«Chi legge di più? Lei o Rodrigo Fresán?»
«Dipende. L’Ovest a Rodrigo. L’Est a me. Poi ci raccontiamo i libri delle rispettive zone e così sembra che abbiamo letto tutto».
Per parlare di Rodrigo Fresán è quasi inevitabile chiamare in causa lo spirito di Roberto Bolaño. Uno dei meriti collaterali dello scrittore cileno è stato quello di aver recuperato o addirittura introdotto alle nostre latitudini alcuni grandi scrittori latinoamericani poco o nulla conosciuti in buona parte del cosiddetto Occidente (si vedano Parra, Saccomanno, Lemebel, Pron, Alan Pauls, solo per citarne alcuni). Rodrigo Fresán fa parte a pieno titolo di questo gruppo. I due, come è noto, erano legati da una profonda amicizia.
Argentino, classe 1963, Fresán ha avuto successo in patria nel 1991 grazie alla sua raccolta di racconti Historia argentina. Al contrario del suo amico cileno però, Fresán ha un carattere mite e sornione, non è stravagante né usa iperboli ma è sempre schietto, ogni sua risposta finisce con una battuta ironica ma mai amara. A differenza di Bolaño ama la letteratura nordamericana, ma come lui è un bibliomane incallito, sembra DAVVERO che abbia letto di tutto. Un lettore prima che uno scrittore.
E così, dopo anni passati come detectives selvaggi tra bancarelle e siti di libri usati per cercare una copia fuori catalogo di Esperanto o I giardini di Kensington, finalmente anche noi possiamo trovarlo di nuovo nelle librerie con La parte inventata (Liberaria, 2019, traduzione di Giulia Zavagna), il primo volume della sua enorme e ambiziosa trilogia intitolata La parte contada.
Vanni Santoni nell’introduzione scrive che La parte inventata può essere «un vero e proprio manifesto del romanzo contemporaneo […], un monumento capace di inglobare ogni cosa». Una scrittura che mescola vari generi, dalla tradizione argentina al canone europeo, dal postmodernismo al metaletterario fino ad arrivare alla tecnica orientale del biji.
Con gli scrittori c’è sempre una sottile linea che divide la realtà dal romanzo, la verità e il verosimile. Ma, citando uno dei suoi libri preferiti, Tenera è la notte, «solo la parte inventata della nostra storia – la parte più irreale – ha avuto una vaga struttura, una vaga bellezza». Ho approfittato della sua presenza a Roma per rubargli un’ora prima della presentazione alla libreria Altroquando. In questa intervista, così come nel suo libro, questa bellezza scaturisce dalle sue digressioni quasi irreali appunto, che combaciano con la parte romantica dell’autore, quelle digressioni in cui abbiamo parlato delle canzoni di Battiato, dei film di Nanni Moretti, dell’incontro con Bob Dylan, del rapporto speciale che lo legava a Bolaño.
Perché Rodrigo Fresán è essenzialmente un romantico impenitente, el ultimo romantico del mundo «come in una canzone di Nicola di Bari».
Il tuo nome è spesso accomunato a quello di scrittori americani e postmodernisti come Foster Wallace (Fresán fu infatti uno dei primi a insistere per farlo tradurre in Spagna, NdR] . Vieni definito, appunto, «uno scrittore postmoderno in lingua spagnola». Lo stesso Vanni Santoni nell’introduzione a La parte inventata scrive che sei uno scrittore «molto poco latino e molto americano». Ciononostante la tua opera ha un filo diretto con la letteratura latinoamericana e soprattutto argentina. Cosa significa la tradizione argentina per te?
C’è da premettere innanzitutto che la letteratura argentina non assomiglia così tanto al resto della letteratura latinoamericana. Ad esempio Borges* si rifaceva di più alla tradizione anglosassone, e d’altra parte mi sembra che non esista, nella mia generazione e forse anche in quella precedente alla mia, la volontà di scrivere il grande romanzo latinoamericano nel senso rappresentativo, storico, politico.
