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«Non è il passato a dominarci, ma le immagini del passato».

George Steiner (epigrafe di Le tombeau d’Alexandre di Chris Marker)

Il fumetto di carattere documentaristico vive un momento di grande successo e attenzione: non solo su quotidiani e settimanali (che ultimamente investono su di lui) ma anche nella forma più istituzionale della graphic novel. Si tratta d’altra parte di un linguaggio che ben si sposa all’arte del ricordo e della testimonianza. Il fumetto infatti, per sua natura, crea un rapporto speciale col passare del tempo, perché aiuta a segmentarne lo scorrere e a scandirne così le età; e allo stesso tempo crea un rapporto speciale con la memoria, conserva sulle tavole il prima e il dopo: un’immagine non cancella mai la precedente, così tutto è costretto a coesistere (come osservato da Art Spiegelman in Metamaus).

«Heimat» di Nora Krug (qui un po’ di pagine per vedere qualcosa di più all’interno) è uscito nel 2018 e ha vinto moltissimi premi. In Italia è stato pubblicato a settembre 2019, l’autrice è già stata a Mantova per il Festival della Letteratura e sarà a Bologna anche con una mostra per Bilbolbul il primo fine settimana di dicembre. Nonostante l’argomento sia inevitabilmente politico (il rapporto della famiglia dell’autrice con il nazismo), il libro non nasce da una sfida ai populismi e ai rischi degli istinti di massa, ma da una necessità personale.

Heimat p. 7

↑ Fig. 1: Nora Krug, Heimat, Einaudi Stile Libero Extra, 2019, p. 7.

Questa tavola apre il racconto ed è la prima di una serie di otto disseminate nel resto del libro, dedicata ad alcuni oggetti che costruiscono la memoria di un emigrante tedesco: quella scelta da Nora Krug è una trovata fine, nel descrivere la bizzarria di ciò che può diventare sentirsi parte di una cultura da cui tempo e spazio ti tengono a distanza, tanto più trovandosi all’interno di un racconto che vuole fare i conti proprio con il problema dell’«appartenenza» (Belonging è il titolo originale inglese, e il concetto di Heimat è parente stretto di questo sentimento). Concentrandoci quindi sulla prima figura di questo strano catalogo, e sulla funzione – volontaria o meno – che ha di prologo, si direbbe che mette in mostra simbolicamente l’azione dell’autrice. Nora Krug è decisa a togliere questa protezione che «è il cerotto più adesivo del pianeta e quando lo strappi per guardare la cicatrice, senti male». Se «per sapere chi sei devi sapere da dove vieni», allora non hai scelta: devi guardare la ferita senza paura, a costo di qualsiasi sforzo e sofferenza.

 Rinviata costantemente alla sua responsabilità storica di tedesca, di fronte all’impossibilità di chiarire da New York – dove vive – l’identità delle proprie radici (tanto i timidi ritrovi di tedeschi anziani quanto gli orgogliosi festival organizzati da secolari eredi di migranti falliscono), Nora Krug decide di mettersi in cammino e di ricostruire mollica dopo mollica la storia recente della propria famiglia. Nazisti? Simpatizzanti? Parte del gregge ignavo? Resistenti? Il tedesco traduce il peccato originale come peccato ereditario (Erbsünde), e l’autrice si sente incatenata alle responsabilità dei suoi antenati.

E così dal terzo capitolo (di quindici) il racconto si configura come un’inchiesta (Maria Rosa Mancuso parla giustamente di un «libro ironico e ostinato»), che ruota inizialmente intorno alle storie del nonno e dello zio morto in guerra, le vite in ombra della sua storia famigliare. L’autrice mette in scena tutto il lavoro di ricerca svolto: gli archivi con cui era possibile ricostruire una parte della vita del nonno sullo sfondo delle vicende cittadine; le conversazioni con parenti e testimoni, mai reticenti nonostante il rischio di scoperte indigeste; aneddoti personali; anticaglie di mercatini; domande su internet e a storici locali; i quaderni di scuola che lo zio, nato nel 1926, redigeva scrupolosamente in sütterlin con temi di carattere antisemita.

