Mi rigiro in tasca i pezzi di tazza. Le cicale non cantano e il rumore lontano di un aereo cola nel silenzio in cui sto svanendo, in cui inizio l’ultimo compito per casa.
Dottor-Nonno non ti chiederemo mai scusa per essere entrati dove siamo entrati perché non abbiamo sbagliato. Dottor-Nonno, gli anni sferzanti di abbracci schivi, raccolte di more e maiali scuoiati parlano chiaro. Il nauseante attaccamento per il pezzo di terra parla ancora più chiaro. Le tue lezioni spavalde e rabbiose che giravano attorno ai confini e alla tua voce, poi. Ma ora si erge la nostra voce, emersa dalla stanza vuota e dalle tende tirate: Ci devi tutto perché tutto ritorna, ci devi tutto perché nulla si estingue.
Tranne la tosse feroce della stanza di sopra, e ci devi anche quella.
A qualche metro dalla superficie gli abissi di grafite, lava e lavanda si stanno aprendo. Non avendo ricevuto il permesso, mi rannicchio nella carbonaia del Dottor-Nonno, mentre la luce pallida del pomeriggio spira moribonda dal bordo del cielo, lentamente assorbita dalle pareti brune della corona di legno. Il mio campo visivo nereggia ai lati e sento numerose entità lambire i dintorni del mio rifugio, assenze mostruose che urlano fino a masticare la terra e trafiggermi i piedi, giungendo a quel nocciolo di carne infreddolita in cui mi sono rinchiuso. Premo un coccio affilato contro l’indice e sento un leggero pizzicare bagnato.
Dottor-Nonno la casa in cui ci hai allevato e pulito, dove hai messo le radici per farci mangiare solo i tuoi frutti, la villa fangosa in quella campagna verdeggiante è stata per noi la prefigurazione della carbonaia. Le lezioni sull’orrore di sei ore e un quarto al mattino e poi la campana di vetro nel pomeriggio. Sei ore e un quarto sulla guerra come impresa orribile che spinge verso i confini del pensabile, che spreme e scarnifica la parola fino a ridurla all’osso, fino a ridurla a pratica pura: «La vidi quasi, in una pozzanghera di detriti e stoffa insanguinata, chiedere terra e silenzio», ci dicesti una volta, crediamo. Le tue chiacchiere erano scandite dalla tosse nella stanza di sopra, che scendeva giù verso la porta spargendosi per i campi. Qualcosa ci si scioglieva dentro. «Resta lì, resta sulla panca, da dove puoi vedere me e la carbonaia, il confine ultimo; bene, ora impara e godi, sorseggia le parole del paesaggio e lascia a me il duro compito di nominare e scolpire. È troppo straziante», ci dicesti. Ore e ore in quella campana invisibile a fissarti mentre lavoravi, smuovevi, rassodavi e raffinavi. Diventammo occhio senza volto. Mentre tu impastavi la farina, portavi l’acqua e falciavi il prato, noi ci distaccavamo sempre di più dal pane, dalla brocca e dall’ortica. Scrutavamo il tuo corpo accostarsi alla porta rugoso e floscio quando di notte non riuscivamo a dormire. Noi ti fissavamo da lontano nel giardino che si squagliava al sole, quando le ciliegie maturavano e i tuoi muscoli puzzolenti abbrancavano il tronco, i rami e infine i frutti. Intanto, la Nonna-Lavandula ci guardava. Dalla sedia sul portico. Dalla finestra in cucina.
Una Regina di fuliggine emerge dalla lava nera crepata dal fuoco. Dopo una decina di minuti in ascolto, comincio a spellare e poi seppellire la patata, alternando a ogni fetta del tubero una delle pagine del tuo Diario di Guerra e Malattia. Ma prima le leggo, una a una, alla ricerca dei motivi di questo isolamento, di questo esperimento generazionale. Solo parenti bavosi, formule matematiche, resoconti sulla crescita delle patate e sulla voracità dei saprofagi, e battaglie interiori quasi tenere su fatti quotidiani insignificanti. Lei non c’è e io sono citato solo per scherzo, in uno scarabocchio a fondo pagina. Continuare a seppellire mi sembra l’unico compito sensato, l’unico compito dovuto. Che l’abbia fatto anche il Signor-Padre, che fosse questo il passaggio verso altro? Un pugno di pietra mi preme calmo dentro la gola, al gonfiarsi del vento e lo scurirsi del cielo. Il cerchio blu volge verso il viola e il grigio scuro. Ogni tanto una cornacchia si strozza il becco e del fango si sposta da solo.