Borges aveva scritto soprattutto racconti e a quello puntava, e anche i romanzi che nella letteratura latinoamericana sono diventati poi i più rappresentativi, come Rayuela di Cortázar, Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, Respirazione artificiale di Ricardo Piglia o Sopra eroi e tombe di Ernesto Sabato non seguono quella linea, non hanno la struttura lineare del romanzo, sono più atomizzati. Per di più la stragrande maggioranza degli scrittori argentini più noti ha lavorato con il genere fantastico o con lo strano, non ci sono mai stati problemi di genere e si è sempre un po’ sperimentato.
Per me e per molti altri scrittori argentini la cosa più simile alle tavole della Legge, ossia la cosa più importante, è un saggio di Borges che si chiama Lo scrittore argentino e la tradizione. Verso la fine ad un certo punto dice:
«Visto che ci è capitata questa fatalità di essere argentini, almeno facciamo del nostro argomento di scrittura l’universo intero».
Diciamo che è un po’ a questo che ci ispiriamo. E la realtà argentina suole essere abbastanza terrificante, ciclicamente terribile, quindi c’è anche un’esigenza di scappare da questa realtà. Io ovviamente come tanti ho letto scrittori inglesi, russi, francesi e così via, e quelli in cui mi ritrovo di più sono quelli di scrittura anglosassone.
C’è poi un’altra considerazione da fare: quelli che sono ritenuti grandi scrittori latinoamericani, penso a Vargas Llosa, Fuentes, Garcia Marquez, hanno un po’ questa figura del grande romanziere mentre per quanto riguarda gli scrittori argentini forse si aspira di più ad essere grandi lettori, ed è anche la ragione per cui nella letteratura argentina tantissimi romanzi hanno a che fare con scrittori, lettori… Insomma il libro è sempre al centro della narrazione.
* Fresán è stato definito anche un “Borges pop”. Spesso gli viene posta la domanda sul rapporto con il padre della letteratura argentina, un rapporto tutt’altro che dogmatico. Così risponde in merito: «Credo che Borges non possa essere un buon maestro per nessuno, perché è uno scrittore di nicchia e inizia e finisce nella sua opera, credo che provare a scrivere come lui sia una follia assoluta. Però lo considero senz’altro come uno dei maestri più importanti come lettore. In questo senso, ed è una cosa che mi ha creato diversi problemi quando la dico, ritengo che Bioy Casares sia molto meglio di Borges perché è un autore che mi ha dato molte più gioie come lettore».
Questo tua atipicità nel panorama letterario latinoamericano ha a che vedere con la partecipazione al progetto McOndo* dello scrittore Alberto Fuguet nel 1996?
Il progetto McOndo che aveva realizzato Fuguet era quello di un’antologia in cui c’è anche un mio racconto; Fuguet era cileno e l’ha pubblicato in Cile dove ha avuto un ruolo di rottura con quella che era la letteratura imperante e si poneva come una reazione al realismo magico, o alla letteratura dei desaparecidos, delle dittature, che era quello che ci si aspettava dagli scrittori latinoamericani.
Però per me non ha niente a che vedere con quello che faccio, io non ho mai avuto alcun problema con il realismo magico, penso anzi sia la cosa più normale del mondo, considerando appunto la tradizione fantastica che c’è in Argentina, e poi soprattutto non scrivo contro nessun altro tipo di tradizione.
Mi interessa soltanto il mio progetto personale, non credo nemmeno nel concetto di generazione, mi sembra che in altri paesi latinoamericani forse ci sia più la tendenza a riunirsi in generazioni di scrittori mentre in Argentina forse un po’ meno, è come se fossimo tutti dei pianeti separati che hanno chiaramente buone relazioni con gli altri pianeti, però ognuno va per suo conto e mi sembra che sia anche il bello della letteratura argentina.
Sarebbe un po’ disturbante comunque vedere altri scrittori che scrivono libri simili al mio! [Ride..]
In ogni caso in quell’antologia di Fuguet fu di grande effetto il prologo che scrisse lui stesso (intitolato Presentación del país McOndo NdR), come una specie di manifesto sullo stato della letteratura sudamericana, ma nessuno degli altri autori che avevano partecipato a quell’antologia ne sapeva qualcosa. Si comportò come un generale che dà ordini ai soldati senza fornire ulteriori spiegazioni. Anche io che facevo parte di quell’antologia non sapevo nulla. Diciamo che non c’era molto feeling con il manifesto di Fuguet.
