorme tir.

 «Allora Rita perché ha pianto tanto?». Luigi si sedette di nuovo, la giacca coperta di fiocchi di neve che andavano sciogliendosi. 

Cominciò con la voce rotta: «Ma non è niente di interessante….». Il benzinaio le allungò un fazzoletto di carta ma Rita usò il suo che stringeva nel pugno. L’uomo la guardava in silenzio. Poi quando si calmò, si aggiustò la gonna tirandosela bene sulle ginocchia e si strinse nelle spalle. Lo guardò come volesse scusarsi.

«Sono partita oggi pomeriggio, cioè ieri pomeriggio presto da Pisa, per andare a trovare Guido, il mio compagno, che abita a San Secondo, vicino a Orvieto. Conosce il posto?». Luigi scosse la testa. «È un bel paese, proprio bello, con una rocca in cima. La prima volta che ci sono stata parecchi anni fa era inverno e nevicava, era bellissimo, mi piace tanto la neve ma non quella di stanotte», e riprese a singhiozzare. Poi si calmò, respirò e continuò: «Guido vive a San Secondo, ha un podere. Produce il vino, buono, poi fa l’olio, ha un bel frutteto e io sono andata a trovarlo per stare con lui tre giorni. Stiamo insieme da cinque anni, prima eravamo buoni amici, poi una sera, cinque anni fa ci siamo…ci siamo… così, come dire…» 

«Fidanzati», intervenne Luigi dopo aver mandato giù un sorsodel suo caffè ormai freddo.

«Insomma, sì, ‘fidanzati’». La pelle chiara di Rita faceva risaltare gli occhi arrossati e se non fosse stato per le labbra rimpolpate e il cedimento delle guance avrebbe avuto un bel viso. 

«Ieri sono partita per andare a trovarlo ma quando sono arrivata non c’era. Avevo guidato tutte quelle ore e lui, quando arrivo, non c’è e non mi avverte».

 «Forse il signor Guido avrà avuto un contrattempo, non ha pensato così?».

Rita scosse la testa e le corte ciocche arricciate ai lati del viso dondolarono lievemente. Le labbrone si serrarono a sottolineare il no.

«Guido è tornato che erano quasi le nove», continuò Rita e cominciò a parlare concitata, come se fosse di nuovo lì, nella casa dalla quale era stata cacciata.

«Ero in salotto che l’aspettavo. Per più di due ore ho provato a chiamarlo ma aveva il cellulare staccato. Mi sono spaventata, ho pensato che gli fosse successo qualcosa, con il gelo che scendeva. Invece no, mi ha detto che era solo andato a comprare una partita di legna e si era messo a discutere con il proprietario del magazzino e insomma alla fine aveva fatto tardi e solo tornando indietro si era accorto che il cellulare era spento. Ma io dico: lo sai no che sto venendo da te, avvertimi…invece niente», e dicendo così Rita si sbottonò il golfino marrone e lasciò intravedere il pizzo della canottiera. Il suo seno era abbondante e lei con un gesto se lo aggiustò tirandolo verso l’alto. 

«Così quando ho sentito che apriva la porta ero talmente innervosita che non mi sono neanche alzata per andargli incontro e quando si è affacciato al salotto dove ero seduta mi ha detto: ‘Ho fatto tardi, ero a comprare la legna’. Neanche scusa. Niente. Allora gli ho detto che poteva almeno avvertirmi, mi ero preoccupata…. O magari mi sarei fermata a comprare qualcosa o che so io….e sapete lui che mi ha risposto? ‘Non cominciare’ ed è andato in cucina. L’ho seguito e gli ho chiesto se fosse successo qualcosa, perché fosse così antipatico e lui mi dice che non ha niente, di lasciarlo in pace e va su in camera. Allora mi metto in cucina a preparare la minestra di zucca che so che gli piace. Mi era passato il nervosismo, ero tranquilla. Quando scende gli dico che ho portato un cesto di cachi, non sono ancora tutti maturi e dunque conviene lasciarli in stireria, al buio. Neanche grazie, niente. Accende la televisione in salotto e si mette a guardare la gara di quelle maledette macchine. Ed è il mio compleanno oggi, cioè ieri era…». 

Luigi l’ascoltava. Rita si era animata e le gote erano più rosate. 

Ogni tanto con il fazzoletto si asciugava una goccia che ostinatamente continuava a scenderle dal naso.

Fuori era ancora buio e doveva essersi alzato il vento perché si sentiva un rombo infrangersi contro la vetrata. Giorgia si era avvicinata e si era seduta anche lei al tavolo; era stanca, per fortuna alle sei e mezzo staccava. Quando faceva il turno di notte arrivava a casa verso le sette, il bambino era già sveglio e sua madre era pronta ad andarsene. Si salutavano con poche parole: «Tutto bene?», «Sì Giorgia, tutto bene, ha dormito come un angelo e tu come è andata?», «Al solito, ciao mamma e grazie».

Accudiva il bambino, gli dava la colazione, mangiava qualcosa con lui mentre il sonno cominciava a sopraffarla. Alle otto lo portava all’asilo dietro casa e finalmente poteva andare a letto. Ma quell’alba era diversa dalle altre, sarebbe rimasta volentieri con Luigi e quella signora dai capelli tinti.

