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Creare un patrimonio editoriale significa definire un canone di opere e autori che hanno fatto la storia e che, auspicabilmente, possano essere ispirazione e riferimento per le opere che verranno. A volte sono i figli che scelgono i loro padri, allargando il campo degli antenati con libertà: è il caso, per esempio, dell’appropriazione da parte della storia del fumetto dei romanzi grafici di Frans Masereel o Lynd Ward; altre, invece, si cerca di rendere nuovamente disponibile il lavoro non più ristampato di autori riconosciuti, spesso in edizioni più eleganti che in origine. (In entrambi i casi si tratta di riesumazione, ma per il primo vorrei sottolineare l’«arbitrarietà» culturale).

Per le case editrici si tratta di un’occasione di prestigio e riprova di serietà, ed Edizioni NPE fonda parte della sua fortuna e del suo catalogo proprio su questo tipo di pubblicazioni. Dedica un’intera collana a Dino Battaglia, riprendendo in parte il lavoro cominciato in Francia dalle edizioni Mosquito – e avviato in Italia da Cosmo in formato economico per le edicole. Le storie di Gargantua e Pantagruel compongono l’undicesimo volume della serie e apparvero a puntate tra il 1979 e il 1980 sulle pagine de Il Giornalino (di cui abbiamo già parlato trattando di Paulus). Il testo dell’opera era stato emendato per adattarlo al pubblico, al tempo, secondo i canoni e la policy del periodico cattolico per l’infanzia; Edizioni NPE ha deciso di pubblicare la primissima edizione, con una scelta filologicamente ineccepibile, ma proponendo in appendice un estratto dall’introduzione dell’edizione francese e la testimonianza dei rimaneggiamenti editoriali che restauravano il testo non censurato di François Rabelais.

Il patrimonio editoriale però non può camminare solo, quale che sia la sua natura (di parentela invertita o di riesumazione): c’è bisogno di un apparato che giustifichi la scelta, contestualizzi l’opera, presenti l’autore e i suoi meriti. Si tratta di una rete paratestuale imprescindibile. Sotto questo aspetto, mi sembra che si potrebbe fare di più: Andrea Mazzotta si affretta a dire che quelle che dà sull’opera originale e sul suo autore François Rabelais sono «informazioni nozionistiche che in alcun modo possono influenzare il piacere della lettura», mentre parlando di Dino Battaglia la presentazione è affrettata. Per farla breve, si tratta di un’introduzione più emotiva che scientifica: idealmente, non dovrebbe essere lasciata sola nell’aprire il volume.

Dino Battaglia (Venezia, 1923 – Milano, 1983), è il primo autore italiano ad aver vinto nel 1975 il premio per il miglior disegnatore straniero ad Angoulême (un premio dalla storia accidentata, oggi scomparso), maestro riconosciuto e invocato di diverse generazioni di artisti. Lavora soprattutto nel mondo delle riviste, ma senza mai impegnarsi in un progetto seriale (eccezion fatta per alcune tavole per Junglemen, agli inizi, e soprattutto per i primi due episodi de L’ispettore Coke, a fine carriera).

Gargantua e Pantagruel è un suo progetto tardo, che arriva alla fine di un percorso di successo, caratterizzato in particolar modo dal lavoro di adattamento di opere letterarie. Bisogna sforzarsi di non vedere questo legame come una dipendenza sbilanciata: è solo che Battaglia non è interessato ad inventare storie, ma piuttosto a trovare un modo – il modo – per raccontarle al meglio delle loro possibilità. 