*McOndo è un movimento letterario che nacque in America Latina negli anni Novanta. Il nome nasce dalla combinazione del marchio McDonald’s e del luogo immaginario di Macondo di García Márquez. Oltre a Fuguet, gli scrittori che vengono associati alla corrente includono Pedro Juan Gutiérrez, Edmundo Paz Soldán, Jordi Soler e Rodrigo Fresán per l’appunto.
Ricollegandomi a quello che dicevi poc’anzi, ovvero dei romanzi che hanno a che fare con gli scrittori, ne La parte inventata racconti un aneddoto su una conversazione che hai avuto con lo scrittore irlandese John Banville, in cui gli chiedi cosa è più importante, trama o stile, e lui risponde così: «lo stile avanza con falcate trionfali mentre la trama lo segue lentamente e strascicando i piedi».
Sì, Banville mi ha detto questa frase, io poi la completo anche nel libro dicendo che secondo me lo stile può in qualche modo prendere in braccio la trama e aiutarla ad andare un po’ più avanti. Oggi viviamo in un mondo popolato solo da immagini, con Netflix e tutte le varie piattaforme. L’unica arma che possiede la letteratura per combattere questa battaglia con la tradizione visuale è lo stile.
Trovo un po’ insensato che un libro non abbia alcun tipo di stile, che sia meramente descrittivo, io leggo di tutto, anche i bestseller più commerciali mi divertono, però anche in quest’ultimi cerco sempre un minimo di stile perché altrimenti non mi interessa leggerli. E tantomeno scriverli.
C’è una frase di Nabokov che mi piace molto, che dice che la vera biografia di uno scrittore non passa da dove è nato o dalla vita che ha fatto, con chi si è sposato, i libri che ha scritto, ma dalla storia del suo stile. Sono totalmente d’accordo.
La parte inventata ha una struttura in tre atti, con la lunga sezione centrale divisa in cinque sottosezioni. Sebbene ci sia un arco narrativo che si sviluppa in modo quasi lineare in tutto il libro, c’è anche la sensazione che tutte e sette le parti stiano accadendo simultaneamente: si sovrappongono, si sfaldano a vicenda e talvolta raccontano versioni diverse degli stessi eventi. Come hai organizzato questa struttura?
Ho scritto tutte le parti allo stesso tempo, saltando da una all’altra. Tutti i miei libri funzionano intorno al concetto di tre parti diverse, però l’idea di una trilogia non c’era dall’inizio. La Parte Inventata si doveva concludere così, quando ho finito il libro volevo scrivere una cosa molto breve, una nouvelle, che aveva come protagonisti due bambini che camminano in una città di notte che potrebbe essere Buenos Aires, negli anni ’70, insieme a questo zio un po’ pazzo e però mi sono accorto che ero ancora prigioniero della storia, dei personaggi de La parte inventata.
Di fatto, ho continuato ad aggiungere piccoli inserti, piccole modifiche al libro, la versione tascabile ha circa 80 pagine in più rispetto a quella originale*, la versione italiana è quella completa.
*[scherziamo insieme quando gli dico: sei molto Borgesiano in questo]
Quindi questa storia mi sembrava dovesse continuare, c’erano delle cose non dette e la piccola nouvelle che stavo scrivendo è finita dentro La parte soñada, che è il secondo volume della trilogia. Questa parte era lunga solo sei-sette pagine e poi il libro è cresciuto attorno a questo centro. Per esempio ci sono alcune cose che si spiegano come l’odio del protagonista per i social network e così via.
In realtà l’idea della triade, della trinità, ricorre sempre nei miei libri. Anche questa trilogia o trittico come lo chiamo io (formato da La parte inventata, La parte soñada e La parte recordada NdR) è qualcosa che viene da quando ero piccolissimo, quando da bambino ho visto per la prima volta 2001: Odissea nello Spazio, ho iniziato a sentire le canzoni dei Beatles, in particolare “A Day in the Life”, che sono divisi in tre parti.
Ho impiegato sei anni per scrivere La parte inventata, è stato un processo di scrittura abbastanza difficile, truculenta, ad un certo punto mi sono trovato con queste cinquecento pagine di magma amorfo, non sapevo bene dove andare a parare, e poi è arrivato questo giocattolo di latta. Un giorno stavo portando mio figlio a scuola, Daniel, che doveva aver avuto cinque anni all’epoca, e mentre stavamo aspettando l’autobus, in una vetrina di una cartoleria abbiamo visto questo giocattolo a molla, un omino di latta con una valigia.