Dottor-Nonno, le tue zampe da suino e i tuoi zoccoli equini calpestarono la nostra infanzia come l’uva marcia che raccoglievamo ogni autunno durante le libere uscite. I tuoi bastoni mai usati e il latte caldo nella tazza d’oro, ecco le ricompense. Di tanto in tanto ci davi dei lavori, altre volte ci concedevi l’onore di servire, ma noi ricordiamo l’altezzosità esagerata, deforme. Lei sedeva nel portico, nel suo silenzio pieno e generoso, e sorseggiando le nostre limonate ci dimenticava poco a poco, la faccia grigiastra e gonfia. Dopo averla guardata per qualche minuto e aver catturato qualche suo sguardo affettuoso ce ne andavamo a spiarti. Guardare la Nonna-Lavandula era sprofondare in una massa morbida e non giudicante, dalle molteplici vite. Guardare te, d’altro canto, era come innamorarsi di una vipera impazzita che striscia fra la lavanda. Al ritorno ci lasciava uno dei tuoi martelli avvolto in un fazzoletto blu, sotto la sedia a dondolo. Ma non l’abbiamo mai toccato. Forse – in un giorno in cui ci fossimo sentiti particolarmente coraggiosi – l’avremmo preso per il Signor-Padre e avremmo abbattuto il suo muro di scuse quando fosse capitato da queste parti. Ma almeno lui dava direzione alla nostra fame, mentre i tuoi lavoretti erano rovelli per idioti. Infine ci furono, per l’ultima volta, le tre tazze sul tavolo e il fazzoletto blu e subito dopo, quando le tazze erano ormai diventate due, cominciarono le nostre visioni: la Strega nel pagliaio, il Granaio fatto di piedi mozzati e il Lupo anziano che leggeva appoggiato alla recinzione del vigneto. Progressivamente, da immagini statiche e ferine si trasformarono in conversazioni e infine in commissioni. Compiti per casa.
La Regina della fuliggine allunga una colonna di gas nella mia direzione. Il tuo naso rosso e incrostato ricorre come una figura ossessiva nelle pagine del Diario e ogni volta che lo vedo sbarro la pagina e la impalo sulla fetta di patata fino a strapparla definitivamente. Nel frattempo le pareti terrose franano a intermittenza seguendo il ritmo delle mie pugnalate di carta, e come una gonna che si sfalda la terra rivela radici, pelucchi, insetti e esserini amorfi storditi e in fuga; le tenere viscere così fertili e scomposte, l’intimità in cui sono rinchiuso e da cui fuggivo. Da qualche parte nel buio la Nonna-Lavandula sorride, o forse gorgoglia terra. Accarezzo il suolo. Finito il mucchietto di fogli e patate sputo sulla cima e torno a rannicchiarmi sussurrando due parole contro di te e due contro il Signor-Padre.
Dottor-Nonno, le chiacchierate e i compiti per casa ci diedero vita e senso, da specchi a cavalieri dell’orrore; svolgere il rituale dell’incontro, lo stupore, la prima parola. Tutto sembrava volgersi verso delle direzioni non chiare e importanti, ma visibili e concrete. Così trovammo altre strade nei tuoi sentieri, altre parole nelle tue lezioni e, stipate nella memoria, queste cominciarono a germogliare. Ricordammo tutto, solo per te, Dottor-Nonno. Gli agenti che ci fornivano le missioni cambiavano ogni volta ma il fulcro era sempre lo stesso. Spaesamento. Spostarti un mobile da una parte all’altra della casa, scaricare del concime nel camino, nascondere tutti i colini e così via. Richieste innocenti. I nostri litigi aumentavano con le nostre domande su una vita buttata a coltivare quel pezzo di terra in campagna. Le tue risposte inesistenti precipitavano come piombo sul velluto.
Fui del gas pianeta: ogni mia ruga, ansa del torso, piega della schiena, dà dimora alla Regina-Lavandula. Fuori, fra la nebbia che avanza e l’ultimo spicchio di sole, giunge la rumorosa invasione di borbottii e grida di richiamo. La ricerca deve essere cominciata da un po’. Torsione vocale acuta di un omone, forse a cavallo. Eccola, la voce alta e a tratti stridula del Dottor-Nonno, ritmata da brusche interruzioni, che sovrasta la piana ben prima del dominio totale dell’ombra. Svelto sussurro le ultime parole necessarie e poi mi schiaccio sul terreno. Torba morta da tempo. Io non sono qui.