Tutte queste opere sono caratterizzate, a livello stilistico, da un uso caratteristico del bianco: può occupare le vignette facendo da sfondo, in virtù di uno stile fondato sull’economia di tratti; separarne una dall’altra, come suo solito; oppure circondare figure non circoscritte da una vignetta, al livello più caratteristico, sospese ora sul e nel bianco della tavola intera. Vi si affacciano senza paturnie, freddamente, e non si riesce a dare una risposta definitiva alla domanda se si tratti di un indefinito leopardiano, o di un abisso, perché tutto dipende dal tono delle storie che Battaglia sceglie di raccontare (è difficile astrarre Battaglia dal lavoro che ha compiuto sulla letteratura fantastica dell’Ottocento: Poe, Hoffmann, Chamisso, Stevenson…): nei racconti del mistero il bianco è un’illuminazione improvvisa che presenta senza temporeggiare il male e la violenza, o un’assenza di riferimenti, e il procedere del bianco diventa quindi simbolo dell’orrifico, come notato da Daniele Barbieri a proposito di Omaggio a Lovecraft (Linus, 1970); negli altri adattamenti – tra cui il nostro allegro Gargantua e Pantagruel – diventa una superficie in cui lasciare uno spazio per il ‘naufragio’ della finzione. 

Nell’economia di una vignetta la scenografia è spesso resa in pochi tratti, o a volte completamente assente. Battaglia desidera creare un’atmosfera, e ci riesce, ma non appena l’obiettivo è raggiunto l’occhio torna subito sugli esseri viventi. Il bianco lucente che circonda le figure conferisce loro un’aura particolare e un’importanza fuori dal comune. Potremmo definirla un’estetica umanista che, come tradizione grafica, va dalla laicizzazione delle icone alle tavole dell’enciclopedia, passando per la lunga storia del ritratto. È un’attitudine che passa anche per la cura estrema della singola immagine: non per niente Battaglia è, insieme a Sergio Toppi (suo epigono), il massimo esempio italiano di un fumetto che tiene discretamente e generosamente le distanze dalla narrazione cinematografica – quella di Milton Caniff e poi di Hugo Pratt, con cui Battaglia collabora all’Asso di picche e poi sulle pagine del Sgt. Kirk – per prendere come punto di partenza l’illustrazione. Se questo permette di trovare le radici dell’estetica di Battaglia nei disegnatori per l’infanzia dell’Italia di inizio Novecento, non significa però che il suo stile tradisca il principio sequenziale del fumetto: i quadretti compongono un mosaico e la composizione è soggetta a tutta una serie di equilibri da gestire sull’unità della tavola intesa come totalità. Questa luce che esalta il disegno isolato, insomma, porta il discorso non più sulla composizione all’interno della singola vignetta, ma sulla quantità di bianco che si trova tra una e l’altra. Sembra davvero opportuno parlare per quest’uso del bianco di tessitura (sempre Barbieri), strumento dell’equilibrio compositivo da guardare sempre in profondità.

Nella tavola appena mostrata, l’arazzo della prima vignetta crea subito una cornice (un cronotopo), mentre contemporaneamente la linea caricaturale dei precettori ne condanna l’erudizione senz’anima, in una semplice posa; intanto, nella stessa scena, il corpo di Gargantua si estende languido e godereccio, con un braccio pigramente abbandonato nel vuoto e un dito nel naso. Si legge il testo in didascalia, si passa all’arazzo e ai precettori, si stende l’occhio su Gargantua per poi impennarsi di nuovo, risvegliati anche noi dalla presenza, lì in alto a destra, della mosca.

Finita questa prima spirale, ci si accorge che la mano di Gargantua, nel suo strabordare, rende immediatamente dinamica la pagina, creando un leggero scalino tra le vignette successive, che si fanno via via piu piccole, nuovamente inseguendo un ghirigoro. È un ottimo esempio di come la tavola diventi una superficie composita e variabile, non più ridotta a uno spazio codificato, attraverso un gioco sul ritmo e sulla forma di vignette che si rivelano estremamente elastiche. (Bellissimo, altrove, il caso di due vignette all’apparenza separate che si rivelano essere una riva e l’orizzonte; sono tenute insieme dal corpo di chi da terra scruta il mare, mentre l’acqua non è isolata da nessun tratto, e straborda, per così dire, nel bianco della pagina).