Lui l’ha visto e mi ha detto: «Papà, questo sarà nella copertina del tuo prossimo libro». E io gli ho risposto: «Chissà, può darsi». Non volevo deluderlo, visto che era un’idea che aveva avuto. Così siamo entrati, abbiamo comprato il giocattolo e poi dopo all’uscita lui mi ha detto: «Però deve anche essere il protagonista del tuo prossimo libro» e io gli ho detto: «Beh, adesso non esageriamo». Poi però son tornato a casa dopo averlo accompagnato a scuola, mi sono rimesso davanti al computer, a soffrire per capire come chiudere questo romanzo perché non sapevo davvero come andare avanti e ho fatto un tentativo di mettere questo giocattolino nelle varie parti, un po’ come la Madeleine Proustiana, o la zampa di scimmia o un qualche oggetto simile ad un talismano de Le mille e una notte, ed è successo qualcosa di incredibile perché ha iniziato tutto a funzionare.
Il libro poi l’ho concluso in un mese. E alla fine mio figlio è stato il designer delle mie copertine dell’edizione spagnola. E ha guadagnato anche piuttosto bene.
Quando poi ho deciso di continuare, di tirar fuori appunto una trilogia, mi sono un po’ spaventato io stesso, perché per fare una trilogia non potevo fare un libro di 700 pagine e gli altri due piccolini, dovevano avere tutti più o meno la stessa lunghezza. Quindi ho chiesto quasi il permesso al mio editore Claudio López Lamadrid, che è un po’ l’eroe segreto del mio libro (scomparso nel gennaio 2019 NdR) e lui mi ha detto di sì, che potevo andare avanti; il secondo volume l’ho scritto poi in tre anni e il terzo, che è appena uscito, in due anni. Non li ho scritti simultaneamente, però diciamo che con il secondo volume tenevo in conto che ci sarebbe stato un seguito. Non come La parte inventata che era nata come un unico tomo.
A proposito dell’idea di trinità, mi viene in mente la definizione che aveva dato Enrique Vila-Matas, parlando del tuo libro, ovvero che lo Scrittore si divide in tre parti: quello che scrive, quello che ha una vita privata e quello che appare in pubblico.
Credo che l’unico scrittore che conta sia quello della vita privata. Dico che mi piace sempre di più scrivere e leggere e sempre meno essere scrittore, con tutte le cose che stanno intorno. Vedo altri scrittori più interessati e coinvolti nella vita pubblica e che mettono in secondo piano la scrittura. Alcuni sono anche in gamba ma non è il mio caso. Io non ho avuto il momento classico in cui si scopre di avere una vocazione per la scrittura perché sono sempre stato convinto di voler fare lo scrittore fin da bambino anche prima di saper scrivere e leggere. Quindi ho inventato questo momento per il protagonista del libro, che è il punto in cui da ragazzino muore quasi affogato, sente di avere questa necessità di scrivere e di raccontare. L’unica cosa vera che si può dire, credo, è che uno diventa scrittore perché gli piace stare da solo. Credo che la solitudine dello scrittore sia anche la migliore perché sei da solo ma circondato da un sacco di elementi. Gli scrittori da soli sono nella migliore delle compagnie possibili.
Ne La parte inventata, come dicevamo, si parla molto di scrittori e di scrittura. Qual è la tua idea di scrittore?
Mi sento, in relazione alla mia figura di scrittore, come Nicola Di Bari, l’ultimo romantico*.
*[Qui Fresán chiede: «in Italia si usa l’espressione Nicola Di Bari ultimo romantico? Perché in Argentina soprattutto nelle persone della mia generazione si usa molto ed è venerato come un divo, in quanto aveva tenuto molti concerti in Sudamerica, così come in Francia Franco Battiato*»… E qui si apre un’altra parentesi, vedi sotto.
Ah, ai Bolañiani non sarà sfuggito, Nicola Di Bari compare anche in un racconto di Bolaño nella raccolta Chiamate Telefoniche].