Dottor-Nonno, quando il portico si vuotò completamente e nemmeno più i ricordi, come gli amici o i conoscenti, vi si aggiravano, giunse l’ultimo compito per casa. Arrivò quando ci fu vietato l’accesso alla carbonaia – il che la trasformò nel mausoleo ufficioso della Nonna-Lavandula. La preghiera straniante delle nostre visioni richiese un atto definitivo e totale che preparasse la grande sepoltura. Eravamo giunti a un punto in cui chiedere spiegazioni, porre nessi causali e distribuire responsabilità aveva perso senso. Condurre la nostra epica vendemmia dei tuoi rancori e delle tue certezze era il nostro scopo. Strappare e setacciare, sedare e scombinare, fino a che il tempo non fosse diventato fuor di sesto. Così spargemmo il nostro loculo iniziale, il corpo e il nome che ci avevi iniettato a forza, in mille rivoli. «Rannicchiati con il lupo, cresci nella lavanda, spezza il rosmarino e dormi con il cane». Cantammo con la cinciallegra e grufolammo con il maiale. Il Dottor-Nonno al limite dello schifo strabordò nella risata del disgusto e nella scudisciata dell’addestratore. Un’altra disciplina, un altro corpo da addomesticare. Poi arrivarono le carezze. Mani grandi, piene di cibo e affetto, miste al pianto rabbioso e al filosofare da passeggiata.
Il vapore sotterraneo mi spurga ogni ferita con qualcosa di ancora più umido e infetto, sostituendo al dolore la decomposizione. Al di sopra della terra il raschiare dei cani e il vociare umano. Un lieve gelo mi comprime la testa e il calore magico del rituale comincia a svanire nel corpo duro e invisibile della memoria. La tettonica delle placche dei pensieri congiunge e spacca l’odio stagionato per il Dottor-Nonno e prepara il ritorno alla dispersione, a riperdere l’infanzia, a carbonizzare i vocabolari, a riscrivere la fine nelle linee tiepide di un giardino bruciato da poco. Riprendo il filo del Signor-Padre e le sue profezie generazionali. Ma sono miei questi pensieri e queste parole? Ma è mio questo filetto di carne già trangugiato? Poi un ramoscello cade dalla bocca della carbonaia insieme a qualche bestemmia di esultazione.
Oh Dottor-Nonno, ma dopo, dopo più nulla. Ci lasciasti andare come avevi lasciato andare la nonna, con una passeggiata notturna. Di lì fu solo silenzio. Ma a quel punto capimmo che non avremmo mai potuto odiarti di quell’odio rotondo e ispirato dell’ego. Noi siamo il ritorcersi indifferente della terra sulle mani callose di stupidità dell’uomo. Noi dobbiamo tornare da te, Dottor-Nonno, per ingiunzione materica e stimolo vitale. Tu, in fondo, non sei nemmeno un fondale d’uomo, con caratteri definiti e crudeli: sei solo la coscienza volatile della disperazione, della ripetizione senile e vuota. Noi ti accogliamo nell’abbraccio della sepoltura, ti stringiamo come un vuoto barattolo fra le spire di una palude. Da questo ponte di brevissima riflessione emerse un’idea, si concretizzò una necessità singolare. Che tu venissi fagocitato dalla terra, da chi davvero può farlo, da chi ti ricorda, da chi sa chi sei, laddove noi ti vediamo per procura, per un tenue impulso della carne. E così fu il passaggio da chi non ti vede a chi ti sa.
