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Proprio dove è sciocca qualsiasi risposta, è lì che si domanda la domanda.”
Guimarães Rosa, Grande Sertão

È una notte cupa di un mondo cupo e il cielo pare essersi accartocciato su sé stesso, non più infinito ma teso, serrato, incapace di estendersi oltre le pupille dei miei occhi, ora neri per emulazione. Nel silenzio roboante di nessuna voce e numerosi grilli i miei sensi hanno finito col rinunciare alle loro funzioni vitali; uomo, pezzo di legno o blocco di marmo è la stessa cosa, nessuno noterebbe alcuna differenza, tantomeno io. Spari nella selva, radenti al terreno: il Caporale mi chiede se ho paura, che domande fai ragazzo mio, l’uomo non è uomo vero se non prova timore: se respiri, se ami, se ti guardi intorno hai paura, sempre, non t’abbandona mai, è più fedele d’un cane.

Ha ragione Capitano, io ho paura, molta, di non rivedere più Alma, e mia madre e la nostra fattoria e i nostri campi, i nostri alberi su in campagna. Sa, ho sempre preferito la natura alla città, alle macchine e ai rumori, alle signorine vestite in modo audace e alle tante, troppe guardie, ad ogni angolo, ossessionate dall’ordine e dal controllo.

Ragazzo, segui il consiglio del tuo Capitano, non pensare, in questo momento cerca di non pensare a nulla. Che coraggio che ci vuole a fissare negli occhi un soldato di vent’anni e dirgli che l’unica cosa da fare è smettere di pensare – come se poi fosse possibile – perché troppi pensieri distraggono e la distrazione avvicina zitto zitto  il proiettile maligno, quello definitivo, in questa palude fangosa in cui se ti specchi per sbaglio noti il tuo viso deformato, ti sfiori tremante e ti senti liquefare, la pelle che si stacca disgustata dal teschio, e quindi non ti guardi mai, eviti qualsiasi superficie riflettente, i corsi d’acqua, gli sguardi che chiedono spiegazioni, che supplicano conforto. La terra non è posto per cercare conforto. Povero Caporale, ti parlo e già mi pento di doverti mentire, e son costretto a farlo solamente per farti rimanere in piedi, per farti continuare a respirare e respirare ancora vuol dire continuare a combattere. Non tornerai più da Alma e non getterai più il tuo corpo sui prati del Nord. L’ombra di questa nottata s’allunga su tutti i nostri sforzi, privandoli di peso e consistenza; la solitudine s’appiccica alle costole e isola i nostri sensi. Caporale mi accenda questa sigaretta prima che la pioggia me la bagni del tutto, il cielo versa lacrime per noi e già ci compiange, fradici siamo e fradici rimarremo, reietti, abbandonati da ogni speranza.

Su, Capitano, non sia così tetro, a nulla varrà il suo pessimismo, tantomeno a migliorar la situazione. Presto saremo sulla via del ritorno e avremo il vino e il pane e scrivere alle nostre donne non sarà penoso come lo è ora. Cara Alma, domani sarà una giornata fondamentale per la nostra sorte, me l’ha assicurato il Capitano, ci sposteremo in mattinata nella valle e da lì al tramonto ci prepareremo per l’attacco all’ultimo baluardo nemico. Sono convinto che ogni cosa andrà per il meglio, perché tu vegli su di me e la tua protezione è l’unica cosa di cui ho bisogno adesso. Alma, torneremo a rincorrerci sotto il pesco che ami tanto, te lo prometto.
Tuo

Ho scavato così a lungo dentro di me durante quest’eternità oscura, giorno dopo giorno, dimenticando visi, voci, canzoni, che mi è impossibile andare avanti. Non ho più memoria di un risveglio e di un focolare, di un abbraccio, una notte costante dentro e fuori di me. Poi il Caporale mi ha chiesto chi mi aspettasse a casa. Dov’è la mia casa? Saperlo colmerebbe tutta la differenza che separa la morte e la morte in vita. La mia casa. Era dove adesso non è più, sdraiato su questa fanghiglia sordida non riesco neanche a immaginarla, nemmeno a figurarmi l’idea di una dimora mia, con sorrisi e sussurri, e baci stretti nell’alba. Caporale, ormai sono un vecchio, tu hai tutto il diritto di sognare ancora la tua casa, le mani che ti accarezzano.

Un altro colpo al cuore, hanno ammazzato il Tenente. Il Capitano non sa come dircelo, muove nervosamente la testa, farfuglia parole sconnesse e sputa a terra. Guardo i miei commilitoni e intravedo occhi pieni di paura. Di rabbia e paura. Nessuno parla durante la ritirata, la stanchezza e il dolore appesantiscono il passo e rallentano il cammino. Il sentiero che sale su oltre il guado del fiume non mi è mai sembrato così ripido come oggi. Ho chiesto al Capitano se crede che sia possibile continuare ad amare dopo la morte. Non ha risposto subito. Ha sistemato la giubba, si è grattato la fronte e mi ha detto che un sentimento vero e profondo oltrepassa la morte, se ne infischia della morte, così ha detto. Poi si è alzato, ha accennato un sorriso e si è allontanato lentamente verso il suo giaciglio.

Come pianse quella sera il Caporale, mai l’avevo visto così afflitto, lui e ogni bravo ragazzo seduto intorno a quel fuoco timido. Il Tenente era uomo tutto d’un pezzo, fegato ardito e parola schietta, mano veloce, un vero soldato, uno con cui condividere sigarette in silenzio e in sincerità. Le persone muoiono, ragazzo mio, il tempo passa e tu continui a vivere chiedendoti il motivo. La storia seleziona ma non cancella, ci usa come pilastri per fragili case di ricordi. Su quella fanghiglia maleodorante e immeritevole di sangue ho perso negli anni parte di me, la più importante: mio padre, mia madre, mio fratello e i miei migliori amici e tutta la volontà che avevo di vivere, e mi pento delle promesse che non ho mai fatto perché ora almeno mi spingerebbero a svegliarmi domani, dopodomani e il giorno dopo ancora, solo per poterle mantenere e rispettare. Mi è mancato il coraggio e la Luna, ogni notte, non fa che rinfacciarmelo. Su questa landa desolata, fatta di canali e labirinti scuri, domani morirò e ogni persona avrà già finito le lacrime, terminato le parole, e solo la pioggia continuerà a battere a terra per me, per dimostrarmi che non valgo alcuna luce. Nient’altro. Ho già adesso nostalgia della mia fine.

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↔ In alto: foto di Free-Photos da Pixabay.

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