Rita prese il libro che Giorgia aveva posato sul tavolo. Voleva allentare la tensione, allontanare il dolore che le dava ripercorrere i momenti precedenti alla cacciata da casa di Guido. Il silenzio circondava il tavolo. Lo aprì a caso: 

«Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi uno spazio per una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura».

Il brano era stato sottolineato con una biro.

Queste parole, il tè, la compagnia della ragazza e quell’uomo gentile le davano un tepore che scivolava sulla schiena; non aveva più la sensazione di sudore freddo che la faceva sentire vecchia. Aveva smesso anche di odiare la sua gonna e le scarpe che indossava. 

La pena per se stessa che aveva provato quando era andata in camera di Guido e aveva trovato sul comò l’ordine della legna (lo aveva letto; risaliva al giorno prima, Guido le aveva mentito) ora la stava abbandonando, si sentiva meglio. 

 «E allora che è successo?» chiese Luigi. 

 «È successo che ho scoperto che mi aveva detto una bugia, che non era andato a prendere la legna. Abbiamo litigato, volevo impedirgli di vedere in TV la fine di quella maledetta gara. Poi mi ha accusata di spiarlo, di stargli addosso come una …ossessa», e dopo qualche secondo di silenzio aggiunse: «mi ha detto delle cose brutte». 

Pronunciò la frase guardando Luigi dritto negli occhi, come a ripercorrere con l’aiuto dello sguardo limpido di lui le parole che aveva ascoltato. 

 «Mi sono scusata, gli ho detto ‘Sai che perdo la testa quando ti fai aspettare’….». E aveva cercato di carezzarlo, ma questo lì nell’autogrill non lo raccontò.

«Ma non sarà stato un fulmine a ciel sereno», disse Giorgia.

Rita si passò la mano sugli occhi: «Da settembre non mi era più venuto a trovare, ogni volta una scusa, ora la vendemmia, poi l’olio, l’orto per l’inverno…gli asini… se devo essere sincera sì, avevo avuto qualche sospetto, già all’inizio di giugno non era più lo stesso. Lei come si chiama?» chiese Rita guardando la ragazza. 

«Giorgia» e si alzò per andare alla cassa dove era arrivato un uomo tarchiato.

Fuori il cielo era ancora scuro sebbene fossero passate le sei. 

 «Forse deve andare via anche lei?», disse Rita guardando Luigi.
«Tra un po’sì, ma non c’è fretta».

Adesso Rita temeva che, lasciando la sedia, il tavolo con la tazza del caffè, avrebbe potuto ripiombarle addosso il macigno dell’umiliazione e la solitudine. Il freddo. 

Giorgia tornò verso di loro, si avvicinò a Rita.

«Signora, questo libro è per lei. Parla di persone e di paesi abbandonati, ma anche di speranza…glielo regalo volentieri così si ricorda di noi, di questa notte».

«A dire la verità non so neanche dove siano Lacedonia e Candela, sento solo sempre nominarle da Isoradio».

«Giù, ci passa l’autostrada che da Napoli porta in Puglia, taglia l’Italia a metà», disse Giorgia.

Mettendo il libro nella borsa Rita vide il cellulare e lo guardò distratta per vedere se ci fosse qualche messaggio.

Fuori, dalla parte in cui sorgeva il sole c’erano delle nuvole lunghe, simili a dei tubi, che erano di un colore più acceso, quasi rosso. 

La porta a vetri dell’autogrill ora si apriva e si chiudeva, entravano viaggiatori infreddoliti in cerca di un caffè. 

Rita si guardò in giro mentre Luigi si alzava. I suoi occhi verdi si posarono sull’albero di Natale con le finte tessere telefoniche, sulla torre di cioccolatini rosso fuoco. Sentì commozione per quello che la circondava. 

Luigi le propose di mangiare qualcosa, Rita chiese un cornetto e una spremuta. Fecero colazione vicini, appoggiati al bancone, in silenzio. Quando lei fece il gesto di pagare, il benzinaio la guardò, infilò la mano nella tuta da lavoro e andò verso la cassa, al posto di Giorgia c’era ora una signora di mezza età, con il viso rotondo. 

Quando Rita e Luigi uscirono, l’aria era fredda e il cielo pulito, i monti in lontananza, nitidi sull’orizzonte, erano ricoperti di neve. Era presto ma si capiva che sarebbe stata una giornata di sole, di quelle giornate trasparenti, terse.

Scesero insieme i gradini, senza dirsi una parola. Luigi le aprì lo sportello dell’automobile.

Rita ripartì, sul sedile accanto c’era il libro che le aveva regalato Giorgia; il sole veniva su rosso dall’orizzonte e la campagna fra neve e cielo, era bella. Un airone impassibile sul bordo di un fosso, sembrava parlare dell’eternità che inondava l’ora mattutina. Rita mise i quintetti di Schubert suonati da Brendel e sentì che per lei cominciava qualcosa di nuovo.

________________

↔ In alto: Foto di Monica Silva su Unsplash.

13 Comments

Leave a Reply