Un’incomprensione circonda la definizione (oggi molto trendy) di graphic journalism. Nel numero dell’8 novembre del settimanale Internazionale ci sono ben nove tavole tratte da Negri gialli e altre creature immaginarie; la sezione del giornale è – coerentemente – dedicata al giornalismo per immagini, e presenta quindi il brano della storia di Yvan Alagbé sotto l’etichetta dell’inchiesta. Chiarito che più visibilità il fumetto raccoglie, meglio è, bisognerebbe fare dei distinguo. Queste storie, infatti, non sono ricostruzioni dettagliate, non nascono da interviste o da sopralluoghi fotografici, non si presentano come un documento scientifico di una realtà storica; tutto è invece scritto e descritto con uno stile che rivendica un’estetica esigente e con un’attitudine che parte prima di tutto dal dramma umano e personale.
Tradotto per la prima volta in italiano, consacrato da due mostre del festival bolognese Bilbolbul e in tour per un’intera settimana, l’arrivo di Yvan Alagbé in Italia ha senza dubbio destato curiosità e attenzione. L’opera pubblicata è d’altra parte un classico, e l’autore è tra i più importanti esponenti di quella generazione francese che ha animato il mercato dell’editoria indipendente degli anni Novanta del Novecento, rivoluzionando l’immaginario europeo del mondo dei fumetti. Il suo però è un percorso particolare: nato nel 1971 da padre beninese e madre francese, cresciuto alla periferia di Parigi, è stato subito messo di fronte al sentimento dell’impostura, dello spaesamento, dell’assenza di riferimenti e appartenenza, tutti elementi che sono diventati parte di una formazione che influenza l’insieme del suo stile. In quest’albo si legge che «raccontare è l’azione dei sopravvissuti»; ebbene, Alagbé scolpisce in questo modo la propria postura: scampato, reietto, «coscienza sporca, ortica nel giardino», propone come autore e come editore un’arte intesa come disturbo sociale e come rivolta estranea a qualsiasi compromesso e resa.
Il libro è costruito intorno a una storia lunga, Negri gialli, apparsa nel 1996, a puntate, sulla rivista Le cheval sans tête (organo della casa editrice Amok, fondata proprio dall’autore con la collaborazione di alcuni sodali). Le altre storie si aggiungeranno nel corso del tempo, staccandosi dal racconto principale, e andranno a creare il volume francese (2012, FRMK), poi arricchito di una storia originale in occasione di ogni nuova traduzione (prima negli Stati Uniti e ora in Italia). Se in Negri gialli Alagbé voleva raccontare una situazione puntuale e circoscritta al proprio vissuto, solo più tardi il racconto delle vite ai margini della società occidentale ha acquistato un peso cruciale nel suo lavoro, accompagnandosi a una consapevolezza crescente del proprio impegno politico, a uno sguardo più aperto sul mondo e a uno stile via via più simbolista.
Negri gialli e altre creature immaginarie è un libro costruito intorno a un nucleo fondamentale di tematiche: l’isolamento, la migrazione, la marginalità, la difficoltà dei rapporti umani. Le storie di Alagbé hanno una carica sociale netta, ma in fin dei conti riflettono essenzialmente su cosa voglia dire stare al mondo; in questo senso la scelta editoriale della coriacea Canicola non si presenta come un’operazione archeologica, ma anzi pienamente ancorata nel presente. L’attualità stilistica e tematica del volume è in fondo favorita anche dalla profondità ideale dell’autore, da una parte, e dalla natura in fieri che caratterizza la storia editoriale di questa “antologia”.