Ho un’idea romanticissima della figura dello scrittore, proprio perché era la mia vocazione fin da quando ero bambino, ed anche un certo infantilismo con cui vedo lo scrittore. Io non sono credente, sono agnostico, ateo, però mi sento molto in debito con una sorta di entità cosmica o superiore che in qualche modo mi ha permesso di mantenere questa mia prima vocazione che ho avuto fin da quando ero piccolissimo, non ho mai desiderato di essere né Batman, né un pompiere né il presidente della nazione, niente del genere, ma semplicemente essere uno scrittore e/o un lettore. Ovviamente ho pieno rispetto per tutti i mestieri del mondo ma quello che mi capita di pensare quando entro in banca, per esempio, è: «tu che stai qui alla cassa non volevi fare questo quando eri un bambino no?» Che è la stessa cosa che penso dei dentisti, dei cardiologi, eccetera. Semplicemente perché queste mi sembrano tutte vocazioni venute con la maturità, con il raziocinio, e non con quella passione insana di quando sei bambino. Ecco io son contento di aver potuto mantenere questa passione e di aver deciso poi razionalmente di seguirla. Mi sento molto fortunato per questo.
*[«Sono sicuro che da bambino Battiato sognava di esser Battiato»…Risate…«Credo che Battiato mi abbia influenzato molto come artista, la mania per i riferimenti, le citazioni, ad esempio quando leggevo la quarta di copertina dell’edizione italiana: (inizia a leggere in italiano) …«viaggiando verso l’Hallidon Collider, per fondersi con la particella di Dio»…«Ho pensato: ecco, questo è Battiato!» Poi chiede informazioni sull’ultima uscita di Battiato, sul suo stato di salute, se ci sono canzoni nuove che ha realizzato, e parliamo di «Torneremo ancora». Dopo l’intervista invece gli chiedo qual è la sua canzone preferita. «Ce ne sono tantissime che adoro» dice Fresán «forse la mia preferita è E ti vengo a cercare, perché mi ricorda il film di Nanni Moretti (si riferisce a Palombella Rossa, del 1989).]
Nel libro troviamo anche numerose citazioni musicali: i Beatles, Pink Floyd, Bob Dylan* eccetera. Ma c’è uno spazio simbolico che esiste ne La parte inventata e in tutti i tuoi romanzi chiamato «Canzoni tristi». Puoi parlarci di questa idea e del suo ruolo nella tua opera?
Sì, è un luogo che può essere qualsiasi cosa, torna in tutti i miei libri, per esempio in un racconto è un campo di concentramento, da un’altra parte è una fondazione in Iowa, nel mio romanzo El fondo del cielo (inedito in Italia) invece è un pianeta. Non so se fosse Faulkner o forse Onetti, uno dei due deve aver detto un grande insegnamento, ovvero che se ti inventi un posto che sia tuo, lì vale tutto, puoi farci ciò che vuoi. È un posto al quale puoi sempre andare e tornare. Nella mia testa è un posto molto simile alla colonia in Patagonia dove andavo in vacanza. «Canciones tristes» sicuramente è il mio posto preferito oltre che uno strumento di scrittura e se sapessi dov’è veramente ci vorrei andare senza dubbio!
*[Durante la presentazione alla libreria Altroquando, Fresán ha parlato del suo incontro con Bob Dylan a Buenos Aires nel 1991. Racconta che riuscì ad entrare nel hotel dove soggiornava il cantante grazie ad una sua amica che ci lavorava, bussarono alla sua porta e Dylan uscì fuori in calzoncini e con un cappello da cowboy. Si accorsero subito che Bob Dylan stava lavandosi i jeans nella vasca da bagno con il sapone tra le mani in un hotel di lusso. Quando l’amica di Fresán gli suggerì di mandare i pantaloni in lavanderia, Dylan rispose quasi offeso che sua madre gli aveva insegnato a lavarsi i pantaloni da tempo e nessuno poteva toccargli i propri “fucking” jeans!
Canzoni tristi ha molto a che fare anche con la nostalgia, con i ricordi d’infanzia e con l’origine di alcune ossessioni. Ritieni che infanzia* e scrittura siano legate a doppio filo nella tua vita?
Sì, nel mio caso senza dubbio infanzia e scrittura sono molto collegate fra loro, perché, come dicevo prima, fin da bambino volevo essere scrittore e poi sono diventato proprio questo.