Alla scomparsa della Regina-Lavandula un sorriso inutile e bieco taglia il mio viso. Ti vedo, Dottor-Nonno. Accovacciato sulla cima della carbonaia a bisbigliare ordini ai contadini mentre gesticoli con le mani di salvezze certe e di animali da mettere in gabbia, una volta per tutte. Mi ritorna alla mente la prima vera fuga; quando incontrai tutti voi o divenni tutti voi o vi conobbi, poco dopo il compito per casa impartitomi dalla Strega nel pollaio. Altre tre tazze si erano presentate sul tavolo quella mattina, poco prima delle lezioni, ma una era viola-ospite e segnava un qualche sopruso, perché mi ricordo ancora il broncio deforme del Dottor-Nonno. Voi vi affacciaste da una delle tasche di una giubba nera abbandonata su una sedia, vicino a un cesto di lavande spezzate. Nello sguardo ipnotico dei rombi grigi, le vostre parole apparvero e conclusero un mio pensiero «e per questo il sole gira solo di giorno mentre la luna sempre si fa vedere». Da quella profondità vi sentii sporgervi dal bordo del pozzo, della giubba, della carbonaia. I miei occhi: tunnel lontani; le vostre parole: zampilli velocissimi. E volevo restare da solo, con la giubba e il rumore di tagliaerba in sottofondo, il grillo che zampettava nervoso nel barattolo di vetro e l’attesa. La lunga attesa prima della lezione, piena di erba bagnata, pensierini accartocciati e latte secco ai lati delle labbra.
Dottor-Nonno, il corpo venne ricomprato a suon di tagli e memorie turpi; fazzoletti sporchi custoditi in fondo alla soffitta, durissimi pezzi di pane macchiati di lavanda e altri ammennicoli intelaiati nel singolo nome e nel singolo corpo. Il Lupo Lettore ci diede un compito per casa perfetto: trafugare te. Così rubammo il Diario di Guerra e Malattia e, seguendo le istruzioni del Lupo, strappammo una patata dal tuo orto. Infine una sveltina di sguardi nella camera della terza tazza originale, trasfusioni di velluto e oro nelle narici moderate da una bordata di abissi crudeli, smaniosi di delitto e di grazia. La stanchezza avanzava come se le pareti del visibile si stessero staccando; le visioni chiedevano e spingevano e la retina, sorda e cupa, iniziava a sfibrarsi. Desiderosi di cucire la bocca muta del fantasma per non vedere più, per non pensare più a ciò che venne perso: una statua nel buio familiare.
E così la Regina-Lavandula torna a essere un punto grigio e acuto nella memoria, una maestosa ottusità, mentre il mio corpo, per simmetria divina, diventa marmo. Lo schiamazzare urgente del regno di sopra gocciola pigro dentro le mie orecchie spente. Il Dottor-Nonno arriva a pezzettini, sembra colare le sue ultime viscere rimaste in forma di parole, e quel poco che giunge è ulteriormente filtrato dal mio torpore lenitivo e moribondo. Lo so che la carbonaia non è profonda, ma la superstizione è forte e la storia implacabile. Si dice che un anziano ci andò a passare le sue ultime ore tanto tempo fa, in una carbonaia come questa, e che non pochi cani ci si sono rintanati prima di morire anche loro. Ma l’ultima missione è compiuta e niente più visioni, niente più spinte in avanti laddove i tendini e la pelle sono sempre più consunti, sempre tirati più di quanto avessero mai potuto. Sono stanco e appagato, leggermente orgoglioso. Un orgoglio deforme e sgrassato. Sono dall’altra parte. Solo quiete, ora.
Ce lo chiedesti più e più volte. Le risposte semplicemente non erano lì. Non erano nella claustrofobia rurale di un professore finito a coltivare more e begonie. Non erano nell’incespicare timido di un ragazzo affascinato dal dispiegarsi della mente e dalle tazze assenti. Non erano nemmeno, e qui il terreno si spacca fin quasi a cedere, nell’orribile strappo che può subire una vita così fragile e compressa quando la morte spezza un monumento di calli e silenzio. Finiti i tuoi compiti per casa, noi cedemmo il passo e gorgogliammo il passato, tornammo alle case, nelle bocche e nelle corolle. Non ti abbandoniamo veramente perché non siamo mai stati con te, ti abbiamo solo attraversato per farti sapere. Sapere che il mondo non finisce qui, che continua e spazia e ti attende ancora. Fin dentro le fratte, le paludi e le recinzioni. Giù nel fondo nero delle foreste che della profondità umana non sa che farsene e fa sgorgare il tempo. Siamo la linea di fuga, la crepa da seguire fino al possibile, inutile grido finale. Oltre il legno marcito, il carbone che germoglia e sotto fino al suolo umido.
Attendiamo irrequieti sotto la Carbonaia. Sotto la curva convessa e cava del reale.
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↔ In alto: Photo by Paweł Czerwiński on Unsplash
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