Un elemento essenziale per comprendere l’opera di Yvan Alagbé riguarda la possibilità di parlare di temi universali attraverso il racconto di storie con protagonisti di colore: un personaggio di colore non racconta per forza la storia di un nero, ma può essere un riferimento umano per qualunque lettore. «L’uomo africano non è ancora entrato a sufficienza nella storia», diceva Sarkozy; ma la storia può essere manipolata, al punto da trovare sull’enciclopedia Larousse Blaise Compaoré e non Thomas Sankara. L’aneddoto è spesso citato dall’autore, perché essenzialmente Alagbé con la sua opera vuole fare giustizia. Questo riferimento identitario e culturale è per lui fondamentale, ed è possibile notarlo in maniera chiara anche nel manifesto che ha disegnato per l’edizione di Bilbolbul del 2019:
L’immagine è una citazione della statua «du Marron Inconnu» che si trova a Port-au-Prince, Haiti. Simbolo della liberazione autonoma e spontanea dell’isola dal dominio francese, rappresenta per Alagbé un metafora per le sue ricerche, il suo lavoro, le sue intenzioni. Nel tratteggiare il legame dell’autore con la cultura africana (intesa anche da lui in un senso molto largo), si consideri poi ancora, per esempio, il suo adattamento del Woyzeck di Büchner, un classico del romanticismo europeo ambientato però nel Rwanda, o quanto l’esperienza editoriale che ha costruito in quei famosi anni Novanta, la già citata Amok, si nutrisse della negritudine dei suoi animatori (Olivier Marboeuf e, per l’appunto, Yvan Alagbé).
Sarebbe però un errore pensare che il bianco e nero che caratterizza l’estetica di queste storie e gran parte della produzione dell’autore nasca esclusivamente da ragioni etniche (che pure ci sono). Ai motivi economici – stampare in bianco e nero costa meno, e per il mercato dell’editoria indipendente non era e non è un dettaglio trascurabile – si aggiungono convinzioni estetiche: Yvan Alagbé si limita all’essenza dei soggetti e all’uso del nero perché il colore distrae dalle cose che contano davvero, il tratteggio si allontana dai nervi dell’ispirazione. C’è nel disegno di Alagbé il desiderio di abbandonare sempre più la linea e il contorno, così da lavorare con masse semplici ed essenziali di inchiostro dove il gusto per il dettaglio viene messo da parte: il disegno è un linguaggio che permette altre vie e punti di vista che le sole parole (qui), e che così declinato consente di concentrarsi sull’essenziale. I suoi modelli (dichiarati) sono in questo José Muñoz, Edmond Baudoin e Aristophane Boulon, quest’ultimo uno degli altri, rarissimi grandi autori di colore francesi.
L’organizzazione delle tavole nelle storie di Negri gialli e altre creature immaginarie è assolutamente semplificata e, a parte alcune eccezioni, si limita alla divisione della tavola nel formato classico delle sei vignette (2×3) o addirittura in due sole vignette della stessa grandezza (come se si trattasse di uno schermo fisso). Non è un caso: questa scelta elimina la distrazione delle possibilità creative della sceneggiatura e conquista così una forma più concisa e diretta della rappresentazione. La capacità espressiva delle immagini è nervosamente mirata alla trasmissione di un messaggio chiaro: l’esigenza del dire di Alagbé nasce dalle cose quotidiane e vive di un evidente sentimento sociale, ma si carica allo stesso tempo di uno slancio estetico indispensabile. È solo su queste basi che il disegno diventa per l’autore uno strumento di esplorazione della realtà: se da una parte c’è il desiderio della testimonianza di una determinata realtà, dall’altra c’è l’idea di provare a (as-)saggiare i casi della vita: mettendoli su carta, provando a dare loro senso, continuità, sequenza, ordine, cosa ne capisco di più? L’opera non si riassume quindi in una testimonianza sincera di un tempo preciso e di una specifica classe sociale, ma sollecita il lettore con le tradizionali domande di ogni letteratura e filosofia.
Riflettendo in un racconto sulle storie dei migranti Alagbé si chiede se questi, una volta sbarcati in Europa, possano davvero dirsi in salvo. Purtroppo anche per lui l’inferno non è qualcosa che verrà, e risponde quindi pessimisticamente, pensando «che siamo tutti demoni, in un certo senso», perché abitiamo quest’inferno che li aspetta, e abitandolo lo nutriamo: in una società ogni elemento è inevitabilmente interpellato dall’altro. È per questo motivo che le sue storie si presentano come campanello d’allarme, sonaglio di lebbrosi: la loro lettura non ha niente di rassicurante. «Se l’eco delle loro voci si indebolirà, noi non avremo scampo», si legge sul monumento ai resistenti della Seconda guerra mondiale nell’episodio dedicato agli scioperi di Montreuil. La targa celebrativa diventa eco delle lotte sindacali raccontate di fianco, e restituisce il senso sociale dell’intera opera dell’autore. «Tutto ciò che faccio è eminentemente politico», sostiene Alagbé citando fra gli altri Pasolini come modello: Negri gialli e altre creature immaginarie ne è la più chiara delle prove.
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