È per questa miriade di materiali coinvolti e conservati che il fumetto somiglia davvero a un album di famiglia colmo di ritagli, come recita il sottotitolo. Ed è così che è possibile apprezzare il costante passaggio – con un ritmo molto calibrato: la gestione delle transizioni tra i diversi elementi è davvero ammirevole – tra storia intima e storia collettiva: il libro non si perde mai nella frenesia del racconto, l’autrice è capace di fermarsi, tornare indietro, chiarire e fare luce. Tutto il materiale impiegato concorre a ricreare i piccoli gesti di un tempo passato, perché se è nei dettagli che l’appartenenza di oggi si svela, è sempre in loro che si può leggere – con orrore? Spavento? Incredulità? – quanto velocemente le coscienze possano essere (state) avvelenate e l’atmosfera di un Paese cambiare. Nella ricostruzione delle date della vita di un luogo marginale, tra Bronnbach, Külsheim e Karlsruhe (cittadina che comunque poté vantarsi nel 1940 di essere la prima città Judenfrei, “libera da ebrei”), l’autrice ricostruisce la miniatura di un sistema nazionale (ed essenzialmente umano). Come capire la grande storia di fronte a un annuario comunale? Nel 1940 per la prima volta gli ebrei vi figurano in una categoria a parte; nel 1941 la sezione è scomparsa completamente.

Heimat p. 70

↑ Fig. 2: In questo passaggio Nora Krug mette in relazione la data di redazione del tema dello zio con i fatti drammatici della grande storia. L’essenza dello spirito del tempo e dell’operazione intellettuale dell’autrice è racchiusa in questa coincidenza. | Nora Krug, Heimat, Einaudi Stile Libero Extra, 2019, p. 70.

Nora Krug, nata tedesca e insegnante a New York, è al suo primo albo; la sua carriera finora si limitava a collaborazioni con diversi giornali, partecipazioni ad antologie e alcuni libri per bambini. Il libro si presenta come un lungo monologo ed è molto verboso, forse perché l’autrice nasce come illustratrice. L’occhio tuttavia viaggia per la pagina in maniera meno lineare che per un puro libro in prosa, il che lo rende un oggetto davvero difficile da definire. Un’anomalia probabilmente confermata dagli editori: considerato unanimemente una graphic novel, in Italia è pubblicato da Einaudi (che può vantare nel suo catalogo Maus di Spiegelman e Fuochi di Mattotti, ma che certo non è riconosciuto come editore di fumetti), in Francia da Gallimard (collana Bande dessinée, certo, ma ancora una singolarità) e in versione originale americana da Scribner.

Lo stile è quindi singolare, e la sensazione di un libro d’arte è data da piccoli dettagli, come il lettering manuale e una parentela grafica con il racconto didattico per l’infanzia, a volte illustrato e altre completamente raccontato a fumetti. La scelta non fa perdere un tono grave al racconto ma, insieme alla scelta costante di colori tenui (tempera e acquerelli), riesce a rendere la lettura poco traumatica anche nei momenti più critici. Le composizioni ricordano certi racconti medievali, dalle prospettive balzane ma efficaci, o le tombe dipinte del cimitero di Săpânța (la prima ispirazione di archeologia biografica dell’autrice ha la forma di brevissime serie di illustrazioni biografiche), a testimonianza di uno stile volutamente “primitivo”. Allo stesso tempo, però, Nora Krug è capace di integrare all’interno del racconto momenti prettamente infografici, dove mostra di aver completamente assimilato la lezione delle contemporanee prove giornalistiche a fumetti.

Foto d’epoca, piccoli quadretti narrativi, illustrazioni diverse sono inseriti perfettamente all’interno del racconto. La coerenza grafica finale è sorprendente, se si pensa alla varietà di materiali, stili e strumenti messi in campo. Le parti disegnate intervengono dove le informazioni vengono a mancare. In un’intervista rilasciata a Françoise Mouly (a lungo art editor del New Yorker e compagna di Art Spiegelman), Nora Krug evidenza come la combinazione di testo e immagine le «permetta di saltare tra presente e il passato, tra il fattuale e il poetico, tra il documentario e l’immaginazione». Dov’è che c’è bisogno dell’immaginazione? Dove scarseggiano i documenti. E come si traduce graficamente? Nelle parti più fumettistiche. L’operazione è non nuova ma si trova qui in una forma estremamente interessante, soprattutto per quanto riguarda l’ibridazione dei materiali. Anche queste parti più narrative mantengono comunque un ritmo illustrativo – e dunque sincopato, fatto di stacchi – e non propriamente fumettistico, dove il passaggio da una vignetta all’altra è più ravvicinato e con-sequenziale.