Ma non sono l’unico che l’ha sostenuto: per esempio l’inventore di Peter Pan James Matthew Barrie o anche Fitzgerald. Nell’infanzia accade di tutto. L’ultima cosa che si scopre è il sesso, e poi tutto ciò che viene dopo è una sorta di variazione sul tema. Quello che mi piace molto dell’infanzia è la costruzione che se ne fa in un secondo momento quando si è già adulti e si ritorna a quel periodo, lo si ricrea in qualche modo attraverso il ricordo, perché ovviamente quando sei bambino non sei cosciente di esserlo, e vivi in una sorta di presente assoluto, hai alle spalle un passato non lunghissimo e soprattutto non pensi troppo a quello che verrà dopo, al futuro, perché sai che le cose si complicheranno un pochino, però non ne sei cosciente e quindi ci torni da adulto.
E c’è poi un’altra grande esplosione dell’infanzia nella tua vita se, come nel mio caso, diventi genitore in età anche avanzata. Io sono diventato padre a quarantatré anni ed è come se tornassi a vivere la tua infanzia man mano che cresce tuo figlio, c’è una cosa molto curiosa per cui man mano che il bambino cresce tu inizi a ricordarti cose di te stesso a quell’età che avevi scordato, come un mega-reminder, un remake dell’infanzia ma con effetti speciali molto più avanzati.
*C’è un altro episodio che caratterizza la sua infanzia e che lo accomuna al personaggio de La parte inventata. Fresán è nato clinicamente morto. Il suo parto durò diciotto ore e sembrava essere spacciato, tanto che i medici stilarono prima un certificato di morte e poi uno di nascita. Secondo la sua ricostruzione, da lì nacque la sua vocazione come scrittore.
Il protagonista de La parte inventata parla spesso dei suoi film e delle sue letture preferite…
Sono state tutte mie passioni da pre-adolescente, L’invenzione di Morel di Bioy Casares anche è stato un libro importante per me, Fitzgerald e così via..
Ma nel libro il protagonista non ha mai letto Faulkner…
Sì anch’io ho avuto difficoltà con Faulkner. Ci sono libri che ti bloccano. Per esempio sono un super fan di Nabokov, è uno dei miei scrittori preferiti* in assoluto, ma ecco, ce l’ho qui, (mostra la copia di Ada o Ardore dalla sua valigia), è un libro che mi piace ma non riuscivo a leggerlo da giovane, infatti nel terzo volume della trilogia, La Parte recordada, il personaggio ha la stessa difficoltà.
*Un altro suo scrittore preferito si rivela essere Proust. Durante la presentazione del libro ha svelato di aver letto all’età di trentacinque anni la Recherche, mentre si era ritirato nelle montagne sopra Córdoba. Dopo la lettura di Proust impiegò un mese per scrivere il suo libro Esperanto.
Cosa ti ha influenzato di Nabokov?
Credo che quell’amore romantico che descrive solitamente Nabokov ha avuto un’influenza nei miei personaggi femminili.
Nel libro troviamo anche la saga famigliare dei Karma…Sei stato ispirato da qualche scrittore in particolare? A me leggendo veniva in mente la famiglia oppressiva di Bernhard.
In realtà no. Non conosco molto bene Bernhard in verità. Sono sposato con una donna messicana e buona parte di quel materiale viene dalla mia famiglia acquisita. In realtà molti personaggi derivano da un mio precedente lavoro non tradotto in Italia, Mantra, e poi con l’andare avanti della storia Mantra diventa il romanzo che lo scrittore ruba alla sorella. Di quel libro Bolaño scrisse il prologo.
Nei suoi saggi (Tra Parentesi, Adelphi 2009), Roberto Bolaño descrive spesso il rapporto che aveva con te; stila addirittura un elenco chiamato “Tutte le cose di cui parlo con Fresán” sui discorsi che facevate. Ci puoi dire qualcosa del rapporto che vi legava?
Beh, quello che diceva e scriveva Roberto, specialmente nei suoi saggi, è da prendere sempre con le pinze…[ride..] Mi ricordo una scena: io abitavo a Barcellona e lui a Blanes, e spesso mi chiamava nel cuore della notte per commentare la prima stagione del Grande Fratello. Altro che grandi figure della letteratura sudamericana!