Il calibro di Battaglia, ancor prima che nei disegni, lo si vede qui nell’ultima didascalia: è una vignetta a sé stante, leggermente piu bassa di quella, figurativa, che accompagna; è allo stesso tempo vuoto e massa, come un quadro di Mondrian. È grazie a lei che la seconda spirale si compone, questa volta inseguendo le grandezze dei singoli elementi. Ed è sempre grazie a lei che ci si rende conto che il testo in didascalia è certo imprescindibile per meriti propri, come voce narrante e motore della storia, perché il disegno di Battaglia non è lì a chiarire ed a imboccare l’immaginazione, ma a pizzicarla – non per niente Emanuele Rossi Ragno notava come il mistero, in un adattamento da Maupassant, aumentasse con l’aumentare del silenzio – ma allo stesso tempo queste parti in prosa sulla tavola sono a tutti gli effetti disegno, partecipando alla composizione figurativa della tavola perfettamente assimilate nell’organismo grafico.

L’opera di Rabelais va a braccetto con la «cultura popolare» e il carnevalesco, da quando è stato pubblicato il proverbiale saggio di Michail Bachtin (1965). Si tratta di uno stile dirompente, calato nell’ambito della cultura primo cinquecentesca (1532–1564), che funziona per accumulo e quindi a prima vista appare lontanissimo dal tratto sobrio e fantasmatico di Battaglia, apparentemente elitario. Le sue figure, anche quelle pantagrueliche e rotonde, hanno sempre un che di slanciato e di fine, con qualcosa che sembra rinviare tanto a Golia che a Lyonel Feininger. Per questo motivo, legato alla scrittura acinematografica di cui si è già scritto, Andrea Tosti può scrivere di segno «antiquario», un’etichetta sicuramente efficace ma che andrebbe problematizzata, forse proprio ripartendo da un lavoro più attento sulle fonti iconografiche dell’autore e sulla percezione del suo stile tra i contemporanei.

C’è in Battaglia sicuramente un rinvio a un mondo antico – un altrove dove un bambino può invocare appena nato il vino, e una certa dose di cavalleria è ancora possibile, in questo caso: in quest’opera il tono favolistico e sospeso è assicurato tra l’altro dall’uso del colore, che qui si affianca al tradizionale pennino secco ad inchiostro nero dell’autore ed è opera di Laura de Vescovi, sua moglie. Il colore attenua gli effetti drammatici e, come si legge nella postfazione, forse davvero serve a restituire il buon umore e la gioia di vivere che percorrono l’opera originale: il disegno di Battaglia si muove qui soprattutto tra la giovialità e la caricatura, sublimando anche le situazioni più violente. 

Che cosa rimane dunque dello spirito di Rabelais, dove sta il carnevalesco? Non è che «l’opera immane […], il genio letterario di Rabelais e la potenza del suo verbo mal si conciliano con la concisione e il dinamismo della narrazione propri della Nona arte» (citazione dall’appendice, per esteso, così da assaporarne l’assurdità), ma bisogna trovare dell’altro. Bisogna quindi guardare al gusto del dettaglio, sempre suggerito ed elegante, nelle espressioni dei visi, nelle scene gigantesche e ballerine, ricche di effetti speciali. Nella seconda parte di storie, quelle dedicate al gigante Pantagruel figlio di Gargantua, la storia costringe il disegnatore ad alcuni salti mortali. Questi allora si moltiplicano, quando il protagonista incontra Panurge e lo accompagna in giro per il mondo per aiutarlo a combattere la malinconia: il viaggio è il momento per le invenzioni piu grandi, le terre sconosciute sono abitate da creature bizzarre, generalmente cortesi, ma dove tutto può succedere, anche vedere le parole gelate della battaglia al Polo, in un momento surrealista che dialoga con Salvador Dalì, o di essere assaltati da un esercito di salsicce che si curano a forza di impacchi di mostarda. Battaglia non demorde e, da bravo artigiano, lavora divertito e dimostra che riso e sobrietà possono andare d’accordo: nella concordia improvvisa di fantasia e rigore sta la magia di questo adattamento, che ci porta a zonzo sui passi improbabili e divertenti di Gargantua e Pantagruel con grazia corroborante.

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