La dedica del libro include ma distingue vecchia e nuova famiglia, Heimat e Zusammengehörigkeitsgefühl (appartenenza a una comunità di cui si condividono valori ed idee). Il libro originale è in inglese, e questo ne caratterizza l’operazione: è un libro energico e vivificante, diretto al presente e al futuro, che affronta il passato così da non esserne più schiacciati. Verso la fine del libro l’attenzione si sposta sull’immagine del ventre gonfio dell’autrice: giustizia è fatta, i fantasmi sono compresi, la vita può continuare con senso di responsabilità ma senza paralisi.

Il senso di “Heimat” sfuggiva all’autrice adolescente e adulta, convinta però come già detto che per sapere chi sei sia necessario sapere da dove vieni. Lo sguardo che ha sulla sua patria lontana è quello del viandante di Caspar Friedrich (il suo autoritratto nella stessa posa del personaggio è l’unica immagine in cui si rappresenta, e fa da copertina): la nebbia che tutto ricopre è la brina che impedisce di stare a proprio agio, di cogliere e così avere un luogo che senta intimamente suo. Non è la nebbia rassicurante di Pascoli, ma piuttosto la bruma incerta di Kundera. Heimat non è il titolo nell’originale, ma viene utilizzato nelle traduzioni estere, e così in Italia: l’idea è che questo concetto non resti appannaggio dell’estrema destra nazionalista, ma che possa riconquistare un senso positivo e caloroso (un’operazione in parte già avviata tempo fa da Edgar Reitz).

Heimat cover

↑ Fig. 3: Copertina italiana di Heimat, Einaudi Stile Libero Extra, 2019, pp. 288.

Il racconto finisce con la citazione di una colla tedesca capace di tenere insieme di tutto (l’ultimo tassello dell’elenco cominciato col cerotto), potentissima, ma che non può nascondere le cicatrici di ciò che è accaduto nel tempo. Nel corso del libro Nora Krug ri-mette insieme, prima ancora di una storia collettiva, quella della sua famiglia, turbata da lutti e allontanamenti, da dubbi e piccoli fatti che è meglio non indagare perché lasciano la coscienza tranquilla. Ma i mostri continuano ad abitare il nostro mondo – come messo in scena ultimamente da un altro grande successo, My favourite things is monsters di Emil Ferris, o come è stato splendidamente rappresentato da McGuire – e per appartenerci il paesaggio deve comprenderli, diventare parlante, completo.

In un tempo in cui ci si sparpaglia più di prima per il mondo, ci si sente responsabili e simboli di quello che il nostro nome (e in alcuni casi il nostro accento) denuncia come origine. Nora Krug, grazie al distacco geografico, riesce a tornare alle origini con stile e finezza; e con grande garbo ritrova, ricuce, segue i fili, e trama non un libro di scuola, non un’ennesima celebrazione dell’io, ma un racconto appassionante, caloroso, schietto, preciso, importante, alla fine del quale l’identità è ferita, ma ricomposta con fili d’oro:

«Penso che abbiamo tutti il dovere di riconoscere noi stessi come vettori del passato del nostro Paese. Non possiamo far finta di esistere in un vuoto. Teniamo alla memoria delle guerre e degli eventi politici, e questa memoria passa di generazione in generazione. Abbiamo la responsabilità di confrontarci con queste memorie».
(Da un’intervista all’autrice apparsa su VQR)

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P.s. Rispetto al discorso di memoria mostri e coesistenza, parlando un po’ più da vicino di noi (noi, se è vero che siamo vettori di un passato passato), suggerisco questo video, come spunto.

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