Quello che facevamo io e Roberto era soprattutto ridere tantissimo, quando ci incontravamo ci trasformavamo, eravamo due macchine da risate, non eravamo certo quelle figure intellettuali che si mettevano a discutere di epifania o cose simili. Lui era un tipo davvero simpatico, ma anche molto belligerante, lottatore in qualche modo, credo che più che i suoi libri, e sicuramente se fosse vissuto ancora ne avrebbe scritti molti altri (è morto nel 2003, quando aveva cinquant’anni NdR), la grande perdita per la letteratura latinoamericana quando lui è mancato, è che era esattamente equidistante tra la generazione del boom e la mia generazione, era all’incirca dieci anni più giovane di quella del boom e dieci anni più vecchio della mia. Era una specie di glitch nel sistema, era una cosa strana e particolare che movimentava tutta la scena letteraria. Quando è mancato è tornato tutto un po’ piatto e noioso, con i soliti discorsi. Anche perché lui amava fare polemica e gettare scompiglio, creare squadre, mettere una persona contro l’altra. Questo perché non dormiva, soffriva di insonnia e si inventava di tutto*.
[*in seguito ha descritto i vari scherzi che Bolaño gli aveva fatto durante la loro amicizia.
Un giorno i due si incontrano a Barcellona. Fresán accompagna Bolaño alla stazione per prendere il treno per Blanes, si salutano e torna a casa. Dopo mezz’ora suona di nuovo il campanello. Fresán trova Bolaño inzuppato dalla pioggia. «Ho ucciso un uomo» gli dice tremante. Fresán lo fa entrare e gli prepara una tazza di tè. «Un paio di skinhead mi hanno attaccato alla stazione, hanno cercato di derubarmi». Gli rivela poi che uno dei due aveva un coltello, lui era riuscito a togliere un coltello dalle mani dello skinhead e aveva pugnalato l’altro vicino al cuore, poi era scappato lungo la strada senza sapere cosa fare. Bolaño lo guarda quasi con le lacrime agli occhi e gli dice che non poteva continuare a scrivere con una morte sulla sua coscienza, che non sarebbe più stato in grado di guardare suo figlio negli occhi. Fresán scosso dalla situazione, si offre di accompagnarlo alla stazione di polizia, rassicurandolo che si tratta di legittima difesa e non deve temere di nulla, la situazione si risolverà in qualche modo. Bolaño risponde, indignato: «Cosa? Uno scrittore argentino che tradisce uno scrittore cileno? Vergogna!» Allora Bolaño vede la disperazione negli occhi di Fresán, e inizia a sghignazzare dicendogli:«Sai bene che non sarei capace di uccidere una zanzara…Come puoi credere ad una storia simile?».
Fresán racconta poi il modo in cui Bolaño esorcizzava la malattia. Durante uno degli ultimi momenti, mentre erano in macchina insieme ad un altro amico, Bolaño si sentì male. Fresán propose di accompagnarlo all’ospedale di Barcellona, ma il cileno rifiutò. «Accompagnatemi a Blanes, voglio morire lì» gli fece Bolaño. Dopodiché si finse morto per svariati minuti, con gli altri due che rimasero sconvolti.
Fresán commenta così:
«A volte rimanevo così pensando: quest’uomo è uno psicopatico…Aveva repentini sbalzi di umore e in un instante passava dall’amore all’odio per qualsiasi cosa…Mi faceva: Rodrigo, oggi ho visto la donna più bella del mondo. E io: Sì Roberto, immagino, certamente…».
Infine, nella nostra breve chiacchierata prima di arrivare alla libreria per la presentazione, mi rivela il suo libro preferito di Bolaño. «Stella distante, senza dubbio». «Roberto controbatteva dicendogli: però Rodrigo, Detective selvaggi è…E io subito gli rispondevo: «Stella distante, Roberto, fidati, è il tuo migliore». (2666 uscirà postumo NdR).]
E non era un grande cuoco… (Video)
La storia della paella certo. La sanno tutti ormai. No, era un pessimo cuoco! Per quelli della mia generazione, come Alan Pauls, o quelli anche un po’ più giovani, come Patricio Pron, era un po’ lo zio matto che ti porta fuori. La sera non sapevi mai quello che ti poteva succedere e movimentava sempre tutto.
Ringraziamo per la traduzione Giulia Zavagna.
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